2024-03-08
La morsa pm-cronisti soffoca l’Italia
La ricostruzione della «Verità» sul caso Perugia mette a nudo un sistema che condiziona pesantemente la vita pubblica e la stessa libertà di stampa, che viene invece sbandierata per perpetuare il verminaio. Occorre che si intervenga per smontarlo. E in fretta.Stanno provando a buttarla in vacca, a fare finta che sotto attacco ci sia la libertà di stampa e che i cronisti facciano semplicemente il loro mestiere, che è quello di scovare notizie e di scoperchiare segreti. Ma la storia - anzi, le storie - dimostrano che così non è. La lunga ricostruzione fatta ieri da Giacomo Amadori a proposito degli accessi abusivi compiuti da un cancelliere in servizio nella città umbra rivelano ciò che abbiamo sempre sospettato, ovvero un sistema che lega magistrati e giornalisti, un patto neanche troppo segreto che per anni ha consentito fughe di notizie su inchieste in corso ma, soprattutto, pesanti condizionamenti della vita pubblica. Le chat che abbiamo pubblicato, in cui ci sono messaggi tra pm e cronisti dei principali quotidiani, svelano le manovre di potere per usare le indagini come clave, al fine di orientare nomine e influenzare l’opinione pubblica. In qualche caso si sollecitano le pubblicazioni, così da creare un effetto mediatico. In altri vengono a galla divisioni e sospetti tra gli stessi magistrati, con giudizi al vetriolo. Un verminaio. Non che ci facessimo illusioni sull’equidistanza di chi ha il potere di amministrare la giustizia. Ma quell’intreccio fra toghe e cronisti, quelle abituali frequentazioni, alzano il sipario su ciò che accade quotidianamente nelle Procure. La politica e la magistratura si sono interrogate spesso negli ultimi trent’anni sulla fuga di notizie. Da Mani pulite passando per l’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi mentre era in corso un vertice internazionale a Napoli, tutti si sono chiesti come fosse possibile che gli avvisi di garanzia e i verbali finissero prima sulle pagine dei giornali che nelle mani degli indagati. Tutti si interrogavano, ma dopo essersi posti la domanda si voltavano dall’altra parte. Perché spesso ad aver recapitato le informazioni ai cronisti erano proprio coloro che dovevano fare le indagini per scoprire la talpa che aveva passato la notizia. Sì, basta leggere la magistrale ricostruzione di Amadori per scoprire come certe notizie filtrano sui giornali. I cronisti non usano droni né dispongono di microspie: semplicemente fanno parte del sistema, di un intreccio di potere che lega giornalisti, inquirenti e magistrati e che ha le sue basi operative nelle Procure. È inutile fingere, fare gli indignati o sorprendersi. Sono trent’anni che funziona così. Non c’è il mago Otelma dietro la pubblicazione delle carte. Ci sono quelli che le carte le detengono e le usano, non per fare i processi nelle aule di tribunale: per farli sulle prime pagine, allo scopo di condizionare l’opinione pubblica o una nomina. E però lasciatemi dire un’ultima cosa. Dal Pool del 1992, non quello di Di Pietro e dei quattro dell’Ave Maria in toga, ma quello dei cronisti giudiziari, i quali si scambiavano le notizie e concordavano le prime pagine, questo è un fenomeno che riguarda le testate della sinistra o per lo meno quelle dove lavorano i giornalisti di sinistra. Dall’Unità a Repubblica, dal Corriere alla Stampa, per finire al Messaggero, a quell’epoca concordavano che cosa pubblicare e come. I titoli sembravano una fotocopia e anche gli articoli. I colleghi lavoravano in pool. Più semplice. Cambiava la testata, ma la notizia era immutata. Non sto rivelando niente: è storia, raccontata dagli stessi protagonisti dell’epoca i quali, a una certa ora della sera, prima di andare in stampa, concordavano il titolo della prima pagina, così che la notizia, diffusa su più testate, avesse un effetto maggiore. L’unica cosa nuova è che da allora niente o quasi è cambiato. I cronisti vanno in Procura, dal cancelliere, dal finanziere o dal magistrato, e raccolgono quello che c’è da raccogliere. A volte si fanno usare, altre usano loro l’inquirente. Come ha capito chi ha letto l’articolo di Amadori, questo non c’entra nulla con la libertà di stampa. Questo è un sistema che condiziona perfino la stessa libertà di stampa. Oltre alla politica e alla stessa magistratura. Se qualcuno non si incaricherà di smontarlo, casi come quello di Perugia li rivedremo ancora. Con le stesse lamentazioni e gli stessi silenzi ipocriti di chi parla di diritto dell’informazione e di autonomia della magistratura.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)