2019-10-30
Il Quirinale ha deciso: se il governo va giù taglio degli onorevoli e si torna alle urne
Il Colle non è disposto ad avallare altri inciuci: fatta la manovra scioglierà le Camere, poi andrà ricalibrata la legge elettorale. Come La Verità aveva anticipato ieri, era impensabile che Sergio Mattarella, che pure aveva dato luce verde - ad agosto - allo sbilenco esperimento giallorosso, si rendesse ora disponibile a un nuovo atto di estrema impopolarità, in altre parole a dare copertura istituzionale a un cambio in corsa di premier, mantenendo la medesima maggioranza appena umiliata in Umbria. Al Quirinale nessuno lo ammette apertamente, ma in estate anche il Colle più alto è stato corresponsabile di un calcolo politico rivelatosi sbagliatissimo: allora, troppi nei palazzi romani si trincerarono dietro l'aritmetica, che effettivamente certificava una nuova maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Ma la fragilità e l'impopolarità dell'operazione era chiara a tutti. Adesso che la scommessa giallorossa è naufragata, il Colle ha deciso che non commetterà un secondo errore di calcolo, e ha fatto consegnare al Corriere della Sera un eloquente avviso ai naviganti: se cade il Conte bis, si andrà alle urne. Insomma, il capo dello Stato non è disposto a consentire altri pasticci per bypassare gli elettori. Un messaggio fin troppo chiaro per Matteo Renzi e Luigi Di Maio, i quali, fino al voto umbro, coltivavano la speranza di liberarsi di Conte, insediare un altro «prestanome», e tenere viva la legislatura. E allora esploriamo lo scenario elettorale, destinato a concretizzarsi in caso di crisi conclamata o comunque di esaurimento dell'attuale esecutivo. Un punto fermo è che la legge di bilancio deve in ogni caso arrivare in porto: per orrida che sia (e, settimana dopo settimana, quasi tutti ne disconosceranno la paternità), sarà comunque approvata entro il 31 dicembre. E, fino ad allora, non vi sarà alcuno scioglimento delle Camere.Del resto, ad allungare la partita concorre anche un altro fattore. Si ricorderà che il 7 ottobre scorso, alla Camera, è stata definitivamente approvata la revisione costituzionale che taglia il numero di deputati e senatori. Come ogni cambiamento della Costituzione, anche quella legge può essere sottoposta a referendum confermativo. E sono state attivate diverse strade per arrivare all'obiettivo. Per un verso, il Partito radicale ha depositato presso la Corte di Cassazione una richiesta di referendum: l'impresa, che pare proibitiva, è quella di raccogliere 500.000 firme entro il 9 gennaio 2020. Ma pare francamente surreale immaginare che gli italiani facciano la coda per chiedere di riaumentare il numero dei parlamentari. Per altro verso, e questa sembra invece una strada più facile, la Costituzione permette che a chiedere il referendum sia un quinto dei membri di una Camera: appena 65 senatori o 126 deputati. L'iniziativa è stata presa dai senatori Nazario Pagano e Andrea Cangini (Fi) e Tommaso Nannicini (Pd), e, nell'altro ramo del Parlamento, dai deputati Roberto Giachetti (Italia viva), Debora Bergamini (Fi) e Riccardo Magi (Più Europa). Anche in questo caso ci sono tre mesi di tempo: che scadranno intorno al 12 gennaio. Perché ci siamo concentrati su questa raccolta di firme? Perché se dovesse andare in porto, allora sarebbe necessariamente indetto il referendum in primavera, e non sarebbero sciolte le Camere fino al compimento dell'intero iter referendario e alla relativa sistemazione della legge elettorale. Insomma, si arriverebbe a giugno. Difficile che i gruppi parlamentari maggiori si carichino l'onere di impopolarità connesso a una simile raccolta di firme. Attenzione però ai parlamentari cani sciolti, quelli che lottano solo per stipendio e mutuo in banca: è presumibile che faranno di tutto (firme incluse) per allungare la legislatura anche solo di qualche mese.Se invece la raccolta di firme in Parlamento non avesse successo, già nella seconda decade di gennaio, pochi giorni dopo la Befana, Mattarella, se Conte fosse nel frattempo andato in crisi, o se, com'è già ora evidente, avesse esaurito ogni spinta e fosse ridotto - politicamente parlando - allo stato vegetativo, potrebbe tranquillamente sciogliere le Camere. Non ci sarebbero nemmeno altre scuse: essendo stata nel frattempo approvata la manovra. La legge prescrive, per le elezioni politiche, una campagna elettorale di durata compresa tra i 45 e i 70 giorni. Morale: si potrebbe votare a fine febbraio, o più realisticamente all'inizio di marzo. Basterebbe solo ricavare - prima dello scioglimento - il tempo strettamente necessario (e con l'impegno di tutti e la supervisione del Quirinale, si potrebbero evitare dilazioni temporali pretestuose) per approvare alla Camera e al Senato l'adattamento tecnico della legge elettorale al diminuito numero di parlamentari. Nei cassetti degli uffici legislativi, giacciono simulazioni e ipotesi prontissime: si tratta solo di scegliere e procedere. Naturalmente, nel momento in cui si mette mano ai collegi, resta da capire se, in extremis, qualcuno cercherà lo spazio anche per un'ulteriore correzione dell'impronta della legge elettorale: e non si tratta mai di scelte dagli effetti banali. Realistico immaginare che Matteo Salvini e Nicola Zingaretti - dai loro diversi punti di vista - abbiano interesse a confermare e perfino irrobustire la parte uninominale maggioritaria, per accentuare la tendenza bipolare. Mentre, sul lato opposto, sia Matteo Renzi (che viaggerebbe sul filo dello sbarramento) sia un Luigi Di Maio desideroso di svincolarsi dall'alleanza con il Pd, spingerebbero per accentuare la parte proporzionale, per garantire anche ai partiti medi (come diverrà M5s) o piccoli (come Italia viva) di avere voce in capitolo nella legislatura successiva. E riprodurre l'effetto palude. Curioso destino: sia il Rottamatore sia gli autoproclamati rivoluzionari grillini costretti a ritagliarsi uno spazietto negli interstizi del proporzionale.
Charlie Kirk (Getty Images)
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