Killer suicida, si valuta l’ispezione. E al Csm chiedono di vederci chiaro

Una donna è morta, un uomo è stato gravemente ferito e l’assassino si è tolto la vita. Ma questa non è una vicenda che comincia con il sangue. Comincia con una firma. Quella che ha autorizzato Emanuele De Maria, 35 anni, in passato condannato per omicidio volontario e con una latitanza in Germania sulle spalle, a uscire dal carcere per lavorare nella reception dell’hotel Berna a Milano. Una firma apposta alla fine di una procedura prevista dalla legge, condita da relazioni e valutazioni. Ma qualcosa non ha funzionato.
Il 10 maggio De Maria ha ucciso la collega Chamila Wijesuriya, 50 anni, barista del Berna, poi ha accoltellato un collega italo-egiziano (pure lui barista al Berna) e infine si è lanciato dalle terrazze del Duomo di Milano. E ora c’è da capire come sia stato possibile. Cinque consiglieri del Csm in quota centrodestra (Claudia Eccher, Isabella Bertolini, Daniela Bianchini, Felice Giuffré ed Enrico Aimi) hanno formalmente chiesto l’apertura di una pratica a carico del magistrato di sorveglianza che ha trattato la pratica De Maria, il giudice Giulia Turri. Chiedono di accertare se sul provvedimento che ha autorizzato De Maria al lavoro all’esterno del carcere «ci sia stato un effettivo controllo». «L’iniziativa», spiegano i consiglieri di centrodestra, «ha lo scopo di raccogliere elementi utili per la valutazione del magistrato sia sotto l’aspetto professionale e sia sotto quello eventualmente disciplinare». E ricordano che la concessione del lavoro esterno non è automatica. «La legge», sottolineano, «subordina la concessione alla previa approvazione del magistrato di sorveglianza». Serve una valutazione individuale. E prudenza. Soprattutto quando si ha a che fare con chi ha già ucciso. Come De Maria, che nel 2016 massacrò Oumaima Rache, una ragazza tunisina di 23 anni. Condannato a 14 anni e 3 mesi, era detenuto a Bollate. Ma già da due anni usciva regolarmente per lavorare come receptionist.
«Il ministro Carlo Nordio valuterà con attenzione atti e fatti prima di decidere se intervenire con un’ispezione», ha dichiarato Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia. «Siamo di fronte a un soggetto che ha predisposto un piano terribile e si è tolto la vita in un modo eclatante. Un caso particolare. Ma forse poteva indurre a un maggiore approfondimento».
Parole misurate. Che però pesano. Dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Milano hanno espresso cordoglio alle famiglie delle vittime. E hanno difeso l’operato degli uffici. I presidenti Giuseppe Ondei e Anna Maria Oddone hanno spiegato che il provvedimento concesso era stato «frutto di un’istruttoria accurata, svolta con il concorso dell’Amministrazione penitenziaria e delle forze dell’ordine», e che il comportamento del detenuto era sempre stato «positivo». Nessun segnale. Solo una facciata di apparente normalità. Ma dietro quella facciata c’era un uomo che covava rancore. Chamila aveva interrotto la frequentazione. Il collega accoltellato (sopravvissuto) le aveva consigliato di chiudere il rapporto. Forse aveva intuito il pericolo. Ma era già tardi. Himanshu, il marito di Chamila, ieri ha lanciato un monito: «Fate più attenzione quando date la libertà a chi ha commesso un omicidio volontario». Ma tra le toghe progressiste quelle di Area alzano la voce. Il segretario Giovanni Zaccaro evidenzia che «chi ha responsabilità istituzionali» non dovrebbe «cogliere l’occasione per l’ennesima delegittimazione della magistratura di sorveglianza». Il caso De Maria, però, segna uno spartiacque. È la dimostrazione che l’equilibrio tra sicurezza e rieducazione non può reggersi solo su protocolli e buone intenzioni.






