La diagnosi dei mali del Vecchio continente, contenuta nel faldone, è severa. Il testo denuncia «le attività dell’Unione europea e di altri corpi transnazionali, che minano la libertà e la sovranità politiche», nonché «le politiche migratorie», «la repressione della libertà d’espressione e la soppressione dell’opposizione politica», la «voragine» che si è aperta nei tassi di natalità, «la perdita delle identità nazionali e della fiducia in sé stessi». «Se le attuali tendenze dovessero continuare», è la profezia apocalittica, «il continente sarà irriconoscibile entro 20 anni, se non meno».
«area vitale per noi»
Persino le frizioni con la Russia vengono attribuite allo smarrimento culturale dell’Europa, la quale godrebbe di un «significativo vantaggio nel potere coercitivo», tale da consentirle una certa tranquillità. Perciò gli Stati Uniti intendono profondere sforzi diplomatici, «sia per ripristinare condizioni di stabilità strategica nell’area euroasiatica, sia per mitigare il rischio di un conflitto tra la Russia e gli Stati europei». Anche perché il conflitto in Ucraina ha aggravato le «dipendenze esterne» dei Paesi Ue, Germania in primis: le sue aziende sono arrivate a delocalizzare in Cina per «usare il gas russo che non possono ottenere in patria».
L’accusa nei confronti delle élite del Vecchio continente è pesante: «Una vasta maggioranza degli europei vuole la pace, eppure quel desiderio non viene tradotto in politiche, in larga misura perché quei governi hanno sovvertito il processo democratico». È facile cogliere l’allusione alla conventio ad excludendum dei partiti di sistema nei confronti di Afd in Germania e del Rassemblement national in Francia. L’amministrazione, pertanto, dice di trovarsi in disaccordo «con i funzionari europei, che nutrono aspettative irrealistiche rispetto alla guerra, fondate su governi di minoranza instabili».
L’insofferenza per l’involuzione dell’Unione europea, d’altronde, non impedisce al documento di riconoscere che «l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti». E che sarà cruciale «promuovere la grandezza europea». Purché l’Europa impari a difendersi da sé, a «reggersi in piedi da sola». E purché si ponga fine alla «percezione» - evitando che diventi realtà - che la Nato sia «un’alleanza in perpetuo allargamento». Stando al retroscena di Reuters, Washington vorrebbe che l’Ue ne assuma la guida entro il 2027.
Il senso del «corollario Trump» alla dottrina Monroe, della quale il presidente americano ha celebrato giusto quattro giorni fa i 250 anni, sta qui. Non si tratta, semplicemente, di respingere ogni ingerenza negli affari del continente americano, bensì di rivendicare l’emisfero occidentale quale sfera d’influenza degli Usa, contrastando l’influenza russa e cinese, il narcotraffico, impiegando dazi e minaccia della forza come strumenti di pressione e agendo per contenere l’espansione delle potenze ostili, affinché non intacchino gli interessi vitali di Washington.
l’indo-pacifico
Trump vuole che la sua politica estera sia «pragmatica senza essere “pragmatista”, realistica senza essere “realista”», semmai improntata a una forma di «realismo flessibile»; e, ancora, che essa riposi su dei principi «senza essere “idealista”», che sia «muscolare senza essere “da falchi” e misurata senza essere “da colombe”». Poca ideologia, molti fatti, che concorrano all’obiettivo di mettere «l’America al primo posto», «America first». Perciò va corretta la tracotanza degli egemoni americani post Guerra fredda. «Gli Stati Uniti», proclama la Casa Bianca, «respingono il concetto fallimentare di dominio globale» e non hanno più intenzione di «sprecare sangue e denaro per limitare l’influenza di tutte le grandi e medie potenze del mondo». Niente più poliziotti del mondo. Si dovrà ricalibrare la presenza militare Usa nelle varie aree geografiche, «per affrontare le minacce urgenti nel nostro emisfero». Tenendosi lontani «da teatri la cui importanza relativa per la sicurezza nazionale americana è diminuita». Il tutto, sullo sfondo di una «propensione al non intervento», pur nella convinzione che si debba mantenere «la pace attraverso la forza».
Kiev e Bruxelles sono avvisate. Perché, nonostante il giuramento di fedeltà all’Europa e al Regno Unito, ancorché accompagnato dalla pretesa di più contributi alle spese militari e più equità nei rapporti commerciali, il nucleo degli interessi Usa non è in Europa. È nell’Indo-Pacifico. Quell’area che produce già «quasi la metà del Pil mondiale a parità di potere d’acquisto» e la cui quota di ricchezza planetaria, nel XXI secolo, «di certo crescerà». La priorità dell’amministrazione statunitense sarà interrompere le strategie industriali e commerciali «predatorie», il furto di proprietà intellettuale nel campo tecnologico, le minacce alla catena di approvvigionamento di materie prime, il flusso di fentanyl e la guerra ibrida e psicologica portata avanti da Pechino. Trump ha ormai smontato l’illusione dei suoi predecessori: che «aprendo i nostri mercati alla Cina, incoraggiando le imprese americane a investire in Cina e spostando la nostra manifattura in Cina, avremmo facilitato l’ingresso della Cina nel cosiddetto “ordine internazionale basato sulle regole”».
Come invertire la rotta? La Casa Bianca si propone di «arruolare» i suoi alleati, cioè di esigere da loro - Giappone, Corea, la stessa Europa - una completa collaborazione e una crescente responsabilizzazione sul piano militare. Dopodiché, bisognerà «allargare» la rete di Paesi amici dell’America. Sembra un’eco della teoria del politologo cinese Yan Xuetong, molto ascoltato da Xi Jinping e convinto che la competizione tra grandi potenze sarà decisa dalla loro capacità di attrarre sostegno sullo scacchiere. Di certo, se per The Donald l’Ucraina è periferica, Taiwan è invece centrale. L’avviso a Pechino è cristallino: «Gli Stati Uniti non supportano alcun cambiamento unilaterale dello status quo».
Anche il Medio Oriente e, soprattutto, l’Africa, paiono meno rilevanti agli occhi di Trump. Soddisfatto della tregua a Gaza («Negli ultimi nove mesi», scrive nell’introduzione il presidente, «abbiamo salvato la nazione e il mondo dall’orlo della catastrofe e del disastro»), dell’indebolimento dell’Iran e della stabilizzazione della Siria, il tycoon confida di porre termine all’era «in cui il Medio Oriente dominava la politica estera americana». Nel continente nero, intanto, gli Usa cercheranno di sostituire, al «paradigma degli aiuti esteri», quello degli investimenti e della crescita.
droga, woke, nazioni
Il documento uscito ieri, però, aiuta altresì a comprendere la filosofia che ispira la politica interna di Trump. Se l’obiettivo ultimo della sua strategia è conservare la sovranità e la prosperità degli Usa, per mantenere una influenza determinante sull’emisfero occidentale e limitare le ambizioni degli avversari, si capisce per quale motivo siano così essenziali il controllo dei confini e la lotta ai fattori di sgretolamento della società: la droga, il woke, la cappa ideologica, la deindustrializzazione. «America first», poi, significa ripensare la funzione delle «più intrusive organizzazioni transnazionali», le quali saranno tenute a «favorire anziché danneggiare la sovranità». Si spiegano le scintille con l’Onu e l’Oms. È il principio del «primato delle nazioni», che dovrebbe far scoppiare la bolla del multilateralismo europeo. Un bel sogno infranto. Oppure un incubo dal quale ci dobbiamo risvegliare.