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2023-11-07
Kiev e Israele mandano l’Ue in cortocircuito
Ursula von der Leyen (Getty Images)
Il nuovo fronte mediorientale getta nel caos i vertici europei. La mancanza di una linea politica, già evidente in molti altri momenti storici dell’Unione europea, come quello della guerra in Ucraina, viene nuovamente fuori con prepotenza a causa del conflitto tra Hamas e Israele. Il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen sostiene che l’Ue debba giocare un ruolo su un futuro di pace in Medio Oriente e offre «alcune possibili idee» per il dopo guerra. «Gaza non può essere paradiso per i terroristi, Hamas non può ricostruire la sua base nella Striscia», sostiene. Ecco allora la possibilità di una «missione di pace internazionale sotto l’Onu». Ci deve essere poi solo «un’autorità palestinese» a governare uno «Stato palestinese». Allo stesso tempo le forze israeliane «non possono stare a Gaza, non ci deve essere espulsione dei palestinesi dalla Striscia e il blocco deve terminare».
Una posizione questa, quando a parlare è il vertice dell’organo esecutivo, che agli occhi di chi legge potrebbe rappresentare la volontà dell’Unione, eppure non è così. «È la prima volta che ne sentiamo parlare» ha dichiarato un alto funzionario del Consiglio Ue in risposta alla domanda se il presidente della Commissione europea si fosse coordinato con il Consiglio o con gli Stati membri prima di avanzare le sue idee di pace per il Medio Oriente. Prima di esporre ieri agli ambasciatori Ue, e al pubblico, le sue idee su come dovrebbe essere affrontata la crisi in corso nel Medio Oriente, non ha consultato «nessuno» Stato membro, né il Consiglio. Sottolinea la fonte: «Non è stato consultato nessuno». La Von der Leyen era già stata criticata per essersi recata in Israele subito dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre scorso, insieme con il presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, senza avere preventivamente consultato gli Stati membri, che hanno la competenza sulla politica estera dell’Unione, la quale viene coordinata, ma non decisa, dall’Alto rappresentante. Insomma ancora una volta si va alla rincorsa senza strategia.
Copione già visto con la guerra in Ucraina, tanto che l’Alto rappresentante per la politica Ue, Josep Borrell, in una sorta di excusatio non petita si è rivolto così agli ambasciatori Ue: «Non possiamo sentirci stanchi di sostenere l’Ucraina, dobbiamo tenere d’occhio le nostre opinioni pubbliche, combattere la stanchezza. Se l’Ucraina perde, noi perdiamo. La Russia è pronta a sacrificare uomini e mezzi per vincere, la vita umana per Putin non ha significato, come ai tempi di Stalin, si crede che la quantità abbia un’intrinseca qualità. L’unica soluzione è continuare a sostenerla e restare uniti», ha aggiunto. Insomma la crisi è evidente su quel fronte. L’Europa è stanca, soprattutto adesso che questo nuovo conflitto richiede risorse aggiuntive. Ed è per lo stesso motivo che gli Stati Uniti a stretto giro potrebbero decidere di tagliare gli aiuti, anche in vista delle prossime elezioni presidenziali, per decidere di concentrarsi sul fronte mediorientale. «Il presidente Biden ha detto a Israele di non lasciarsi accecare dalla rabbia. È questo il messaggio che gli amici di Israele devono mandare: di non farsi accecare dalla rabbia. Il diritto a difendersi deve essere esercitato secondo il diritto internazionale». ha detto Borrell sottolineando che gli europei hanno «l’obbligo morale e politico di essere coinvolti, non solo fornendo aiuti umanitari ma contribuendo a una soluzione duratura». «A breve termine», ha aggiunto, «la priorità è la pace e fermare le violenze».
Nel frattempo non si può tralasciare il fatto che la stessa Ursula von der Leyen la settimana scorsa ha annunciato l’arrivo del dodicesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia. «Le nuove sanzioni toccheranno fino a 100 nuovi individui» coinvolti nell’aggressione all’Ucraina, «nuovi divieti di import ed export, azioni per inasprire il tetto al prezzo del petrolio e misure severe nei confronti delle società di Paesi terzi che eludono le sanzioni», ha spiegato la Von der Leyen. Sanzioni che continuano però a indebolire anche l’Europa al contrario degli Stati Uniti che invece ne approfittano per vendere i loro Lng. Lo sa anche Borrell, la guerra in Ucraina è alla fine della sua corsa e le sanzioni ormai non servono più. A ogni modo l’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera si recherà oggi in Giappone dove resterà fino al 9 novembre per partecipare alla seconda riunione dei ministri degli Esteri del G7 sotto la presidenza giapponese del 2023.
Durante l’incontro, Borrell e i ministri degli Esteri di Giappone, Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Italia e Regno Unito discuteranno in modo approfondito su una serie di questioni di politica estera e di sicurezza di grande attualità, in particolare la situazione in Medio Oriente, il continuo sostegno del G7 all’Ucraina di fronte alla guerra di aggressione della Russia e i principali sviluppi nella regione indo-pacifica. Non è chiaro, però, se Borrell parteciperà all’incontro con un mandato in grado di rappresentare l’intera Unione.
L’università di Napoli «okkupata». Gli amici di Cospito con Hamas
«Per la Palestina, fino alla vittoria!». Le tute nere con i passamontagna che di primo mattino stendono il drappo sul balcone centrale di palazzo Giusso potrebbero essere tranquillamente scambiate per la cellula partenopea di Hamas. Invece è un piccolo gruppo di studenti dei collettivi che tenta di non farsi riconoscere mentre occupa l’università degli Studi orientali di Napoli, storica roccaforte della sinistra studentesca, di nuovo sulla breccia con il ritardo di un mese. Mentre La Sapienza di Roma (Filosofia), la Statale di Milano (Farmacia) e l’UniPa di Palermo sprangavano i laboratori e sfilavano da un paio di settimane nei quasi quotidiani cortei contro Israele, il torpore napoletano sembrava accomunare gli ultrà fuori corso avvolti nella bandiera palestinese alla squadra di Rudy Garcia. Poco reattivi, ma adesso si sono allineati.
«Solidarietà alla resistenza di Gaza», sostengono gli incappucciati che sui social tendono a inglobare nel loro gesto la totalità degli iscritti alle facoltà dell’ateneo, quando neppure un ventesimo di questi ultimi partecipa. «È da quasi un mese che a Gaza, nel silenzio e nella complicità dei governi occidentali, in primis quello italiano, si consuma un genocidio perpetrato ai danni della popolazione palestinese», postano su Facebook gli okkupanti in prima linea, che fanno parte del gruppo Ex Opg (ospedale psichiatrico giudiziario) «Je so’ pazzo».
La protesta si allarga secondo uno stanco riflesso condizionato noto da decenni e tocca i soliti temi cari alla gauche gruppettara in keffiah. «Se le istituzioni e i media hanno dimostrato la palese volontà di insabbiare i crimini di guerra di cui è responsabile il governo israeliano, è urgente e necessario che una risposta in solidarietà del popolo palestinese parta dal basso, da noi studenti e studentesse che non vogliamo restare in silenzio davanti a tutto ciò. Non possiamo restare indifferenti, è il momento di agire».
In attesa di ottenere a loro volta la solidarietà di mezzo Pd, di Giuseppe Conte e di togliersi il passamontagna per fare passerella in uno qualunque dei talk show de La7, i protagonisti dell’occupazione mettono nel mirino il rettore Roberto Tottoli, che avrebbe la colpa «di non riconoscere il genocidio della popolazione palestinese da parte del governo di Tel Aviv». Nessun cenno alla mattanza del 7 ottobre (quella non li riguarda, già rimossa), ma condanna unanime della strategia dell’ateneo che «intrattiene rapporti di partenariato e scambio di ricerche con le università israeliane e l’apparato militare-industriale italiano. Non vogliamo studiare in un’università che si rende complice di ciò che sta facendo un governo coloniale e criminale. Insediamento, apartheid, violazione dei diritti umani. Pretendiamo che i vertici si espongano in una condanna pubblica dei crimini di guerra». Ovviamente a senso unico.
A differenza di numerosi suoi colleghi che a questo punto sarebbero già nascosti in biblioteca a leggere Immanuel Kant, il rettore Tottoli non deflette. Si ritiene giustamente garante della libertà di insegnamento fra quei muri antichi, e parlando ai manifestanti attraverso lo spioncino del portone d’ingresso ha chiesto (inutilmente) che concludessero la protesta. «L’occupazione è un atto di violenza e la violenza non è mai una soluzione. Non potete occupare uno spazio pubblico, non potete parlare a nome di tutti gli studenti, se questa è la vostra concezione di democrazia, complimenti», ha detto senza ottenere un grammo di attenzione. Ostaggio anche lui del suicidio culturale dell’Occidente, prigioniero del riflesso condizionato antisemita di questi tempi bui.
Gli occupanti napoletani dell’Orientale sono gli stessi che nel febbraio scorso avevano paralizzato l’università in segno di solidarietà ad Alfredo Cospito «contro il carcere duro, per l’abolizione di ergastolo e 41 bis». Nessun problema a passare dalla carezza a un terrorista condannato per la gambizzazione di un dirigente d’azienda e per un tentativo di strage, alla sollevazione a fianco del più feroce gruppo terroristico jihadista. Per i collettivi ogni occasione è buona, l’importante è che sia funzionale al caos democratico, brodo di coltura della sinistra di piazza. Passano gli anni ma siamo sempre fermi alla democrazia dei polli d’allevamento di gaberiana memoria.
Il rettore Tottoli osserva le tute nere, nutre zero speranze di riprendere le lezioni al più presto e commenta: «Ho invitato gli studenti a lasciar ripartire le attività. Tra l’altro in questi giorni c’è un’iniziativa di alcuni colleghi sulla situazione in Palestina, che è gravissima. L’ateneo è impegnato a far prevalere innanzitutto le ragioni della pace, a cercare di capire questa realtà molto complessa. Dispiace perché proprio questa attività viene interrotta con l’occupazione che trova l’unica ragione d’essere dell’esposizione della bandiera palestinese dalla facciata di palazzo Giusso».
Lui ha promesso invano di concedere uno spazio apposito agli studenti per esprimere le loro ragioni e così far riprendere le attività di studio e ricerca. «Un conto è manifestare le proprie opinioni, un altro è impedire il regolare svolgimento delle attività istituzionali. Come rappresentante di migliaia di ragazzi sottolineo che il gesto dimostrativo blocca in pieno ogni attività didattica e anche un momento di riflessione sulla crisi internazionale». Ma agli incappucciati con la sindrome di Harvard le riflessioni non interessano.
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Ursula von der Leyen propone un piano di pace per il Medio Oriente ma viene scaricata dal Consiglio: «Non ne sappiamo niente». Mentre Josep Borrell, cercando di smentire le voci di stanchezza sull’Ucraina, finisce per rinforzarle. E oggi inizia il G7 in Giappone.Volti coperti, fumogeni e striscioni: i collettivi bloccano l'università di Napoli e chiedono la rottura dei rapporti istituzionali con lo Stato ebraico. Silenzio sugli attacchi del 7 ottobre. Sono gli stessi che scioperarono per l’anarchico Alfredo Cospito.Lo speciale contiene due articoli.Il nuovo fronte mediorientale getta nel caos i vertici europei. La mancanza di una linea politica, già evidente in molti altri momenti storici dell’Unione europea, come quello della guerra in Ucraina, viene nuovamente fuori con prepotenza a causa del conflitto tra Hamas e Israele. Il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen sostiene che l’Ue debba giocare un ruolo su un futuro di pace in Medio Oriente e offre «alcune possibili idee» per il dopo guerra. «Gaza non può essere paradiso per i terroristi, Hamas non può ricostruire la sua base nella Striscia», sostiene. Ecco allora la possibilità di una «missione di pace internazionale sotto l’Onu». Ci deve essere poi solo «un’autorità palestinese» a governare uno «Stato palestinese». Allo stesso tempo le forze israeliane «non possono stare a Gaza, non ci deve essere espulsione dei palestinesi dalla Striscia e il blocco deve terminare».Una posizione questa, quando a parlare è il vertice dell’organo esecutivo, che agli occhi di chi legge potrebbe rappresentare la volontà dell’Unione, eppure non è così. «È la prima volta che ne sentiamo parlare» ha dichiarato un alto funzionario del Consiglio Ue in risposta alla domanda se il presidente della Commissione europea si fosse coordinato con il Consiglio o con gli Stati membri prima di avanzare le sue idee di pace per il Medio Oriente. Prima di esporre ieri agli ambasciatori Ue, e al pubblico, le sue idee su come dovrebbe essere affrontata la crisi in corso nel Medio Oriente, non ha consultato «nessuno» Stato membro, né il Consiglio. Sottolinea la fonte: «Non è stato consultato nessuno». La Von der Leyen era già stata criticata per essersi recata in Israele subito dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre scorso, insieme con il presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, senza avere preventivamente consultato gli Stati membri, che hanno la competenza sulla politica estera dell’Unione, la quale viene coordinata, ma non decisa, dall’Alto rappresentante. Insomma ancora una volta si va alla rincorsa senza strategia. Copione già visto con la guerra in Ucraina, tanto che l’Alto rappresentante per la politica Ue, Josep Borrell, in una sorta di excusatio non petita si è rivolto così agli ambasciatori Ue: «Non possiamo sentirci stanchi di sostenere l’Ucraina, dobbiamo tenere d’occhio le nostre opinioni pubbliche, combattere la stanchezza. Se l’Ucraina perde, noi perdiamo. La Russia è pronta a sacrificare uomini e mezzi per vincere, la vita umana per Putin non ha significato, come ai tempi di Stalin, si crede che la quantità abbia un’intrinseca qualità. L’unica soluzione è continuare a sostenerla e restare uniti», ha aggiunto. Insomma la crisi è evidente su quel fronte. L’Europa è stanca, soprattutto adesso che questo nuovo conflitto richiede risorse aggiuntive. Ed è per lo stesso motivo che gli Stati Uniti a stretto giro potrebbero decidere di tagliare gli aiuti, anche in vista delle prossime elezioni presidenziali, per decidere di concentrarsi sul fronte mediorientale. «Il presidente Biden ha detto a Israele di non lasciarsi accecare dalla rabbia. È questo il messaggio che gli amici di Israele devono mandare: di non farsi accecare dalla rabbia. Il diritto a difendersi deve essere esercitato secondo il diritto internazionale». ha detto Borrell sottolineando che gli europei hanno «l’obbligo morale e politico di essere coinvolti, non solo fornendo aiuti umanitari ma contribuendo a una soluzione duratura». «A breve termine», ha aggiunto, «la priorità è la pace e fermare le violenze». Nel frattempo non si può tralasciare il fatto che la stessa Ursula von der Leyen la settimana scorsa ha annunciato l’arrivo del dodicesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia. «Le nuove sanzioni toccheranno fino a 100 nuovi individui» coinvolti nell’aggressione all’Ucraina, «nuovi divieti di import ed export, azioni per inasprire il tetto al prezzo del petrolio e misure severe nei confronti delle società di Paesi terzi che eludono le sanzioni», ha spiegato la Von der Leyen. Sanzioni che continuano però a indebolire anche l’Europa al contrario degli Stati Uniti che invece ne approfittano per vendere i loro Lng. Lo sa anche Borrell, la guerra in Ucraina è alla fine della sua corsa e le sanzioni ormai non servono più. A ogni modo l’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera si recherà oggi in Giappone dove resterà fino al 9 novembre per partecipare alla seconda riunione dei ministri degli Esteri del G7 sotto la presidenza giapponese del 2023.Durante l’incontro, Borrell e i ministri degli Esteri di Giappone, Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Italia e Regno Unito discuteranno in modo approfondito su una serie di questioni di politica estera e di sicurezza di grande attualità, in particolare la situazione in Medio Oriente, il continuo sostegno del G7 all’Ucraina di fronte alla guerra di aggressione della Russia e i principali sviluppi nella regione indo-pacifica. Non è chiaro, però, se Borrell parteciperà all’incontro con un mandato in grado di rappresentare l’intera Unione.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/kiev-israele-mandano-ue-cortocircuito-2666168349.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="luniversita-di-napoli-okkupata-gli-amici-di-cospito-con-hamas" data-post-id="2666168349" data-published-at="1699314081" data-use-pagination="False"> L’università di Napoli «okkupata». Gli amici di Cospito con Hamas «Per la Palestina, fino alla vittoria!». Le tute nere con i passamontagna che di primo mattino stendono il drappo sul balcone centrale di palazzo Giusso potrebbero essere tranquillamente scambiate per la cellula partenopea di Hamas. Invece è un piccolo gruppo di studenti dei collettivi che tenta di non farsi riconoscere mentre occupa l’università degli Studi orientali di Napoli, storica roccaforte della sinistra studentesca, di nuovo sulla breccia con il ritardo di un mese. Mentre La Sapienza di Roma (Filosofia), la Statale di Milano (Farmacia) e l’UniPa di Palermo sprangavano i laboratori e sfilavano da un paio di settimane nei quasi quotidiani cortei contro Israele, il torpore napoletano sembrava accomunare gli ultrà fuori corso avvolti nella bandiera palestinese alla squadra di Rudy Garcia. Poco reattivi, ma adesso si sono allineati. «Solidarietà alla resistenza di Gaza», sostengono gli incappucciati che sui social tendono a inglobare nel loro gesto la totalità degli iscritti alle facoltà dell’ateneo, quando neppure un ventesimo di questi ultimi partecipa. «È da quasi un mese che a Gaza, nel silenzio e nella complicità dei governi occidentali, in primis quello italiano, si consuma un genocidio perpetrato ai danni della popolazione palestinese», postano su Facebook gli okkupanti in prima linea, che fanno parte del gruppo Ex Opg (ospedale psichiatrico giudiziario) «Je so’ pazzo». La protesta si allarga secondo uno stanco riflesso condizionato noto da decenni e tocca i soliti temi cari alla gauche gruppettara in keffiah. «Se le istituzioni e i media hanno dimostrato la palese volontà di insabbiare i crimini di guerra di cui è responsabile il governo israeliano, è urgente e necessario che una risposta in solidarietà del popolo palestinese parta dal basso, da noi studenti e studentesse che non vogliamo restare in silenzio davanti a tutto ciò. Non possiamo restare indifferenti, è il momento di agire». In attesa di ottenere a loro volta la solidarietà di mezzo Pd, di Giuseppe Conte e di togliersi il passamontagna per fare passerella in uno qualunque dei talk show de La7, i protagonisti dell’occupazione mettono nel mirino il rettore Roberto Tottoli, che avrebbe la colpa «di non riconoscere il genocidio della popolazione palestinese da parte del governo di Tel Aviv». Nessun cenno alla mattanza del 7 ottobre (quella non li riguarda, già rimossa), ma condanna unanime della strategia dell’ateneo che «intrattiene rapporti di partenariato e scambio di ricerche con le università israeliane e l’apparato militare-industriale italiano. Non vogliamo studiare in un’università che si rende complice di ciò che sta facendo un governo coloniale e criminale. Insediamento, apartheid, violazione dei diritti umani. Pretendiamo che i vertici si espongano in una condanna pubblica dei crimini di guerra». Ovviamente a senso unico. A differenza di numerosi suoi colleghi che a questo punto sarebbero già nascosti in biblioteca a leggere Immanuel Kant, il rettore Tottoli non deflette. Si ritiene giustamente garante della libertà di insegnamento fra quei muri antichi, e parlando ai manifestanti attraverso lo spioncino del portone d’ingresso ha chiesto (inutilmente) che concludessero la protesta. «L’occupazione è un atto di violenza e la violenza non è mai una soluzione. Non potete occupare uno spazio pubblico, non potete parlare a nome di tutti gli studenti, se questa è la vostra concezione di democrazia, complimenti», ha detto senza ottenere un grammo di attenzione. Ostaggio anche lui del suicidio culturale dell’Occidente, prigioniero del riflesso condizionato antisemita di questi tempi bui. Gli occupanti napoletani dell’Orientale sono gli stessi che nel febbraio scorso avevano paralizzato l’università in segno di solidarietà ad Alfredo Cospito «contro il carcere duro, per l’abolizione di ergastolo e 41 bis». Nessun problema a passare dalla carezza a un terrorista condannato per la gambizzazione di un dirigente d’azienda e per un tentativo di strage, alla sollevazione a fianco del più feroce gruppo terroristico jihadista. Per i collettivi ogni occasione è buona, l’importante è che sia funzionale al caos democratico, brodo di coltura della sinistra di piazza. Passano gli anni ma siamo sempre fermi alla democrazia dei polli d’allevamento di gaberiana memoria. Il rettore Tottoli osserva le tute nere, nutre zero speranze di riprendere le lezioni al più presto e commenta: «Ho invitato gli studenti a lasciar ripartire le attività. Tra l’altro in questi giorni c’è un’iniziativa di alcuni colleghi sulla situazione in Palestina, che è gravissima. L’ateneo è impegnato a far prevalere innanzitutto le ragioni della pace, a cercare di capire questa realtà molto complessa. Dispiace perché proprio questa attività viene interrotta con l’occupazione che trova l’unica ragione d’essere dell’esposizione della bandiera palestinese dalla facciata di palazzo Giusso». Lui ha promesso invano di concedere uno spazio apposito agli studenti per esprimere le loro ragioni e così far riprendere le attività di studio e ricerca. «Un conto è manifestare le proprie opinioni, un altro è impedire il regolare svolgimento delle attività istituzionali. Come rappresentante di migliaia di ragazzi sottolineo che il gesto dimostrativo blocca in pieno ogni attività didattica e anche un momento di riflessione sulla crisi internazionale». Ma agli incappucciati con la sindrome di Harvard le riflessioni non interessano.
iStock
Inizialmente, la presentazione della strategia della Commissione avrebbe dovuto avvenire mercoledì, ma la lettera di Friedrich Merz del 28 novembre diretta a Ursula von der Leyen ha costretto a ritardare la comunicazione. In quel giorno Merz, appena ottenuto dal Bundestag il via libera alla costosa riforma delle pensioni, si era subito rivolto a Von der Leyen chiedendo modifiche pesanti alle regole sul bando delle auto Ice al 2035. Questa contemporaneità ha reso evidente che il via libera alla richiesta di rilassamento delle regole sulle auto arrivava dalla Spd come contropartita al sì della Cdu alla riforma delle pensioni, come spiegato sulla Verità del 2 dicembre.
Se il contenuto della revisione dovesse essere quello circolato ieri, vorrebbe dire che la posizione tedesca è stata interamente accolta. I punti di cui Bloomberg parla, infatti, sono quelli contenuti nella lettera di Merz.
Non è ancora chiaro quale sarà la quota di veicoli ibridi plug-in e ad autonomia estesa che potranno essere immatricolati dopo il 2035, né se la data del 2040 sarà mantenuta. Anche i dettagli tecnici chiave sugli e-fuel e sui biocarburanti avanzati non ci sono. Resta poi ancora da precisare (da anni) quale metodo sarà utilizzato per il Life cycle assessment (Lca), ovvero i criteri con cui si valutano le emissioni nell’intero ciclo di vita dei veicoli elettrici. Non si tratta di un banale dettaglio tecnico, ma dell’architrave delle nuove regole, da cui dipenderanno tecnologie e modelli in futuro. Un Lca avrebbe già dovuto essere definito entro il 31 dicembre di quest’anno dalla Commissione, ma ancora non si è visto nulla. Contabilizzare l’acciaio green nella produzione di veicoli significa dotarsi di un metodo Lca condiviso, così finalmente si saprà quanto emette davvero un veicolo elettrico (sempre se il Lca è fatto bene).
Qualche giorno fa, sei governi Ue, tra cui quello italiano, affiancato da Polonia, Ungheria, Slovacchia, Bulgaria e Repubblica Ceca, in scia alla Germania, avevano chiesto alla Commissione di proporre un allentamento delle regole sulle auto, consentendo gli ibridi plug-in e le auto con autonomia estesa anche dopo il 2035. In una situazione in cui l’assalto al mercato europeo da parte dei marchi cinesi è appena iniziato, le case del Vecchio continente faticano a tenere il passo. L’incertezza normativa è però anche peggio di una regola fatta male. L’industria europea dell’auto si sta preparando a mantenere in produzione modelli con il motore a scoppio anche dopo il 2035, con la relativa componentistica, ma tutta la filiera, che coinvolge milioni di lavoratori in Europa e fuori, ha bisogno di certezze.
Intanto, l’applicazione al settore auto della norma «made in Europe», che dovrebbe servire a proteggere l’industria europea stabilendo quote minime di componenti fatti al 100% in Europa, è stata rinviata a fine gennaio. La regola, fortemente voluta dalla Francia ma che lascia la Germania fredda, si intreccia con la richiesta di dazi sulle merci cinesi fatta da Macron. Avanti (o indietro) in ordine sparso.
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Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Un concetto già smentito da Fdi che in un dossier sulle fake news relative proprio all’oro di Bankitalia, ha precisato l’infondatezza dell’allarmismo basato sulla errata idea di volersi impossessare delle riserve auree per ridurre il debito. E nello stesso documento si ricordava invece come questa idea non dispiacesse al governo di sinistra di Romano Prodi del 2007. Peraltro nel dossier si precisa che la finalità dell’emendamento è di «non far correre il rischio all’Italia che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani».
Per due volte la Banca centrale europea ha puntato i piedi, probabilmente spinta dal retropensiero che il governo voglia mettere le mani sull’oro detenuto e gestito da Bankitalia, per venderlo. Ma anche su questo punto da Fdi hanno tranquillizzato. Nel documento esplicativo precisano che «al contrario, vogliamo affermare che la proprietà dell’oro detenuto dalla Banca d’Italia è dello Stato proprio per proteggere le riserve auree da speculazioni». Il capitale dell’istituto centrale è diviso in 300.000 quote e nessun azionista può detenere più del 5%. I principali soci di Via Nazionale sono grandi banche e casse di previdenza. Dai dati pubblicati sul sito Bankitalia, primo azionista risulta Unicredit (15.000 quote pari al 5%), seguono con il 4,93% ciascuna Inarcassa (la Cassa di previdenza di ingegneri e architetti), Fondazione Enpam (Ente di previdenza dei medici e degli odontoiatri) e la Cassa forense. Del 4,91% la partecipazione detenuta da Intesa Sanpaolo. Al sesto posto tra gli azionisti, troviamo la Cassa di previdenza dei commercialisti con il 3,66%. Seguono Bper Banca con il 3,25%, Iccrea Banca col 3,12%, Generali col 3,02%. Pari al decimo posto, con il 3% ciascuna, Inps, Inail, Cassa di sovvenzioni e risparmio fra il personale della Banca d'Italia, Cassa di Risparmio di Asti. Primo azionista a controllo straniero è la Bmnl (Gruppo Bnp Paribas) col 2,83% seguita da Credit Agricole Italia (2,81%). Bff Bank (partecipata da fondi italiani e internazionali) detiene l’1,67% mentre Banco Bpm (i cui principali azionisti sono Credit Agricole con circa il 20% e Blackrock con circa il 5%) ha l’1,51%.
Un motivo fondato quindi per esplicitare che le riserve auree sono di proprietà di tutti gli italiani. Il che, a differenza di quanto sostenuto da politici e analisti di sinistra, «non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. Non si comprende quindi la levata di scudi di queste ore nei confronti della proposta di Fdi. A meno che, ed è lecito domandarselo, chi oggi si agita non abbia altri motivi per farlo».
C’è poi il fatto che «alcuni Stati, anche membri dell’Ue, hanno già chiarito che la proprietà delle riserve appartiene al popolo, nella propria legislazione, mettendolo nero su bianco, a dimostrazione del fatto che ciò è perfettamente compatibile con i Trattati europei». Pertanto si tratta di un emendamento «di buon senso».
La riformulazione della proposta potrebbe essere presentata oggi, come annunciato dal capogruppo di Fdi in Senato, Lucio Malan. «Si tratta di dare», ha specificato, «una formulazione che dia maggiore chiarezza». Nella risposta alle richieste della presidente della Bce, Christine Lagarde, il ministro Giorgetti, avrebbe precisato che la disponibilità e gestione delle riserve auree del popolo italiano sono in capo alla Banca d’Italia in conformità alle regole dei Trattati e che la riformulazione della norma trasmessa è il frutto di apposite interlocuzioni con quest’ultima per addivenire a una formulazione pienamente coerente con le regole europee.
Risolto questo fronte, altri agitano l’iter della manovra. L’obiettivo è portare la discussione in Aula per il weekend. Il lavoro è tutto sulle coperture. Ci sono i malumori delle forze dell’ordine per la mancanza di nuovi fondi, rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura di infrazione, e ieri quelli dei sindacati dei medici, Anaao Assomed e Cimo-Fesmed, che hanno minacciato lo stato di agitazione se saranno confermate le voci «del tentativo del ministero dell’Economia di bloccare l’emendamento, peraltro segnalato, a firma Francesco Zaffini, presidente della commissione Sanità del Senato con il sostegno del ministro della Salute», che prevede un aumento delle indennità di specificità dei medici, dirigenti sanitari e infermieri. In ballo, affermano le due sigle, ci sono circa 500 milioni già preventivati. E reclamano che il Mef «licenzi al più presto la pre-intesa del Ccnl 2022-2024 per consentire la firma e quindi il pagamento di arretrati e aumenti».
Intanto in una riformulazione del governo l’aliquota della Tobin Tax è stata raddoppiata dallo 0,2% allo 0,4%.
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John Elkann (Ansa)
Fatta la doverosa e sincera premessa, non riusciamo a comprendere perché da ieri le opposizioni italiane stiano inondando i media di comunicati stampa che chiamano in causa il governo Meloni, al quale si chiede di riferire in aula in relazione a quella che è una trattativa tra privati. O meglio: è sacrosanta la richiesta di attenzione per la tutela dei livelli occupazionali, come succede in tutti i casi in cui un grande gruppo imprenditoriale passa di mano: ciò che si comprende meno, anzi non si comprende proprio, sono gli appelli al governo a intervenire per salvaguardare la linea editoriale delle testate in vendita.
L’agitazione in casa dem tocca livelli di puro umorismo: «Di fronte a quanto sta avvenendo nelle redazioni di Repubblica e Stampa», dichiara il capogruppo dem al Senato, Francesco Boccia, «il governo italiano non può restare silente e fermo. Chigi deve assumere un’iniziativa immediata di fronte a quella che appare come una vera e propria dismissione di un patrimonio della democrazia italiana. Per la tutela di beni e capitali strategici di interesse nazionale viene spesso evocato il Golden power. Utilizzato da questo governo per molto meno». Secondo Boccia, il governo dovrebbe bloccare l’operazione oppure intervenire direttamente ponendo condizioni. Siamo, com’è ben chiaro, di fronte al delirio politico in purezza, senza contare il fatto che quando il governo ha utilizzato il Golden power nel caso Unicredit-Bpm, il Pd ha urlato allo scandalo per l’«interventismo» dell’esecutivo. Come abbiamo detto, sono sacrosante le preoccupazioni sul mantenimento dei livelli occupazionali, molto meno comprensibili invece quelle su qualità e pluralismo dell’informazione, soprattutto se collegate alla richiesta al governo di riferire in aula firmata da Pd, Avs, M5s e +Europa.
Cosa dovrebbe fare nel concreto Giorgia Meloni? Convocare gli Elkann e Kyriakou e farsi garantire che le testate del gruppo Gedi continueranno a pubblicare gli stessi articoli anche dopo l’eventuale vendita? E a che titolo un governo potrebbe mai intestarsi un’iniziativa di questo tipo, senza essere accusato di invadere un territorio che non è di propria competenza? Con quale coraggio la sinistra che ha costantemente accusato il centrodestra di invadere il sacro terreno della libertà di stampa, ora si lamenta dell’esatto contrario? Non si sa: quello che si sa è che quando il gruppo Stellantis, di proprietà degli Elkann, ha prosciugato uno dopo l’altro gli stabilimenti di produzione di auto in Italia tutto questo allarme da parte de partiti di sinistra non lo abbiamo registrato.
Ma le curiosità (eufemismo) non finiscono qui. Riportiamo una significativa dichiarazione del co-leader di Avs, Angelo Bonelli: «La vendita de La Repubblica, La Stampa, Huffington, delle radio e dei siti connessi all’armatore greco Kyriakou», argomenta Bonelli, «è un fatto che desta profonda preoccupazione anche per la qualità della nostra democrazia. L’operazione riguarda una trattativa tra l’erede del gruppo Gedi, John Elkann, e la società ellenica Antenna Group, controllata da Theodore Kyriakou, azionista principale e presidente del gruppo. Kyriakou può contare inoltre su un solido partner in affari: il principe saudita Mohammed Bin Salman Al Saud, che tre anni fa ha investito 225 milioni di euro per acquistare il 30% di Antenna Group». E quindi? «Il premier», deduce con una buona dose di sprezzo del ridicolo Sherlock Holmes Bonelli, «all’inizio di quest’anno, ha guidato una visita di Stato in Arabia Saudita, conclusa con una dichiarazione che auspicava una nuova fase di cooperazione e sviluppo dei rapporti tra Italia e il regno del principe ereditario. Se la vendita dovesse avere questo esito, si aprirebbe un problema serio che riguarda i livelli occupazionali e, allo stesso tempo, la qualità della nostra democrazia. La concentrazione dell’informazione radiotelevisiva, della stampa e del Web sarebbe infatti praticamente schierata sulle posizioni del governo e della sua presidente». Avete letto bene: secondo il teorema Bonelli, Bin Salman è socio di Kyriakou, Bin Salman ha ricevuto Meloni in visita (come altre centinaia di leader di tutto il mondo), quindi Meloni sta mettendo le mani su Repubblica, Stampa e tutto il resto.
Quello che sfugge a Bonelli è che Bin Salman è, come è arcinoto, in eccellenti rapporti con Matteo Renzi, e guarda caso La Verità è in grado di rivelare che il leader di Italia viva starebbe giocando, lui sì, un ruolo di mediazione in questa operazione. Renzi avrebbe pure già in mente il nuovo direttore di Repubblica: il prescelto sarebbe Emiliano Fittipaldi, attuale direttore del quotidiano Domani, giornale di durissima opposizione al governo. In ogni caso, per rasserenare gli animi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’informazione, Alberto Barachini, ha convocato i vertici di Gedi e i Cdr di Stampa e Repubblica, «in relazione», si legge in una nota, «alla vicenda della ventilata cessione delle due testate del gruppo».
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