2022-07-23
Il trucco dell’«agenda Draghi»
Mario Draghi (Antonio Masiello/Getty Images)
Non avendo idee proprie, Enrico Letta e compagni provano a nascondersi dietro allo slogan che faccia sembrare il premier uscente in campo con loro. Ma a ben guardare la ricetta è quella che pretende Bruxelles: un insieme di laccioli con spruzzata di tasse. Non avendo idee proprie, a sinistra si innamorano volentieri di quelle degli altri, trasformandole in dogmi da osservare rigorosamente. Dieci anni fa capitò con Mario Monti che, subentrato a Silvio Berlusconi per fare i compiti a casa per conto di Merkel&Sarkozy, predispose una sua agenda, trascrivendovi gli impegni graditi a Bruxelles. L’agenda Monti è stata per mesi la stella polare dei compagni di stretta osservanza riformista, salvo poi essere buttata appena il senatore a vita fece un proprio partito, racimolando appena l’8 per cento. Trascorsi due lustri in cui la sinistra è stata al governo complessivamente per quasi nove anni, riecco un’altra agenda, ma questa volta a essere sbandierata come il Libretto rosso del compianto (da loro) presidente Mao è l’agenda Draghi. Sì, l’ex governatore della Bce si è dimesso e non vede l’ora di lasciarsi alle spalle Palazzo Chigi, ma nel Pd sono pronti a raccoglierne l’eredità. Da Enrico Letta in giù si sono all’improvviso scoperti tutti draghiani pur senza avere sottomano Draghi. Se fosse possibile cambierebbero anche il nome: da Partito democratico a Partito draghiano. Pur avendolo molestato fino all’ultimo, complicandogli la vita con proposte bizzarre e inutili come lo ius scholae, la liberalizzazione della cannabis e la legge sul fine vita, aggiungendo pure la riforma del salario minimo, oggi nel Pd lo rimpiangono. Non solo perché si rendono conto che molto probabilmente le elezioni costringeranno il partito a cinque anni di opposizione, ma l’addio prematuro dell’ex governatore li lascia orfani di una figura dietro cui nascondersi nei momenti difficili e dietro la quale ripararsi per sostenere l’Ucraina. Senza Draghi, Letta & C., ossia la mitica ditta di Pier Luigi Bersani, si sentono privi di una bussola che consenta loro di orientarsi. Dunque, eccoli determinati ad appropriarsi dell’agenda Draghi, in modo da poterla esibire durante la campagna elettorale. Il discorso con cui Mr Bce in Senato ha sfanculato i partiti, criticando il reddito di cittadinanza, il super bonus, lo sforamento di bilancio e un’altra serie di temi caldi, in pratica sarà il programma del Pd e dei suoi alleati. Così, da impegno di fine legislatura, quale doveva essere visto che Draghi prima di dimettersi aveva detto chiaramente di non avere alcuna intenzione di rimanere dopo la primavera dell’anno prossimo, l’agenda Draghi diventa per il Pd un programma di legislatura.Ma in concreto, in che cosa consiste l’agenda Draghi? A dire il vero la si potrebbe chiamare agenda Bruxelles, perché di fatto recepisce in pieno quelle che sono le aspettative dell’Unione europea in materia di fisco, giustizia, infrastrutture, eccetera. Se non ci fossero gli impegni connessi al Pnrr, nella sostanza non sarebbe poi nemmeno tanto dissimile all’agenda Monti: un insieme di buoni propositi per rendere più efficiente la macchina burocratica del Paese con una spruzzata di tasse, ingrediente che la Ue non si dimentica mai di aggiungere al piatto che vorrebbe servire all’Italia. Che sia una patrimoniale secca sui conti correnti e sugli investimenti o una stangata sulle case come quella celata dietro la riforma del catasto, la ricetta è sempre la stessa. Al punto che viene spontaneo chiedersi: ma se a sinistra l’agenda Monti-Draghi-Bruxelles piace così tanto, perché Letta, Renzi, Gentiloni e il Conte giallorosso non l’hanno attuata quando erano al governo? Ma se in nove anni, in cui hanno volentieri occupato le poltrone del ministero dell’Economia e della Giustizia con Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Roberto Gualtieri, Andrea Orlando e Alfonso Bonafede non hanno mai realizzato nessuno dei punti dell’agenda, né quello della riforma fiscale né quello che avrebbe sveltito i processi, perché dovrebbero riuscirci ora? La realtà è che non avendo idee, ma essendo abituati a seguire la linea imposta dai vertici del partito, i compagni si innamorano spesso delle parole d’ordine. Agenda Draghi suona bene anche senza Draghi. Anzi, via lui viene anche meglio, in quanto si è liberi di interpretarla a piacimento usando il suo nome. Come dicono gli esperti di marketing, Draghi è un brand. È in cima alla lista delle cose che piacciono. Dopo il suo brusco addio, è anzi diventato un’icona pop, come lo era fino a un anno e mezzo fa Giuseppe Conte. Ricordate? All’epoca, Nicola Zingaretti e il suo Rasputin Goffredo Bettini pensavano che l’avvocato di Volturara Appula fosse un punto di riferimento per l’intera sinistra. Non eravamo ancora al campo largo, ma al campo dei fiori, con una corrispondenza d’amorosi sensi. A corto di leader come di idee, pensavano di appropriarsi perfino del professorino inventato un giorno d’estate da Luigi Di Maio. Sappiamo tutti come è finita. E sappiamo come finirà l’agenda Draghi senza Draghi.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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