
Per Durham, l’inchiesta sulla collusione tra Trump e Mosca si basò su dossier infondati e fu spinta dall’astio verso il repubblicano. Critiche pure per le mancate indagini sulla Clinton. Il tycoon: «Hanno truffato il popolo».L’inchiesta dell’Fbi sulla presunta collusione tra Donald Trump e Mosca non aveva basi adeguate. È questa la lapidaria conclusione a cui è giunto il procuratore speciale, John Durham, nel suo rapporto investigativo di oltre 300 pagine, pubblicato lunedì sera. Iniziata nell’aprile 2019, la sua inchiesta si è principalmente concentrata sulla controversa operazione Crossfire Hurricane: l’indagine, aperta dal Bureau nel luglio 2016, sulla presunta collusione tra il comitato elettorale di Trump e il Cremlino. Fu su quella prima inchiesta che, l’anno successivo, si innestò l’indagine sul cosiddetto Russiagate del procuratore speciale, Robert Mueller, risoltasi poi fondamentalmente in una bolla di sapone nel marzo 2019. «Sulla base delle prove raccolte in molteplici indagini esaustive e costose, né le forze dell’ordine statunitensi né la comunità dell’intelligence sembrano aver posseduto alcuna prova effettiva di collusione all’inizio dell’indagine Crossfire Hurricane», si legge nel rapporto. Pur non escludendo categoricamente che potessero esserci gli estremi per un’inchiesta preliminare, Durham ha concluso che non vi fossero sufficienti evidenze per giustificare un’indagine vera e propria ai danni del comitato di Trump. Non solo. Alla base dell’avvio di quell’inchiesta vi sarebbero state delle motivazioni di faziosità politica. Secondo il procuratore, alcuni agenti federali mostravano infatti una «chiara inclinazione» a mettere Trump sotto indagine. In particolare, viene citato il caso di Peter Strzok: uno dei responsabili dell’apertura di Crossfire Hurricane che, secondo il rapporto, «aveva come minimo manifestato sentimenti ostili nei confronti di Trump». Un ulteriore elemento problematico messo in luce da Durham è quello della differenza di trattamento che l’Fbi ha riservato a Hillary Clinton. «La velocità e il modo in cui l’Fbi ha aperto e indagato su Crossfire Hurricane durante la stagione delle elezioni presidenziali sulla base di informazioni grezze, non analizzate e non corroborate riflette anche un notevole allontanamento dal modo in cui si è rapportato a questioni precedenti, che coinvolgevano possibili tentativi di piani di interferenza elettorale straniera diretti alla campagna della Clinton», prosegue il rapporto. Mentre l’Fbi informò il comitato dell’allora candidata dem quando si presentarono rischi di infiltrazioni straniere, non fece altrettanto con quello di Trump. E non è finita qui. A luglio 2016, l’intelligence americana entrò in possesso di informazioni, secondo cui la Clinton aveva predisposto un «piano» per accusare falsamente Trump di legami con Mosca. Di questo presunto piano furono informati dalla Cia l’allora presidente americano, Barack Obama, e l’allora vicepresidente, Joe Biden. Eppure non sembra che l’Fbi abbia aperto un’indagine per verificare se tali informazioni relative all’ex first lady fossero fondate o meno. «Ciò», ravvisa il rapporto, «è in netto contrasto con la sostanziale fiducia [del Bureau] nel dossier di Steele, che non era corroborato e che almeno alcuni membri del personale dell’Fbi sembravano sapere che era probabilmente finanziato o promosso dal comitato della Clinton». Il riferimento è al fatto che, in barba a ogni cautela, i federali presero per oro colato il dossier dell’ex spia britannica, Christopher Steele: documento da subito ritenuto controverso e rivelatosi poi dal contenuto infondato, oltre che finanziato dal comitato della stessa Clinton. Un documento che, ricordiamolo, accusava Trump di essere ricattato dal Cremlino e che fu usato dal Bureau per ottenere i mandati di sorveglianza ai danni del comitato elettorale dell’allora candidato repubblicano. «Entro pochi giorni dalla loro ricezione, i rapporti di Steele, che non erano stati né controllati né verificati, sono stati utilizzati per sostenere la probabile causa nelle richieste per il mandato di sorveglianza contro Carter Page, un cittadino statunitense che, per un periodo di tempo, era stato un consigliere di Trump», recita il rapporto. Inoltre, la principale fonte del dossier di Steele era Igor Danchenko: figura che lo stesso Fbi aveva messo sotto indagine tra il 2009 e il 2011 per sospetti legami con i servizi russi. «Sembra che l’Fbi non abbia mai preso in considerazione la possibilità che le informazioni di intelligence che Danchenko stava fornendo a Steele - che, ancora una volta, secondo Danchenko stesso, costituivano la maggioranza significativa delle informazioni nel dossier di Steele - fosse tutta o in parte disinformazione russa», afferma il report di Durham. Per di più, Danchenko «manteneva un rapporto» con Charles Dolan: ex funzionario del comitato nazionale del Partito democratico ed ex consigliere della Clinton, che - secondo Durham - fu tra le fonti del dossier di Steele. Dolan aveva legami con la Russia e, in particolare, con il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. Insomma, si ribalta la prospettiva. Contrariamente a quello che è sempre stato detto, la disinformazione russa potrebbe aver aiutato la Clinton anziché Trump. «Il popolo americano è stato truffato», ha dichiarato l’ex presidente, commentando la pubblicazione del rapporto. Dal canto suo, il presidente della commissione Giustizia della Camera, il repubblicano Jim Jordan, ha chiesto che Durham testimoni davanti al Congresso la prossima settimana. La questione irromperà quindi prevedibilmente nella campagna elettorale per le presidenziali del 2024. E potrebbe avvantaggiare notevolmente Trump.
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