2023-04-18
Il viaggio del gesuita Chow in Cina: un altro sbandamento pro Pechino
Stephen Chow (Getty images)
Il vescovo di Hong Kong è tra gli esponenti cattolici favorevoli al discusso accordo sino-vaticano. I rapporti Santa Sede-Repubblica popolare sono ora in fase problematica: Xi non ne vuole sapere di libertà religiosa.È arrivato ieri a Pechino il vescovo di Hong Kong, Stephen Chow, per una visita che durerà complessivamente cinque giorni. Era dal 1994 che un vescovo di Hong Kong non si recava nella Repubblica popolare cinese. Una visita, quella di Chow, che arriva in un momento particolarmente delicato per le relazioni tra Pechino e la Santa Sede. Posto alla guida della diocesi dell’ex colonia britannica nel 2021, Chow appartiene a quella Compagnia di Gesù che, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, figura tra i gruppi cattolici maggiormente favorevoli al controverso accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi, firmato nel settembre 2018 e rinnovato finora due volte nell’ottobre 2020 e nell’ottobre 2022: un accordo, ricordiamolo, di cui non sono stati resi noti i dettagli. In tal senso, la visita di Chow può essere letta anche come un ulteriore segnale di distensione nei confronti di Pechino da parte della Santa Sede. Eppure attenzione: il viaggio di Chow avviene infatti in una fase piuttosto problematica per i rapporti tra il Vaticano e il Dragone. A inizio aprile, il vescovo di Haimen, Shen Bin, è stato posto alla guida della diocesi di Shanghai dal Consiglio dei vescovi cinesi: un organo sottoposto al Partito comunista cinese, che Roma non riconosce. E infatti quella nomina è avvenuta senza l’approvazione della Santa Sede. In secondo luogo, era fine marzo quando la Catholic News Agency riferì che le autorità della città di Wenzhou hanno obbligato i genitori dei bambini che frequentano gli asili a sottoscrivere una dichiarazione in cui affermano di «non avere un credo religioso, non partecipare ad alcuna attività religiosa e non propagare e diffondere la religione in nessun luogo». D’altronde, appena poche settimane prima, parlando al Congresso nazionale del popolo, l’allora premier cinese uscente, Li Keqiang, sostenne che il Partito comunista cinese dovesse «guidare attivamente le religioni ad adattarsi alla società socialista». Non è del resto un mistero che, dal 2018, Xi Jinping stia portando avanti una politica di «sinicizzazione», volta all’indottrinamento dei fedeli cinesi sulla base dei principi del socialismo: un processo che a partire dallo scorso agosto sembra essersi addirittura accentuato. Ma notizie ancora più inquietanti sono arrivate giovedì da Asia News, secondo cui «padre Xie Tianming, della diocesi di Baoding (Hebei), è sparito dalle sei del pomeriggio del 10 aprile». Si tratta, guarda caso, di un esponente della comunità sotterranea, che Pechino non riconosce. «Da quanto si è appreso», ha proseguito Asia News, «padre Xie è “scomparso” perché ha deciso di registrarsi negli organismi ecclesiali ufficiali, sottomessi al Partito comunista cinese. In queste situazioni, le autorità portano via un religioso, confinandolo in un posto segreto, e lo sottopongono a sessioni di “lavaggio del cervello” per la sua “rieducazione” politica». Insomma, sembra proprio che l’accordo sino-vaticano non solo non stia giovando ai rapporti istituzionali tra Santa Sede e Repubblica popolare, ma che non abbia finora neppure migliorato le condizioni dei cattolici cinesi. Tant’è che qualche dubbio inizia timidamente a trapelare anche dalle alte gerarchie vaticane. A metà marzo, in un’intervista a Ewtn, il Segretario per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Gallagher, ha ammesso che l’intesa stipulata con Pechino «non è il miglior accordo possibile». Certo: Gallagher non ha bocciato l’intesa e ha, anzi, auspicato che possa essere migliorata. Tuttavia le sue parole riconoscono la presenza di difficoltà notevoli nei rapporti con la Repubblica popolare. E intanto la geopolitica divide i sacri palazzi. Come detto, l’area cattolica progressista e di tendenza terzomondista (dai gesuiti a Sant’Egidio) spinge a favore dell’accordo sino-vaticano, il cui artefice principale è il cardinal segretario di Stato, Pietro Parolin. Dall’altra parte, l’ala «ratzingeriana» auspica che la segreteria di Stato sposti il baricentro della politica estera vaticana più a Occidente. Critiche all’intesa tra la Santa Sede e Pechino sono infatti arrivate in passato dai cardinali Joseph Zen, Gerhard Müller, Raymond Burke e Timothy Dolan. In particolare, gli ultimi due sono statunitensi e considerati piuttosto vicini al Partito repubblicano (secondo quanto risulta a La Verità, Burke intratterrebbe rapporti piuttosto buoni con il governatore della Florida, Ron DeSantis, che starebbe per candidarsi alla nomination presidenziale del Gop). Non è un mistero che gli Usa guardino con estremo sospetto all’intesa sino-vaticana. L’amministrazione Trump, tramite l’allora segretario di Stato Mike Pompeo, cercò di evitare che essa fosse rinnovata nell’ottobre 2020. Con Joe Biden, i rapporti tra Washington e la Santa Sede sembrano meno tesi, ma l’attuale segretario di Stato americano, Tony Blinken, ha affrontato comunque il tema della libertà religiosa in Cina, incontrando Parolin e Gallagher in Vaticano a giugno 2021. È chiaro che, mentre aumentano gli attriti geopolitici tra Stati Uniti e Repubblica popolare, le violazioni dell’accordo vaticano, perpetrate dal Partito comunista cinese, mettono indirettamente in difficoltà i suoi fautori. Una leva in più a disposizione dei «ratzingeriani», per frenare la distensione nei confronti di Pechino. Perché Xi non ne vuole sapere di libertà religiosa. Punta solo a rafforzarsi diplomaticamente e a isolare Taiwan. Quello del presidente cinese è un mero calcolo cinico. E la Santa Sede deve evitare di cadere nella sua trappola.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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