2021-01-22
La censura a Trump sia una sveglia per tutti
I social hanno il monopolio dei canali informativi di massa ma agiscono al di sopra delle leggi perché nessuno ha stabilito dei confini. I «termini di servizio» valgono più delle Costituzioni. Affidare a loro le nostre vite (come la politica vuole) è un suicidioLa recente esclusione del presidente uscente degli Stati Uniti d'America Donald Trump dai più importanti social network ha suscitato critiche, entusiasmi e sconcerto. La purga, partita da Twitter il 7 gennaio durante i disordini di Capitol Hill, ha successivamente coinvolto anche Facebook, Instagram, Twitch, Tik Tok, Snapchat, YouTube, Shopify e, indirettamente, anche piattaforme non allineate come Parler, affondato dalla decisione di Apple, Google e Amazon di non fornire più le infrastrutture tecniche necessarie al suo funzionamento. Gli alternativi Telegram, Signal e Gab resistevano, e di conseguenza imbarcavano milioni di nuovi utenti incassando l'accusa di ospitare pericolose orde di attivisti di ultradestra.Come è noto, il motivo addotto di questi oscuramenti a catena sarebbe stata la presunta diffusione di incitamenti alla violenza e di notizie false o controverse sull'esito elettorale. Analizzando più da vicino l'impianto probatorio, si scoprirebbe però che già nel primo video censurato da Twitter, Trump invitava i riottosi del Campidoglio ad «andare a casa, ora. Abbiamo bisogno di pace. Dobbiamo rispettare la legge e l'ordine. Dobbiamo rispettare le persone straordinarie che difendono la legge e l'ordine. Non vogliamo che ci si faccia male. È un momento molto difficile... è un'elezione fraudolenta, ma non possiamo fare il gioco di queste persone. Abbiamo bisogno di pace. Perciò andate a casa».E che dopo 12 ore l'account @realdonaldtrump veniva brevemente riattivato e poi sospeso in via definitiva il giorno seguente, l'8 gennaio, a motivo, spiegava una nota dell'azienda, di due tweet nel frattempo pubblicati in cui il politico americano prometteva ai suoi sostenitori (nel primo) che non sarebbero stati «trattati senza rispetto o ingiustamente, in ogni forma e modo» e annunciava (nel secondo) che non avrebbe presenziato alla cerimonia di insediamento del suo successore. I censori di Twitter interpretavano questi messaggi come una «glorificazione della violenza» leggendo, ad esempio, nell'annuncio di non partecipare all'inaugurazione del nuovo mandato presidenziale un indizio della volontà di non agevolare una «transizione ordinata» dei poteri, se non addirittura un «incoraggiamento rivolto ai potenziali violenti» in quanto l'evento «sarebbe un bersaglio sicuro, non essendo egli presente». O ancora, nell'espressione «patrioti americani» un implicato «supporto a coloro che hanno commesso violenze in Campidoglio».L'oggettiva tenuità del merito rende ancora più problematico il metodo. Diversi esponenti del giornalismo, della politica e del pensiero - molti dei quali non certo filo-trumpiani - hanno espresso fondate preoccupazioni sull'entrata «a gamba tesa» delle aziende informatiche nella massima istituzione della massima potenza mondiale. Da lì, in effetti, è tutta in discesa, tutta a fortiori. Chiunque può essere colpito. Solo pochi giorni dopo l'amministratore delegato di Twitter Jack Dorsey avrebbe infatti confermato in una conversazione trapelata online che «la faccenda andrà ben oltre un singolo account e si protrarrà ben oltre questo giorno, questa settimana e le prossime settimane, e anche dopo l'insediamento [del nuovo presidente]». Gli oltre 70.000 account sospesi per avere diffuso o rilanciato tesi favorevoli a Trump, le limitazioni imposte al canale Youtube (Google) della testata giornalistica di Claudio Messora, il ban (poi rimosso) della seguitissima pagina satirica Le frasi di Osho da Facebook, per citare solo i casi più eclatanti, potrebbero insomma essere la prova generale di una più sistematica operazione di reshaping in tempo reale dell'informazione e dell'opinione pubblica.Ragionando in termini istituzionali, è evidente il problema della mancata regolazione di mezzi di comunicazione che si qualificano ormai oltre ogni dubbio come servizi pubblici de facto, senza però sottostare agli obblighi e alla vigilanza riservati ad altri settori. Gli ampi margini di autoregolazione di cui godono gli oligopolisti telematici stride con la fitta trama di standard tecnici, commerciali e contrattuali con cui le authority nazionali si sforzano altrove di imbrigliare il mercato dei servizi essenziali. Questa lacuna oggi è ancora più drammatica perché le comunicazioni a distanza, dovendosi rispettare i diktat sanitari del distanziamento, sono imposte per legge e perciò irrinunciabili, non sono più una comodità o un passatempo. Se sui software chiusi e sotto gli occhi giudicanti di queste aziende si diffondono messaggi personali, politici e istituzionali, ci si istruisce, si siglano atti ufficiali e si riuniscono i parlamenti, è difficile accettare che l'autorità pubblica costringa la popolazione ad alimentarne ulteriormente la penetrazione e quindi i poteri senza pretendere rigide garanzie. Ed è sconsolante che una parte della popolazione accetti quei poteri nell'incredibile convinzione che siano giustificati dallo status privatistico di chi li esercita. Perché allora non lasciare che le compagnie elettriche stacchino la corrente di chi spreca energia? O che quelle telefoniche tolgano la connessione a chi viola l'etica aziendale? Le organizzazioni statali nascono per delimitare e mettere in equilibrio le libertà di ciascuno. Chi rinuncia a questa funzione, rinuncia allo Stato.Chi sono questi imprenditori? Editori, provider, broadcaster, filantropi, attivisti? Con il Digital services act (Dsa) presentato in bozza lo scorso 15 dicembre, la Commissione europea si è riproposta di inquadrarne le prerogative e i doveri introducendo anche obblighi di servizio e protezioni per i consumatori. In astratto, il provvedimento va nella giusta direzione - anche perché è l'unica possibile - ma sconta un ritardo enorme e impiegherà anni prima di tradursi in legge. Nel frattempo, il ruolo dominante delle piattaforme continuerà a crescere e a influenzare i dibattiti e la percezione del pubblico finendo inevitabilmente per far sentire tutto il suo peso anche nella negoziazione delle nuove regole (che comunque varrebbero solo per il nostro continente).Al di là delle simpatie politiche, la censura di Donald Trump dovrebbe far suonare la sveglia per molti. La prima lezione è che oggi i più importanti attori politici non istituzionali sono tutto fuorché occulti. Hanno ragione sociale e partita Iva, agiscono alla luce del sole e sfidano in campo aperto la più alta carica mondiale brandendo le clausole dei propri «termini di servizio». Anche senza trattenersi sulle denunciate irregolarità del voto americano, l'episodio basta in sé per misurare lo stato dei poteri costituiti nelle cosiddette democrazie occidentali, dove le architetture costituzionali si lasciano sostituire dai contratti privati e dallo spontaneismo degli «imperativi morali».La seconda lezione ci insegna a mettere una pietra tombale sulla neutralità di un terreno dove più o meno tutti, per scelta e necessità, abbiamo messo radici. Stiamo giocando in casa d'altri secondo le regole e le inclinazioni di chi ci ospita, per di più in una fase storica dove la critica legittima ai messaggi più accreditati e «corretti» non tocca solo il diritto di esprimersi, ma per molti anche quello a salute, lavoro e sussistenza. È perciò pessima, davvero pessima, l'idea di smaterializzarci e comprimere per decreto la vita pubblica, sociale e professionale negli spazi obbligati di pochi signori digitali. Diventeremmo gli spendibili ologrammi di un quarto potere che sovrasta gli altri riplasmando la rappresentazione del mondo - e quindi il mondo - con una facilità e un'efficienza che nessun governo potrebbe eguagliare.