2020-10-20
Il processo ai secessionisti del tanko salta ancora: la farsa dura da sei anni
Prima la maxi inchiesta con appostamenti, intercettazioni, pedinamenti. Poi un dibattimento per terrorismo internazionale che non si celebra per difetti di competenza, errori dei pm o atti inviati alle Procure sbagliate. Correva l'anno 2014, giorno 2 aprile. Matteo Renzi era da poco arrivato a Palazzo Chigi e l'Italia si risvegliava quella mattina con le aperture dei giornali online dedicate a una maxi operazione dei carabinieri del Ros nel Nord Italia. «Arrestati 27 secessionisti: «È arrivato il momento di combattere»». «Secessionisti in manette». «Con un tanko artigianale volevano sfilare in piazza San Marco». E ancora: «Eversione e terrorismo, progettavano di liberare il Veneto». Questa era il tenore dei titoli di quella giornata, con l'ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, che sottolineava la gravità della situazione che nel giro di poco sarebbe peggiorata e avrebbe coinvolto presto tutta l'Italia. Il centrosinistra attaccava a testa bassa il neosegretario della Lega, Matteo Salvini, unico a difendere i 49 indagati. Più di 7 anni fa, era il 2013, infatti, la Procura di Brescia iniziò a indagare su un gruppo di indipendentisti, tra Veneto e Lombardia. Ne venne fuori una maxi inchiesta con appostamenti, intercettazioni, pedinamenti anche in alta montagna e un dispiegamento di forze dell'ordine simile alle operazioni contro la 'ndrangheta in Lombardia. Le indagini durarono quasi un anno. Poi il 2 aprile 2014 ci fu il blitz con arresti e avvisi di garanzia a tutto spiano. Furono indagati in 49, la maggior parte con l'accusa di associazione finalizzata al terrorismo internazionale. Altri invece per traffico d'armi belliche, perché alcuni di loro stavano provando a costruire un carro armato artigianale. Per la Procura di Brescia non c'erano dubbi, il gruppetto aveva in mente «varie iniziative, anche violente», per raggiungere un unico obiettivo: la secessione dall'Italia. Di quell'inchiesta è rimasto davvero poco o nulla. C'è chi è morto senza mai vedere l'aula del processo, Roberto Abeni storico indipendentista della Lega; c'è chi ha scelto il rito abbreviato come Michele Cattaneo e si è beccato una condanna a 2 anni; altri 8 sono stati assolti, in appena 7 sono stati condannati solo per il tanko che nella sentenza è stato definito come un'arma comune e non di tipo bellico come aveva chiesto in origine l'accusa. In totale sono stati chiesti 50 anni di carcere. È stato un buco nell'acqua. Per di più ci sono altri 32 imputati, la maggioranza, che vivono ancora adesso in limbo kafkiano, dove non si riesce a vedere una via d'uscita. Tra loro c'è Gianluca Marchi, ex direttore della Padania, del Giornale d'Italia e dell'Indipendenza, che da 6 anni aspetta almeno di iniziare il processo. Sì, perché nessuno dei 32 è ancora riuscito a vedere un'aula per spiegare le proprie ragioni. Le Procure di Brescia, Rovigo e Venezia, infatti, continuano a rimpallarsi la responsabilità tra loro, motivando sempre la mancanza di competenza territoriale o atti inviati nei posti sbagliati. Non c'è verso di iniziare. «Hanno speso milioni di euro per fare queste indagini. E anche se si tratta di un processo farsa non possono archiviare: non farebbero una bella figura» racconta Marchi a La Verità. «Quando vennero a perquisirmi in casa arrivano la mattina alle 5, in 9 agenti del Ros. Mi trovarono in stampelle, ero appena uscito dall'ospedale. Forse anche per questo mi hanno risparmiato l'arresto». Marchi si è letto tutti gli atti del processo. «Mi hanno intercettato per 7 mesi. Nei tabulati ho trovato anche i giorni in cui ero finito in ospedale. Una volta ci hanno persino seguito in una sperduta baita di montagna dove eravamo andati a mangiare la polenta: stavano al tavolo al fianco al nostro». Oggi, in teoria, si sarebbe dovuta svolgere l'ennesima udienza preliminare a Venezia. È saltato tutto. Un'altra volta. Ma l'odissea degli indipendentisti, «sagre e salamella» dice Marchi, inizia nel 2017, quando il gup di Brescia rinvia tutti a giudizio. Rischiano fino a 15 anni di carcere. Ma appena il processo si apre viene interrotto. La Corte d'assise annulla tutto per incompetenza territoriale. Gli avvocati l'avevano già fatto presente 3 anni prima, ma nei tribunali nessuno aveva voluto ascoltarli. Passa un altro anno. E nell'estate del 2018 tutti si ritrovano di fronte al gup di Rovigo: 15 vengono rinviati a giudizio, ma per gli altri 32, tra cui anche Marchi, c'è la richiesta di non luogo a procedere. È di fatto un'archiviazione. Ma un mese dopo la Procura di Rovigo fa ricorso e tutto viene rinviato alla Corte di cassazione. Dopo qualche mese ancora la Suprema corte redarguisce il pm, perché il ricorso doveva essere presentato alla Corte d'appello di Venezia che ha competenza su Rovigo. Si arriva quindi a Venezia, per la terza udienza preliminare. A marzo 2020 l'emergenza Covid la fa slittare e viene rinviata al 20 ottobre, cioè oggi. «I nostri avvocati» spiega Marchi «sono stati avvisati dalla cancelleria che l'udienza verrà rinviata perché è sbagliata la corte a cui è stato presentato il ricorso contro la sentenza emessa dal Gup di Rovigo nell'estate del 2018. Non la Corte d'assise d'appello bensì la Corte d'appello di Venezia andava investita della questione». Insomma i magistrati hanno sbagliato un'altra volta. E intanto Marchi aspetta giustizia. «Il prossimo anno scatterà la prescrizione per molti, ma non per me che essendo stato direttore di alcuni giornali ho un po' di precedenti per querele e cause di diffamazione».
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)