
La situazione in Libia continua a rivelarsi tesa e intricata. Dopo la posticipazione delle elezioni che si sarebbero dovute tenere lo scorso 24 dicembre, la commissione elettorale aveva in un primo momento suggerito come una nuova data quella del 24 gennaio: una proposta che tuttavia non si è realizzata. I nodi sul tavolo sono del resto sia interni che internazionali. L’attuale premier e candidato presidenziale, Abdulhamid Dbeibah, ha recentemente sostenuto che, prima delle elezioni, bisognerebbe approvare una carta costituzionale. “Ora più che mai abbiamo bisogno di una costituzione che protegga il Paese e i suoi cittadini e che governi le elezioni”, ha dichiarato una settimana fa. “Il nostro problema oggi è l'assenza di una base costituzionale o di una costituzione”, ha aggiunto. Un altro candidato, Saif al-Islam Gheddafi, ha invece proposto martedì scorso di posticipare il voto presidenziale e di tenere prima le elezioni parlamentari. Nel frattempo l’Alto consiglio di Stato e la Camera dei Rappresentanti avrebbero raggiunto un accordo preliminare sulla tabella di marcia da seguire per il voto: un passo avanti, sì, ma di fatto si brancola ancora nel buio. In tutto questo, il generale Khalifa Haftar non è restato con le mani in mano: secondo quanto riferito due settimane fa da Libya Observer, l’uomo forte della Cirenaica si sarebbe recato in Israele. Ricordiamo che, già lo scorso novembre, suo figlio Saddam aveva raggiunto il Paese, chiedendo sostegno politico e militare per il padre in cambio di una normalizzazione dei rapporti diplomatici tra lo Stato ebraico e la Libia. In tutto questo, la commissione elettorale ha fatto recentemente sapere che probabilmente le elezioni non potranno tenersi prima di sei mesi.Le potenze internazionali frattanto non cessano di esercitare pressioni. La Turchia non ha al momento nessuna intenzione di fare concretamente un passo indietro dall’Ovest della Libia: anzi, Ankara sembra sempre più intenzionata ad “infiltrarsi” anche nella parte orientale del Paese. Sabato, l’ambasciatore turco in Libia, Kenan Yilamz, si è guarda caso recato a Bengasi, dove ha incontrato vari esponenti della Camera dei Rappresentanti. Nell’occasione, il diplomatico ha rivendicato la legittimità della presenza turca sul territorio libico e ha espresso l’auspicio di aprire un consolato turco nella stessa Bengasi. Anche la Russia, dal canto suo, mantiene la proprio presa sul Paese. Mosca ha in particolare bisogno della Libia orientale come punto d’appoggio per permettere ai mercenari del Wagner Group di raggiungere la regione del Sahel (a partire dal Mali dove, secondo le denunce formulate a dicembre da vari Paesi occidentali, sarebbero stati schierati contractor russi provenienti proprio da Bengasi). La Libia orientale rappresenta quindi un’area strategica per Mosca, perché le consente di irradiare la propria influenza su altre zone del continente africano. Gli Stati Uniti, dal canto loro, non sembrano al momento troppo interessati al dossier libico. Del resto, l’amministrazione Biden appare attanagliata tra due esigenze. Da una parte, la catastrofe afghana sta spingendo Washington ad allontanarsi da tutti gli scenari internazionali considerati non prioritari. Dall’altra, la Casa Bianca teme l’espansione politica e militare russa in Africa. In tal senso, se in un primo momento sembrava puntare maggiormente sull’Italia, adesso l’America pare più intenzionata a scommettere sulla Turchia, per arginare l’influenza russa. Pur non fidandosi troppo di Recep Tayyip Erdogan, Joe Biden vede nel Sultano comunque un membro della Nato già presente in loco e interessato a contenere le mire del Cremlino. Una linea, quella statunitense, che entra in rotta di collisione con i desiderata di Parigi, che vede invece come il fumo negli occhi le manovre turche nell’area. In questo quadro, l’Italia sembra tornata, almeno per il momento, in una posizione di secondo piano. E’ bene quindi che Roma faccia attenzione e cerchi di rilanciare al più presto la propria iniziativa libica.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 9 settembre con Flaminia Camilletti
Ll’Assemblea nazionale francese (Ansa)
- Il voto di fiducia chiamato dallo stesso premier si rivela un autogol pazzesco: in 364 staccano la spina all’esecutivo del centrista. Marine Le Pen: «Fine di un’agonia, ora il voto e poi risaneremo il Paese».
- Verso la nomina di un nuovo primo ministro. Altrimenti elezioni o dimissioni di Macron. Intanto quest’ultimo consulta i giuristi per sapere se poter scippare i poteri dell’Aula.
Lo speciale contiene due articoli.
Mancano ricette per fermare il ballo dei mercati. Lo spread con i Btp a meno di 10 punti.