2020-11-18
La carta di credito della fondazione a Bonaccini, il Renzi boy d’Emilia
Stefano Bonaccini e Matteo Renzi (Ansa)
Nel 2013, l'attuale governatore coordinò la campagna del fu Rottamatore per le primarie. Era tra i pochi dotati di scheda per pagarsi le tournée elettorali: ciò conferma che Alberto Bianchi faceva da forziere alla corrente di Matteo.Addio a Rai English. Con il bilancio in rosso, Fabrizio Salini accantona il progetto avviato nel 2016 dall'ex premier. La direzione doveva andare a Monica Maggioni, citata nelle carte per la vicinanza al legale.Lo speciale contiene due articoli.Con i suoi Ray ban a goccia e la barba da hipster attempato, potrebbe recitare in una serie poliziottesca la parte dell'infiltrato. Ma questi panni sono anche perfetti per il suo prossimo possibile ruolo: stratega del rilancio di Matteo Renzi. Da tempo si sussurra che il governatore dell'Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, potrebbe diventare il cavallo di Troia del renzismo morente. L'ultimo treno per riprendere il controllo del Partito democratico. In un'intervista di settembre, lo stesso Bonaccini, fresco vincitore delle elezioni in Emilia, aveva detto: «Se secondo me Renzi e Bersani dovrebbero rientrare? Ma rientrino pure! Perché noi dobbiamo riportare quelli che sono usciti e che non ci votano più! Perché il Pd non può rimanere al 20%!».E a proposito di equini, a luglio, durante la presentazione della Mossa del cavallo, l'ultimo saggio di Renzi, a chi gli chiedeva: «Cosa direbbe a un amministratore, un presidente di Regione, che guardasse a Roma?», Matteo aveva replicato sornione: «Se quel presidente fosse Stefano Bonaccini allora gli direi di ricordarsi che nella sua regione c'è Maranello. E allora gli direi corri, non avere paura, mettiti in gioco […] perché a Roma c'è molto bisogno di persone concrete». Un'investitura che non ha certo sorpreso gli inquirenti che stanno scandagliando le carte della fondazione Open sequestrate negli uffici dell'ex presidente Alberto Bianchi, indagato per finanziamento illecito insieme con Renzi, Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai.Dagli atti risulta che Bonaccini è un Renzi boy fatto e finito. Nell'informativa del 14 luglio gli investigatori della Guardia di finanza scrivono: «Dall'analisi della documentazione, è emerso, in particolare, il ruolo attivo dell'esponente del Pd Stefano Bonaccini, all'epoca consigliere regionale Emilia Romagna e segretario Pd Emilia Romagna, in qualità di coordinatore della campagna a favore di Matteo Renzi per le primarie del Pd del 2013».Un incarico per cui Bonaccini poteva contare su un collaboratore della sua zona. Leggiamo la nota: «Si evidenzia che, sempre a sostegno di Matteo Renzi per le primarie del Pd del 2013, dalla documentazione in sequestro emerge anche la posizione di dell'esponente del Pd Andrea Rossi (attualmente deputato in quota Pd), all'epoca sindaco del Comune di Casalgrande (Reggio Emilia), in qualità di coadiutore di Stefano Bonaccini». Nel capitolo «punti di saldatura con il Pd» della corrente renziana i finanzieri elencano i nomi di chi è stato candidato in Parlamento nel 2013 e di chi, dopo la proclamazione di Renzi a segretario del partito, è entrato nella sua segreteria. In questo caso citano proprio Bonaccini, Lotti e Boschi, mentre, per quanto riguarda i componenti della direzione nazionale, menzionano Rossi, Simona Bonafè, Lorenza Bonaccorsi, Roberto Reggi e Federico Berruti. Nella documentazione è stato persino trovato un curriculum del governatore, neanche fosse stato uno stagista.Dal cv apprendiamo che egli ha conseguito la maturità scientifica, che parla l'italiano e che come esperienza lavorativa, all'epoca, aveva inserito quella da consigliere regionale dell'Emilia Romagna. Nelle carte si trova anche una sua «nota biografica» ed è pure indicata una cena che si è tenuta alla vigilia delle primarie del 2013. L'incontro conviviale si svolse il 18 novembre in una storica osteria di Firenze, Il Latini, famoso per la fiorentina e i fiaschi di Chianti a vista e in una mail sono indicati i partecipanti, in pratica gli incursori di Renzi: «Serracchiani, Emiliano, Ricci, Bonaccini, Lotti, Boschi, Rossi, Burlando, Gnassi, Bonifazi, Fassino, Bellacci».Agli atti c'è la fotocopia della carta di credito della Open a lui assegnata. In pochi hanno avuto l'onore di utilizzare quelle schede e il privilegio era concesso a chi davvero era operativo e stava dando una mano concreta alla scalata del fu Rottamatore alla conquista del potere. Si tratta della carta Cabelpay numero 5364970012146620, con scadenza ottobre 2017, con due appunti manoscritti: «Stefano Bonaccini» e, al centro del foglio, «consegnata da AB (Alberto Bianchi, ndr) nel corso della Leopolda».Nei faldoni figura anche una nota spese di Bonaccini per la «campagna elettorale dal 12 ottobre al 31 dicembre 2013». In quel periodo il nostro ha speso 2.250 euro: 778 per «taxi, parcheggi, biglietti ferroviari, carburante»; 450 di vitto; 1.021 di altre «spese documentate». Che però sembrano quasi una fotocopia delle prime: «parcheggi, taxi, snack, biglietti tram», ma anche «mance». In un altro documento sono dettagliati 970 euro di spese di viaggio. Sono elencati una ventina di spostamenti, soprattutto per «riunioni», tutti sulla direttrice Bologna-Firenze-Roma.È stato depositato anche un estratto conto con 18 pernottamenti (tre sono di Rossi), 8 a Firenze, 6 a Roma e quattro tra Genova, Perugia, Pescara e Milano. Importo totale: 1.732,3 euro. Importi non certo paragonabili a quelli di Renzi, che già in quegli anni preferiva soggiornare negli hotel a 5 stelle. Gli unici importi notevoli sono 184 euro a Pescara. Gli investigatori sottolineano anche due pernottamenti a Firenze tra il 25-27 ottobre 2017, i giorni della Leopolda: «Pagamento di 311 euro, autorizzato da Alberto Bianchi, a favore dell'hotel “Nh Firenze"» si legge nell'informativa.Dunque, Bonaccini potrebbe, suo malgrado, non essere solo il cavallo di Troia di Renzi per rientrare in gioco, ma pure quello degli inquirenti fiorentini, intenzionati a dimostrare che Open non era una fondazione come le altre, ma la cassaforte del Giglio magico nella corsa a Palazzo Chigi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-carta-di-credito-della-fondazione-a-bonaccini-il-renzi-boy-demilia-2648961775.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="addio-a-rai-english-canale-del-bullo" data-post-id="2648961775" data-published-at="1605678939" data-use-pagination="False"> Addio a Rai English, canale del Bullo Rai, we can't. Non ci sarà un canale in inglese sulla nostra televisione di Stato. Il progetto è stato accantonato dall'amministratore delegato Fabrizio Salini per esigenze di bilancio, come già anticipato da Striscia la Notizia. Del resto la televisione di Stato rischia il default per i conti in rosso, tanto che il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, avrebbe già mandato l'avviso di sfratto proprio a Salini, in scadenza in primavera. Il default sarebbe stato evitato grazie all'ennesimo intervento del Mef, distraendo risorse alla legge di Bilancio. Proprio per questo vale la pena raccontare la storia del progetto Rai English, già costato agli italiani almeno 2 milioni di euro solo per partire ma poi finito nel cestino e mai andato in onda. È uno dei tanti voli pindarici della stagione del governo di Matteo Renzi. In pochi lo ricordano, ma fu l'attuale leader di Italia viva a parlarne per primo in una delle sue storiche dirette #matteorisponde da Palazzo Chigi. All'epoca Renzi rispondeva su Facebook e Twitter durante piccole maratone digitali. Erano i primi mesi del 2016, a poca distanza dall'appuntamento del 4 dicembre sul referendum costituzionale. Le promesse si sprecavano per convincere gli italiani ad andare a votare per il sì. «Un canale Rai solo in lingua inglese con i sottotitoli? È un progetto sul quale la Rai potrà lavorare. Girerò la richiesta ai vertici dell'azienda», spiegò l'ex segretario del Pd che veniva ripreso più volte per il suo accento non particolarmente british. A quanto pare lo fece per davvero, perché la macchina per inaugurare un canale in inglese sulla Rai entrò in moto. Erano altri tempi. C'era ancora come direttore generale Antonio Campo Dall'Orto, mentre il presidente era Monica Maggioni, che, come riportato dalle carte sull'inchiesta della Fondazione Open, aveva un canale di comunicazione diretta con Alberto Bianchi, l'avvocato del Giglio magico. Poi, fino al 2019, si è parlato poco del progetto. Anche se già dopo la stagione del renzismo diversi quotidiani davano spazio alle pressioni della Maggioni per portarlo avanti. Sta di fatto che nel marzo del 2019, nonostante l'arrivo del primo governo di Giuseppe Conte a trazione Lega-M5s, Rai English riesce a trovare spazio nel piano industriale. E in viale Mazzini decidono che a gestirlo sarà Rai Com, braccio commerciale della tv statale, presieduto da un mese proprio da Monica Maggioni. Per diversi commentatori Rai English è proprio un regalo all'ex presidente, grande amica di Bianchi e Renzi. Salini in aprile annuncia in pompa magna che il canale andrà «a riempire un tassello della tv pubblica che in Italia non esiste e che è già forte negli altri Paesi europei». In pochi mesi scoppia la polemica. L'associazione Rai Bene comune pubblica a maggio su Facebook un lungo post di critica su tutta la vicenda. «La Rai», si legge in un post ancora presente sul social network, «pur avendo uomini e mezzi, decide di sottrarsi dai suoi obblighi e delega la potente Rai Com, il suo braccio commerciale, per realizzare il canale, tentando forse di trasformare quello che dovrebbe essere un servizio in un business […] . Quali sono le reali ragioni che portano un canale così importante per il servizio pubblico a essere “subappaltato" a una società con fini esclusivamente commerciali? Chi sta sostenendo i costi per finanziare il progetto?». Le risposte non arrivano. Ma i lavori proseguono in ogni caso. Anzi, c'è già chi azzarda un'ipotesi. Dopo Rai Com, Maggioni diventerà il direttore proprio del canale in inglese. Ma la situazione si raffredda in poco tempo. Già nel settembre dello scorso anno il nome dell'ex presidente Rai inizia a circolare per altre direzioni. Per di più, come direttore di Rai English arriva Fabrizio Ferragni. È il canto del cigno. I soldi sono ormai perduti. Maggioni intanto conduce su Rai 1 il programma Sette storie, il lunedì in seconda serata. Tutto in italiano.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
Continua a leggereRiduci