
Per Maurizio Landini, la precarietà si combatte reintroducendo il reintegro obbligatorio in caso di licenziamento illegittimo. Misura ritenuta non più fondamentale dai lavoratori stessi.Fondatore di LabLaw e Consigliere esperto CnelIn un momento in cui tanto si discute di mutamenti nel mondo del lavoro, di impatti dell’intelligenza artificiale, settimana corta, prestazione di lavoro orientata al risultato, destrutturazione del luogo fisico della prestazione e molto altro, irrompe nel dibattito la proposta referendaria della Cgil che punta all’abrogazione del «contratto a tutele crescenti». La stessa proposta punta anche all’abrogazione della norma che prevede la tutela risarcitoria per i datori di lavoro al di sotto dei 15 dipendenti, che siano stati assunti prima dell’entrata in vigore della riforma del 2015 e alla disciplina del contratto di lavoro a termine per come oggi la conosciamo.Nella prospettazione del sindacato proponente, i quesiti nascerebbero dall’esigenza di accrescere la stabilità dell’occupazione. Una visione che emerge in modo evidente dal pensiero e dalle parole del segretario generale della Cgil ove ha avuto modo di affermare che si vuole «una legislazione del lavoro che contrasti la precarietà, bisogna intervenire sulle forme di lavoro assurde messe in campo in questi anni». Rispetto a un’idea non condivisibile per molte ragioni sociali, economiche, giuridiche, ciò che lascia a dir poco perplessi è l’assunto - peraltro indimostrato - che le proposte abrogative tendano effettivamente a creare lavoro di qualità.Questa posizione critica non vuol negare che sia presente all’interno del sistema l’opportunità di una rivisitazione della materia dei licenziamenti, a maggior ragione dopo gli interventi demolitori della Corte Costituzionale, ma certamente non si può concordare con il modus operandi referendario, che punta nella sostanza a riportare indietro «le lancette dell’orologio».L’idea sottostante alle proposte referendarie è qualificabile, infatti, come un’operazione «nostalgia» del tutto decontestualizzata dai mutamenti della società, del mercato del lavoro, della necessità di una nuova sintesi tra flessibilità del lavoro - anche autonomo - conciliazione dei tempi e welfare.Ben altra dovrebbe essere la via, ossia quella di dar voce alle istanze di rinnovamento muovendo proprio da quel Jobs Act che oggi si immagina di abrogare con lo strumento del referendum.A distanza di un decennio particolarmente ricco in termini di cambiamenti sociali, si avverte la necessità di un adeguamento del quadro normativo che, però, deve muovere dagli approdi di quella riforma renziana per renderla compatibile con un contesto mutato e a una stratificazione normativa spesso distonica e parcellizzata. A titolo meramente esemplificativo - contrariamente alle recenti proposte referendarie - occorrerebbe mantenere l’idea centrale sia della Riforma Fornero che del Jobs Act, per cui la reintegrazione non è più unico baluardo del soddisfacimento degli interessi del lavoratore ma una ipotesi legata ai soli casi più gravi di illegittimità del licenziamento. Allo stesso modo, la questione delle conseguenze dell’illegittimità del licenziamento delle piccole imprese merita una riforma che superi l’ormai anacronistica ripartizione su base occupazionale (legata alla soglia dei 15 dipendenti).In questa prospettiva di ragionevole modernizzazione, la posizione assunta dal maggioritario appare ideologica e abdicativa di qualunque ruolo propositivo, a meno di non pensare che l’abrogazione sia l’unica idea che un sindacato della storia e della cultura della Cgil sia in grado di esprimere.La vera sfida da raccogliere dovrebbe essere, invece, quella di un mutamento complessivo della legislazione prendendo il Jobs act come punto di partenza, non necessariamente con riferimento al merito. Occorre, invece, adottare la sua visione olistica ed organica sul tema occupazionale, dal momento della transizione scuola - lavoro fino alle conseguenze connesse all’illegittimità del recesso, passando per gli ammortizzatori sociali.
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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