2023-05-17
Inter padrona assoluta di Milano. Inzaghi va a giocarsi la finalissima
I nerazzurri disputano una partita attenta, non rischiano quasi nulla e a un quarto d’ora dalla fine Lautaro Martinez dà il colpo di grazia al Milan dopo lo 0-2 dell’andata. Steven Zhang riporta il club a un livello che mancava da 13 anni. Il viaggio dentro la leggenda impossibile lo fa l’Inter. Road to Istanbul, San Siro esplode al gol di Lautaro Martinez che affonda il Milan (1-0, totale 3-0) nella seminale di ritorno del derbyssimo. Il biglietto della finale di Champions lo staccano i nerazzurri. E al Milan, che ha disputato un torneo straordinario, al di sopra delle sue obiettive potenzialità, deve andare un enorme applauso. Nell’episodio decisivo è stato tradito da Rafael Leao, impalpabile, da un Theo Hernandez notarile, da un Olivier Giroud sfinito. Il Diavolo ha lottato, ci ha provato ma nulla ha potuto contro un’avversaria più solida, preparata per arrivare qui al massimo della forma. È anche la finale di Simone Inzaghi, praticamente quasi esonerato due o tre volte negli ultimi sei mesi e invece capace di organizzare un capolavoro. Per l’Inter è la quinta finale, 13 anni dopo il Triplete. Finora ne ha vinte tre.Lo scenario di San Siro all’imbrunire è da brivido, suoni e luci da ouverture anticipano la notte più lunga. Questa volta brinda il cassiere nerazzurro: altri 75.000 spettatori, 12 milioni d’incasso (nuovo record). Le facce in campo sono maschere di tensione, sulle fronti c’è stampato un punto di domanda. Un giorno Arrigo Sacchi, che di Champions se ne intende, profetizzò: «Non esiste la partita scritta, solo i treni hanno la strada segnata». Si parte dal 2-0 dell’andata per l’Inter e la bolgia stempera due sentimenti antichi: la paura strisciante degli interisti di rovinare tutto entrando con le gambe molli, il furore belluino dei milanisti consapevoli che solo con l’assalto intelligente possono scardinare anche il destino. A loro serve un gol subito. A tutti e 22 servono gambe, testa, cuore e vanno cercati dentro se stessi perché a questo punto della stagione niente è più in vendita. Ci si guarda attorno: ci sono tutti. Ci sono gli undici nerazzurri che hanno dominato la prima sfida anche oltre il risultato. C’è l’arbitro francese Clément Turpin che in passato (con i suoi fischi stonati) ha fatto venire il mal di pancia ad ogni italiano di passaggio, fosse dell’Inter, fosse del Milan o della Nazionale. Ci sono, già on fire, gli ultrà del Diavolo che hanno catechizzato e spronato i rossoneri a una reazione da leggenda. Non c’è Ismael Bennacer, operato al ginocchio: starà fuori sei mesi. Ma soprattutto c’è Rafael Leao, il convitato di pietra dell’andata, il fuoriclasse che può cambiare il colore alla notte con un’accelerazione, un dribbling, una mandrakata rasta. Lo prendono Nicolò Barella e Matteo Darmian, chissà se basta. La partenza è rossonera, non poteva che essere così. E già dopo quattro minuti Hernandez dal capello color pervinca tenta il gol impossibile con una sassata da 40 metri che spolvera la traversa con Andrè Onana immobile. Ci riprova subito il Milan, approfittando un black out del portiere dell’Inter che esce a vuoto senza danni. Al 10’ il Diavolo potrebbe segnare: Hernandez lancia Sandro Tonali (il contrasto su Barella è falloso) che crossa per Brahim Diaz solo in mezzo all’area, il puntero mignon si mangia il gol con un tiretto che Onana blocca. Le squadre ci sono, concentrate, toste, cattive. Non pervenuto l’arbitro con una carriera sopravvalutata, che dimentica i cartellini negli spogliatoi: Hernandez, Tonali e Darmian ringraziano. L’Inter è pericolosa in contropiede, anche perché la difesa milanista (obiettivamente scadente tranne l’immenso Mike Maignan) diventa ancora più fragile negli spazi larghi, davanti a Lautaro Martinez ed Edin Dzeko che intendono replicare l’andata.La partita è in equilibrio, sembra un match di boxe. Rumble in the Jungle, e infatti al 37’ si accende Leao, che anticipa Matteo Darmian sulla trequarti e s’invola verso la porta, si beve mezza difesa e scarica un diagonale un centimetro fuori. L’Inter, che quando si abbassa mostra tutti i suoi limiti di tenuta mentale, reagisce in due tempi: prima con una spizzata letale di Dzeko nella tonnara, fermata da un miracolo involontario di Maignan (la pala gli finisce addosso), poi con un’iniziativa di Lautaro che tira alto. Si fa male Henrikh Mkhitaryan, «l’armeno che corre come un treno» come lo chiamavano a Roma, e deve uscire per Marcelo Brozovic. Riposo, 0-0. Il Milan spinge, l’Inter resiste. E l’equilibrio dei nervi sembra assoluto. Quando si riparte il Diavolo aumenta ancora i giri del motore come se la benzina fosse infinita. Il copione non cambia, anche se si nota qualche cedimento generale sul piano della qualità. L’Inter aspetta, ha l’unico problema di isolare Leao fra le maglie difensive (soprattutto Darmian) perché il Milan da altre parti non concretizza più. La semifinale si allunga verso il suo epilogo, i rossoneri non sfondano, l’Inter cambia Dzeko con Romelu Lukaku. E proprio da un duetto in area fra il belga e il gemello argentino, l’Inter passa. Tutta la difesa milanista va su Lukaku che libera Lautaro, tiro sul palo di Maignan, rete. Un gol da condor, un gol da Kun Aguero al quale sempre più somiglia. Per il Milan è notte, quando sbaglia anche il portierone significa che è la fine. San Siro esplode, l’Inter è in finale. Lo è perché ci ha creduto, lo è perché il Milan si spegne. La sua Pickett Charge finisce come quella dei confederati a Gettysburg, con una resa. C’è l’Inter in finale. Ha tutto per tornare alla leggenda, per rivivere lampi di Triplete, per accarezzare all’ingresso in campo all’Ataturk di Istanbul, il 10 giugno, la coppa dalle grandi orecchie. Manca solo l’avversario, hai detto niente. O il Manchester City di Pep Guardiola o il Real Madrid di Carletto Ancelotti. Che in quello stadio c’è già stato anche se non se lo ricorda. Due colossi praticamente imbattibili, quindi da affrontare con la micidiale leggerezza di chi non ha niente da perdere. Per l’Inter, che ha meritato il derbyssimo della vendetta 20 anni dopo, vale l’antico motto in dialetto triestino di Nereo Rocco a chi gli augurava: vinca il migliore. «Speremo de no».
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