2018-09-13
La denuncia degli eritrei: «C’è una rete che spinge i nostri giovani a migrare»
La comunità africana in Italia parla di un sistema organizzato per convincere migliaia di persone a venire qui. Con la collaborazione di attivisti italiani.Martedì, per la prima volta dopo quasi trent'anni, è stato aperto il confine tra Etiopia e e Eritrea. È un momento di festa per i due Paesi africani, il frutto di una distensione a cui i governi lavorano da tempo, e che ha cominciato a diventare reale e tangibile nel luglio scorso, quando il presidente eritreo, Isaias Afwerki, e il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, si sono incontrati a Addis Abeba. È la fine di un conflitto (iniziato nel 1998) che ha causato migliaia di morti e una frattura profonda in quella zona del continente africano. La notizia, in qualche modo, tocca anche l'Italia. Perché da quei luoghi - proprio in virtù di questo conflitto - sono giunte negli ultimi anni migliaia di persone: 6.953 nel solo 2017, oltre 110.000 dal 2013 a oggi. Una marea. Benché la sorte dell'Eritrea sia rilevante anche per i nostri interessi, da queste parti si sa davvero poco del Paese guidato da Afwerki. Di solito la questione viene posta in questi termini: in Eritrea c'è una feroce dittatura militare, i cittadini scappano e noi dobbiamo accoglierli perché effettivamente «fuggono dalla guerra». Frasi di questo tipo le abbiamo sentite ripetere più volte anche nei giorni scorsi, a corredo della vicenda della nave Diciotti, su cui appunto viaggiavano circa 125 eritrei (o presunti tali). La realtà, tuttavia, è decisamente più complessa, almeno stando a quanto raccontano i rappresentanti della Comunità eritrea in Italia, un'associazione che rappresenta circa 10.000 persone che da quella terra sono giunte qui nel corso dei decenni. L'associazione ogni anno organizza un festival culturale e si prodiga per mettere in piedi numerose iniziative. Però la sua voce non è molto ascoltata, anzi, viene per lo più ignorata e adesso vedremo perché. È passato sotto silenzio, per dire, il comunicato stampa che la Comunità eritrea a diffuso sul caso della Diciotti. Un testo molto duro, in cui l'associazione si dice dispiaciuta per la «solita strumentalizzazione politica dei migranti». «Noi conosciamo bene la verità del fenomeno migratorio via mare», scrivono gli eritrei, «e sono anni che tentiamo di raccontarla denunciando questo traffico di esseri umani ma, purtroppo, la nostra voce è rimasta inascoltata. Finora i politici e i media italiani hanno preferito dar voce a quelli che vogliono tenere aperti i porti per aumentare i numeri dell'esodo dell'immigrazione clandestina. [...] Non abbiamo mai condiviso quella legge internazionale che per oltre un decennio ha favorito i nostri connazionali con la protezione umanitaria che mirava esclusivamente a fare regime change in Eritrea svuotandola dei suoi giovani». Ecco quello che denuncia la Comunità eritrea: lo svuotamento di un intero Paese. In effetti, i dati pubblicati dalle Nazioni unite dal 2013 a oggi hanno raccontato una sorta di esodo: mille persone in media ogni mese, spiegavano dall'Onu, passavano il confine eritreo per entrare in Etiopia. Il picco si sarebbe raggiunto nel 2015, con 34.451 profughi. Questi migranti venivano accolti in grandi campi allestiti nella regione del Tigray e gestiti dal governo etiope con il sostegno di varie organizzazioni internazionali. Quel flusso umano, secondo la Comunità eritrea, è stato indotto e costruito ad arte. Daniel Wedi Korbaria, scrittore e regista teatrale eritreo, in Italia dal 1995, lo ha denunciato con un'intensa attività pubblicistica. «È stata una strategia che il primo ministro dell'Etiopia, Meles Zenawi, ha messo a punto già dai primi anni Duemila, poi amplificata grazie all'intervento di Barack Obama». In effetti sia Obama sia la sua Security advisor, Susan Rice, hanno avuto rapporti molto stretti con Zenawi, un uomo che ha esercitato un potere totale sul Paese africano dal 1991 al 2012, anno della sua morte. È stato prima presidente, poi primo ministro. «L'idea di Zenawi e Obama», prosegue Korbaria, «era quella di produrre un regime change in Eritrea, sfruttando anche l'immigrazione. Migliaia di persone sono state spinte a partire». Ai ragazzi, spiegano alcuni rappresentanti della Comunità eritrea, veniva detto di entrare in Etiopia, promettendo poi un facile approdo in Europa, specialmente nel Nord. «I nostri giovani sono partiti per finire qui, a Roma e Milano, a dormire nei giardinetti», dice Korbari. «C'è gente che ha perso così 10 anni di vita. Anche quelli che dall'Italia sono stati trasferiti in altri Paesi europei non stanno meglio: sono ancora nei campi». Insomma, avrebbe operato una sorta di macchina dell'emigrazione: dall'Eritrea ai campi in Etiopia e in Sudan, poi il passaggio in Libia, quindi il barcone verso l'Italia. Il tutto con la certezza di ottenere lo status di rifugiati, perché il messaggio dell'Onu (e degli Usa) era chiaro: gli eritrei meritano accoglienza. In verità, a partire non sono stati soltanto gli eritrei, anzi. «Il 50 o addirittura il 60% delle persone giunte qui dicendo di essere eritree sono in realtà etiopi», spiega Korbaria. Anche dei migranti a bordo della Diciotti non sappiamo quanti siano davvero eritrei, visto che nessuno di noi li ha incontrati. Tra loro potrebbero esserci anche miliziani etiopi, per quel che ne sappiamo». L'imbroglio dei finti profughi è stato denunciato anche da Fausto Biloslavo, su Panorama, a cui un richiedente asilo spiegò il sistema: «In Africa, grazie alla corruzione, rubano e vendono le nostre identità perché abbiamo diritto alla protezione internazionale». Korbaria conferma: «Nei centri di smistamento in Etiopia venivano tolti i documenti ai migranti, si è sviluppato un business». Di tutto questo, però, i media si sono occupati poco. E il motivo, secondo la Comunità eritrea, è uno solo: «Il Pd e la sinistra italiana hanno cercato di organizzare i migranti eritrei», dice Korbaria. «È stato addirittura creato il Coordinamento Eritrea democratica, con la presenza di italiani, per screditare il governo eritreo e contribuire al regime change». A parlare per gli eritrei, da queste parti, sono sempre le solite voci. Ad esempio padre Mussie Zerai, già indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina dalla Procura di Trapani. «Lui non è credibile», dice Korbaria. «Tutti noi lo conosciamo, sappiamo la sua storia». Sempre Fausto Biloslavo, sull'ultimo numero di Panorama, ha scritto che Zerai è stato condannato a due anni di reclusione nel 1994 per «concorso in detenzione ai fini di spaccio di 2,2 kg di hashish». Contattato dalla Verità, il sacerdote ha smentito con vigore, e ha annunciato azioni legali. Ma le contestazioni che gli muove Korbaria sono soprattutto politiche. Gli attivisti che operano in Italia, sostiene, puntano a favorire l'emigrazione: «Più persone vengono qui più l'Eritrea si indebolisce. Abbiamo tentato di combattere i loro giochini, abbiamo chiesto anche un incontro a Laura Boldrini, ma siamo stati ignorati». Sotto il governo precedente, in effetti, a parlare a nome degli eritrei sono stati solo attivisti come Tareke Brhane e Abrham Tesfai, tutti pro immigrazione e decisamente ostili a Matteo Salvini & C. Poi c'è Alganesc Fessaha, la fondatrice della Ong Gandhi Charity, molto apprezzata da Caritas, Cei e Comunità di Sant'Egidio. Costei ha contribuito a organizzare i corridoi umanitari dall'Etiopia, a cui la Comunità eritrea è decisamente ostile. «Noi diciamo che bisogna chiudere il mare, chiudere i porti», dice Daniel Wedi Korbaria. «Ma ci opponiamo anche ai corridoi umanitari. Le persone che vengono portate qui in quel modo sono selezionate sempre dai soliti attivisti. Davanti mettono le donne con i bambini, dietro però ci sono anche i giovani uomini, quelli che verranno qui e creeranno problemi. Ma la cosa più importante è che sia chiuso il mare, in modo che finisca una tragedia che ci ha toccato tutti».
Manifestazione a Roma di Ultima Generazione (Ansa)