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2019-12-04
Il tramonto di Kamala Harris
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Ansa
«Ma voglio essere chiara con voi: sono ancora molto coinvolta in questa lotta», ha proseguito. «E continuerò a lottare ogni giorno per quello che è stata questa campagna. Giustizia per il popolo. Tutto il popolo. Quindi, ecco la verità oggi. Ho fatto il punto e guardato questo da ogni angolazione, e negli ultimi giorni sono giunta a una delle decisioni più difficili della mia vita», ha continuato la senatrice. «La mia campagna per la presidenza semplicemente non ha le risorse finanziarie di cui abbiamo bisogno per continuare […] Non sono una miliardaria. Non posso finanziare la mia campagna». Sarcastico il commento di Donald Trump su Twitter: «Peccato. Ci mancherai Kamala!».
L'uscita di scena della Harris è arrivata in modo abbastanza inatteso, sebbene non risultasse un mistero che la sua campagna fosse piombata in uno stato di profondissima difficoltà. Candidatasi formalmente lo scorso gennaio, la senatrice aveva inizialmente riscosso molto successo, tanto da venire ben presto considerata una delle contendenti più forti nella sovraffollata pletora delle primarie democratiche. D'altronde, la Harris aveva ottenuto una significativa notorietà nell'autunno del 2018, quando in Senato aveva guidato l'opposizione alla conferma del giudice Brett Kavanaugh, nominato da Donald Trump alla Corte Suprema. Tra febbraio e marzo, la sua popolarità era in costante ascesa, con i sondaggi che la davano addirittura al terzo posto, dietro a Bernie Sanders e Joe Biden. Il momento di massima forza lo ha riscontrato nei primi giorni di luglio, grazie a un efficace attacco che condusse contro lo stesso Biden nel corso del primo dibattito televisivo tra i candidati democratici, tenutosi a Miami.
Al di là dell'abilità mediatica, la Harris sembrava aver ben chiaro come ricostituire la coalizione elettorale che aveva portato Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008 e nel 2012. Eppure, nonostante i sondaggi all'epoca favorevoli, iniziò ben presto ad essere chiaro che la senatrice avesse un problema: per ripristinare quella coalizione era infatti fondamentale recuperare il voto dei colletti blu della Rust Belt. Un mondo cui la Harris aveva tuttavia ben poco da dire. Molto ferrata sui diritti civili e l'ambientalismo, non lo è mai stata altrettanto sulle questioni economiche e in materia di commercio internazionale. Inoltre, col tempo cominciò a manifestarsi un ulteriore problema. A fronte della crescente polarizzazione dello scontro tra centro e sinistra nel Partito democratico, la Harris ha pensato di proporsi come candidato di sintesi, occupando spesso una posizione intermedia tra le fazioni contrapposte. Una strategia anche intelligente sulla carta ma che l'ha nei fatti esposta agli attacchi di chi la considerava un'opportunista o - forse ancor peggio - una figura senza un messaggio elettorale chiaro e definito: si pensi soltanto alla sua ambiguità in tema di riforma sanitaria. Se Pete Buttigieg - per intenderci - ha man mano trovato la propria collocazione spostandosi al centro, la senatrice è rimasta in mezzo al guado, scontentando alla fine un po' tutti. Questi problemi strutturali si sono progressivamente acuiti, per poi esplodere improvvisamente a causa dei durissimi attacchi che la Harris ha dovuto fronteggiare da parte della deputata delle Hawaii, Tulsi Gabbar: quella stessa Tulsi Gabbard che ha tacciato - non senza efficacia - la senatrice di opportunismo e ipocrisia, rinfacciandole la carriera da procuratrice in California e arrivando a insinuare che la sua fede politica liberal progressista fosse in realtà insincera.
Tutto questo ha pesato assai negativamente sulla campagna della Harris. Dalla metà di luglio, è iniziato il suo declino sondaggistico. Un declino che si è rivelato inesorabile e da cui la senatrice non è più riuscita a riprendersi. Se il 10 di luglio aveva raggiunto il picco del 15% nei consensi, le rilevazioni degli ultimissimi giorni la davano appena al 3%. Anche sul fronte della raccolta fondi, la situazione era diventata tutt'altro che rosea, mentre all'interno del suo staff regnava ormai il caos. Del resto, come sottolinea anche Cnn, che ci fossero problemi difficilmente sormontabili era chiaro già da novembre, quando la senatrice aveva ridotto quasi del tutto il numero dei suoi collaboratori in New Hampshire, per poter fare campagna elettorale in Iowa.
Recentemente si erano ritirati dalle primarie democratiche anche il governatore del Montana, Steve Bullock, e il deputato della Pennsylvania, Joe Sestak. Due figure comunque del tutto impalpabili rispetto alla Harris che - a oggi - è forse la candidata più rilevante ad aver abbandonato la corsa per la nomination del 2020. Visti gli esigui consensi ultimamente raccolti, è improbabile che la sua uscita di scena possa avere significative ripercussioni sugli equilibri interni alla campagna elettorale. D'altronde, gli originari sostenitori della senatrice sono già stati ampiamente conquistati da Elizabeth Warren e - in misura minore - da Buttigieg. Non è tuttavia escludibile che il tramonto della Harris possa spingere altri candidati da tempo in difficoltà (come Julian Castro e Cory Booker) a fare ben presto un passo indietro.
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Le primarie democratiche perdono un altro protagonista. Kamala Harris si è ritirata martedì dalla corsa per la nomination. In un video diffuso su Twitter, la senatrice della California ha dichiarato: «Per voi miei sostenitori, miei cari sostenitori, è con profondo rammarico - ma anche con profonda gratitudine - che oggi sospendo la nostra campagna».«Ma voglio essere chiara con voi: sono ancora molto coinvolta in questa lotta», ha proseguito. «E continuerò a lottare ogni giorno per quello che è stata questa campagna. Giustizia per il popolo. Tutto il popolo. Quindi, ecco la verità oggi. Ho fatto il punto e guardato questo da ogni angolazione, e negli ultimi giorni sono giunta a una delle decisioni più difficili della mia vita», ha continuato la senatrice. «La mia campagna per la presidenza semplicemente non ha le risorse finanziarie di cui abbiamo bisogno per continuare […] Non sono una miliardaria. Non posso finanziare la mia campagna». Sarcastico il commento di Donald Trump su Twitter: «Peccato. Ci mancherai Kamala!».L'uscita di scena della Harris è arrivata in modo abbastanza inatteso, sebbene non risultasse un mistero che la sua campagna fosse piombata in uno stato di profondissima difficoltà. Candidatasi formalmente lo scorso gennaio, la senatrice aveva inizialmente riscosso molto successo, tanto da venire ben presto considerata una delle contendenti più forti nella sovraffollata pletora delle primarie democratiche. D'altronde, la Harris aveva ottenuto una significativa notorietà nell'autunno del 2018, quando in Senato aveva guidato l'opposizione alla conferma del giudice Brett Kavanaugh, nominato da Donald Trump alla Corte Suprema. Tra febbraio e marzo, la sua popolarità era in costante ascesa, con i sondaggi che la davano addirittura al terzo posto, dietro a Bernie Sanders e Joe Biden. Il momento di massima forza lo ha riscontrato nei primi giorni di luglio, grazie a un efficace attacco che condusse contro lo stesso Biden nel corso del primo dibattito televisivo tra i candidati democratici, tenutosi a Miami.Al di là dell'abilità mediatica, la Harris sembrava aver ben chiaro come ricostituire la coalizione elettorale che aveva portato Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008 e nel 2012. Eppure, nonostante i sondaggi all'epoca favorevoli, iniziò ben presto ad essere chiaro che la senatrice avesse un problema: per ripristinare quella coalizione era infatti fondamentale recuperare il voto dei colletti blu della Rust Belt. Un mondo cui la Harris aveva tuttavia ben poco da dire. Molto ferrata sui diritti civili e l'ambientalismo, non lo è mai stata altrettanto sulle questioni economiche e in materia di commercio internazionale. Inoltre, col tempo cominciò a manifestarsi un ulteriore problema. A fronte della crescente polarizzazione dello scontro tra centro e sinistra nel Partito democratico, la Harris ha pensato di proporsi come candidato di sintesi, occupando spesso una posizione intermedia tra le fazioni contrapposte. Una strategia anche intelligente sulla carta ma che l'ha nei fatti esposta agli attacchi di chi la considerava un'opportunista o - forse ancor peggio - una figura senza un messaggio elettorale chiaro e definito: si pensi soltanto alla sua ambiguità in tema di riforma sanitaria. Se Pete Buttigieg - per intenderci - ha man mano trovato la propria collocazione spostandosi al centro, la senatrice è rimasta in mezzo al guado, scontentando alla fine un po' tutti. Questi problemi strutturali si sono progressivamente acuiti, per poi esplodere improvvisamente a causa dei durissimi attacchi che la Harris ha dovuto fronteggiare da parte della deputata delle Hawaii, Tulsi Gabbar: quella stessa Tulsi Gabbard che ha tacciato - non senza efficacia - la senatrice di opportunismo e ipocrisia, rinfacciandole la carriera da procuratrice in California e arrivando a insinuare che la sua fede politica liberal progressista fosse in realtà insincera. Tutto questo ha pesato assai negativamente sulla campagna della Harris. Dalla metà di luglio, è iniziato il suo declino sondaggistico. Un declino che si è rivelato inesorabile e da cui la senatrice non è più riuscita a riprendersi. Se il 10 di luglio aveva raggiunto il picco del 15% nei consensi, le rilevazioni degli ultimissimi giorni la davano appena al 3%. Anche sul fronte della raccolta fondi, la situazione era diventata tutt'altro che rosea, mentre all'interno del suo staff regnava ormai il caos. Del resto, come sottolinea anche Cnn, che ci fossero problemi difficilmente sormontabili era chiaro già da novembre, quando la senatrice aveva ridotto quasi del tutto il numero dei suoi collaboratori in New Hampshire, per poter fare campagna elettorale in Iowa.Recentemente si erano ritirati dalle primarie democratiche anche il governatore del Montana, Steve Bullock, e il deputato della Pennsylvania, Joe Sestak. Due figure comunque del tutto impalpabili rispetto alla Harris che - a oggi - è forse la candidata più rilevante ad aver abbandonato la corsa per la nomination del 2020. Visti gli esigui consensi ultimamente raccolti, è improbabile che la sua uscita di scena possa avere significative ripercussioni sugli equilibri interni alla campagna elettorale. D'altronde, gli originari sostenitori della senatrice sono già stati ampiamente conquistati da Elizabeth Warren e - in misura minore - da Buttigieg. Non è tuttavia escludibile che il tramonto della Harris possa spingere altri candidati da tempo in difficoltà (come Julian Castro e Cory Booker) a fare ben presto un passo indietro.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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