2025-01-20
«In questo clima anti polizia possono inserirsi lupi solitari»
L’ex ministro Marco Minniti: «Trump è stato decisivo nella tregua a Gaza: l’America si riprende il suo posto nel mondo. L’Italia ora può essere protagonista e non solo mediatrice».«Disordini di piazza? Inaccettabile attaccare la polizia. Mi preoccupa il clima di violenza: i lupi solitari nelle nostre periferie potrebbero risvegliarsi. E troppo spesso la politica continua a sottovalutare il problema sicurezza». Dai moti di piazza contro le forze dell’ordine al nuovo corso presidenziale di Donald Trump: Marco Minniti, presidente della Fondazione Med-Or, si interroga sui nuovi equilibri mondiali. «Il neopresidente è stato decisivo nella tregua a Gaza: è una svolta, l’America si riprende il suo posto nel mondo. L’operazione Cecilia Sala? Impeccabile. L’Italia ha l’opportunità di non essere soltanto mediatore, ma protagonista nel quadro mondiale». È stato quattro anni al Viminale: che effetto le fanno gli assalti alla polizia da parte di studenti e centri sociali, per «vendicare» la morte di Ramy Elgaml?«Dobbiamo essere molto chiari: gli scontri degli ultimi giorni contro la polizia sono ingiustificati e inaccettabili. In una democrazia è tutelata l’espressione del dissenso, anche radicale, ma c’è un limite che non va mai superato: l’uso della violenza. Ha ragione il padre di Ramy: il desiderio di giustizia non può accompagnarsi ai gesti violenti».Quindi?«Quindi tutti hanno il dovere di dire “basta”. Tutti hanno il dovere di essere vicini alle forze dell’ordine: non per infilargli una maglietta politica, e nemmeno per elevarli al di sopra della legge, ma semplicemente perché sono la più alta espressione della legalità in una democrazia».Chi oggi lancia una pietra domani potrebbe piazzare una bomba?«Il problema è il clima che si sta creando. In un’atmosfera di violenza possono inserirsi i lupi solitari, che progettano atti estremi individuali. L’abbiamo visto in Germania, a Solingen, Magdeburgo, e negli Stati Uniti, a New Orleans».Intravede il rischio di una violenza di matrice religiosa?«L’Islamic State è stato sconfitto militarmente, ma il messaggio del suo capo della propaganda, al-Adnani, circola ancora: “Se non hai un kalashnikov, se non hai un coltello, prendi un’automobile e gettati sulla folla”».La politica sottovaluta l’allarme sicurezza?«Sì, e troppo spesso dimentica che sicurezza e integrazione sono due facce della stessa medaglia. Gli attentatori che, a partire da Charlie Hebdo, hanno portato la morte in Europa, non arrivavano dalla Siria o dall’Iraq: sono cresciuti nelle periferie degradate, a casa nostra. Terre di nessuno, dove la polizia non entrava. Dobbiamo convincerci che non possono esistere zone franche in cui viene sospesa la sovranità dello Stato».È solo una questione di controllo del territorio?«Sì, ma in tutte le sue accezioni. Per avere sicurezza serve la polizia, serve catturare i criminali, ancor prima di aumentare le pene. Ma serve anche l’illuminazione pubblica per le strade, le politiche sociali, la legalità, le regole urbanistiche. E le amministrazioni locali devono prendersi il proprio pezzo di responsabilità: non può fare tutto lo Stato centrale».Dunque occorrono scelte politiche precise: ritornare alle periferie?«Non si può governare il territorio senza ripartire dalle periferie. Bisogna saper parlare a quella gente. Se le condizioni di vita non sono adeguate, la rabbia cresce e diventa voglia di rivincita».A proposito di rivincita, Donald Trump si è preso la sua. Oggi giura al Campidoglio. Cosa si aspetta dal nuovo presidente?«Intanto direi che la rivincita se l’è presa il “sistema” americano, che non è zoppicante come qualcuno credeva, ma al contrario ha dimostrato grande vitalità. Gli Stati Uniti hanno avuto una transizione istituzionale ordinata, e non era affatto scontato».Si riferisce all’attentato a Trump?«Solo qualche mese fa rischiava di morire colpito da un proiettile, con evidenti responsabilità dei servizi di sicurezza interni. Se fosse stato ucciso, saremmo precipitati sull’orlo della guerra civile. Invece l’America, drammaticamente divisa, ha trovato la forza di unirsi. Biden e Trump hanno costruito insieme un percorso che ha allentato le tensioni sui principali nodi interni e internazionali. E noi italiani, da questo punto di vista, dovremmo imparare la lezione».Intanto i due presidenti si prendono entrambi il merito della tregua a Gaza. Dice Trump: ho ottenuto un grande risultato, prima ancora di mettere piede nello studio ovale.«L’accordo su Gaza è stato gestito dall’amministrazione Biden, ma l’obiettivo non sarebbe stato raggiunto senza la spinta determinante di Donald Trump. Ha fatto grandi pressioni sul vecchio amico Netanyahu. E poi ha nominato Steve Witkoff inviato speciale in Medio Oriente, l’uomo chiave che ha accelerato la trattativa».Perché Trump ha preso in mano la partita di Gaza prima ancora di insediarsi alla Casa Bianca?«Perché occorreva salvare la vita agli ostaggi, alcuni dei quali cittadini americani. Rifacendosi alla sua parola d’ordine, “America First”, Trump ha voluto manifestare la sua volontà di non abbandonare nessun connazionale all’estero. Ma non è solo questo. La tregua di Gaza, pur con le sue fragilità, rappresenta una svolta».Quale svolta?«Trump, ancor prima di mettere piede alla Casa Bianca, ha provocato un cambiamento di percezione dell’influenza degli Stati Uniti. In Medio Oriente sia Biden che Blinken non erano riusciti ad ottenere risultati concreti, la supremazia americana era messa in dubbio in tanti ambienti internazionali. Trump ha voluto rimarcare subito che l’influenza degli Usa è ancora forte, e con la tregua a Gaza, ci è riuscito. Adesso potrà occuparsi dell’Ucraina da una posizione più vantaggiosa».Si arriverà in fretta a una pace anche con la Russia?«Per Trump è la partita più importante: se dovesse vincerla, avrebbe tutta la strada in discesa. Ma non è semplice: dopo aver perso la sua presa in Siria, Putin non accetterà un altro ridimensionamento in Ucraina. Non sarà remissivo. Dunque bisogna conciliare l’esigenza di pace con la necessità di giustizia. Un passo importante sarebbe favorire l’ingresso di Kiev nell’Unione europea».Trump abbandonerà l’Europa al suo destino, se gli Stati europei non apriranno i cordoni della borsa aumentando le spese militari?«Quella di Trump non è una minaccia. Il presidente americano sta invitando l’Ue ad assumersi delle responsabilità. È una sfida che l’Europa deve accettare, facendo ripartire il progetto per una politica estera e una difesa comune. Per fare un salto del genere, serve una forte pressione politica, e Trump si è incaricato di questo compito».Lei si occupa di intelligence da più di vent’anni, e ha gestito le trattative per la liberazione di molti cittadini italiani. Come giudica l’operazione che ha portato al rilascio della giornalista Cecilia Sala?«Una vicenda gestita in maniera impeccabile. L’esaltazione di un patrimonio della tradizione italiana: il principio secondo cui la vita umana ha priorità su tutto».Perché gestione impeccabile?«Per la tempestività. Era importante fare in fretta, e riportare a casa la giornalista prima dell’insediamento di Trump, perché un presidente in carica avrebbe avuto meno spazi di manovra».E l’incontro Meloni-Trump in Florida?«È stato fondamentale. L’Italia ha saputo ottenere il via libera da Trump, che non è certo amico degli iraniani: anzi, da presidente, aveva ordinato l’uccisione del capo dei pasdaran Soleimani. Il premier Meloni ha dimostrato grande consapevolezza politica, esponendosi in prima persona in una operazione in cui peraltro non c’erano garanzie di successo».Quali sono le conseguenze di questa operazione?«Ricordiamoci che le due scarcerazioni, Sala e Abedini, non sono avvenute in contemporanea. Per motivi di immagine, non vi è stata alcuna “equiparazione” tra i due prigionieri, nessuno scambio sul Ponte delle spie, come nel famoso film di Spielberg. Questo significa, in un certo senso, che l’Iran si è dovuto fidare dell’Italia. E questo è un segnale importante: in tanti, nel panorama internazionale, pensano che il nostro Paese potrà giocare un ruolo importante in futuro».In che senso?«Nel caos mondiale, l’Italia gode di un’occasione irripetibile. Vanta una oggettiva stabilità di governo, a differenza di Francia e Germania. È il punto di congiunzione tra Occidente e sud del mondo. L’asse privilegiato tra Roma e Washington è inoltre un fattore di forza per Giorgia Meloni, sapendo, tuttavia, che il rapporto con l’Europa è altrettanto strategico. In questo quadro, abbiamo l’opportunità di ottenere un riconosciuto ruolo internazionale. Non solo come mediatori, ma come protagonisti».Anche nei rapporti con i Paesi africani?«Il piano Mattei ha cementato un rapporto molto forte con il cosiddetto “Mediterraneo allargato”. Sono queste relazioni con l’Africa ad aver ridotto fortemente i flussi migratori, che sono tornati ai livelli del 2021. E queste relazioni sono la scelta strategica per governare il problema».L’immigrazione incontrollata tornerà a colpire l’Italia?«Il rischio c’è. Dopo ciò che è avvenuto in Siria, potrebbe riaprirsi la rotta balcanica. La Russia potrebbe rafforzare la sua presenza militare in Cirenaica e nel Sahel, ed incentivare le migrazioni come ennesimo atto della guerra asimmetrica. Non possiamo abbassare la guardia, ma occorre agire».Come?«Accanto agli accordi bilaterali già firmati, dobbiamo arrivare a un patto strategico per le migrazioni legali tra Unione europea e Unione africana, con il contributo dell’Onu. Tutti insieme dobbiamo contrastare i trafficanti degli esseri umani e garantire solo flussi nel rispetto della legalità. E l’Italia oggi ha i numeri per guidare questa sfida».
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)