2020-02-18
Ma il vero
scandalo è l’aborto usato come condom
Matteo Salvini è stato lapidato da Pd e sinistra per aver detto una frase confortata dalle testimonianze di medici non obiettori: l'interruzione di gravidanza utilizzata anche più volte per evitare gli effetti di un «incidente». Che cosa c'è di male nel dire che l'aborto non è un sistema contraccettivo? Ovviamente niente, come non c'è nulla di male o di falso nel sostenere che certe donne immigrate ricorrono all'interruzione volontaria della gravidanza con la stessa facilità con cui si prende un'aspirina contro il raffreddore. Non lo dice Matteo Salvini, che per aver sostenuto questo domenica è stato lapidato dal Pd e dalla sinistra. Lo dicono i numeri e soprattutto i medici abortisti, quelli che hanno visto passare migliaia di ragazze decise a «togliersi il problema"» Nel 2004, dopo aver praticato un numero di aborti stimati fra i 13.000 e i 23.000, cioè 12 alla settimana, la dottoressa Rossana Cirillo, ginecologa genovese e femminista convinta, disse basta. Non ce la faceva più. Non era una pentita della 194, la legge che consente l'interruzione di gravidanza entro 90 giorni: era semplicemente stanca. Tutto era diventato più pesante. Il «diritto» all'aborto, quello per cui negli anni Settanta si era battuta, era diventato una catena di montaggio, una cosa meccanica, soprattutto quando di mezzo c'erano delle giovani immigrate. «Le vedevi scendere giù alla stazione Principe, inebetite, mezzo addormentate dopo le notti in basso Piemonte», spiegò in un'intervista. «Negli ultimi anni nel mio ospedale a Sampierdarena arrivavano prostitute e fiumi di extracomunitarie […] eravamo soli in un ghetto, io e un'infermiera. E pensare che sono diventata prima femminista e poi ginecologa, anzi ho scelto ginecologia perché ero femminista. Ho cominciato nel 1978 e sono andata avanti fino al 2004. Poi basta, non ce la facevo più». A Stefano Lorenzetto che le chiedeva perché così tante immigrate ricorressero all'aborto, la dottoressa rispose: «Non possono permettersi una gravidanza. Devono lavorare per mandare i soldi in patria, dove magari hanno già dei figli. Africane e ragazze dell'Est vengono qui a prostituirsi, per loro restare incinte è un incidente. Mi sono trovata ad affrontare 30-40 extracomunitarie al colpo, tutte di lingua diversa, assistita da una sola infermiera. Era impossibile capirsi». Un'indagine condotta anni fa dimostrò che in Italia il ricorso all'interruzione di gravidanza era in calo, ma a fronte di una forte diminuzione fra donne italiane, ridotto di quasi il 50 per cento nell'arco di un trentennio, si registrava una crescita verticale fra le straniere. Dalla relazione presentata in Parlamento, risultava che fatto cento il numero di aborti, il 33,4 per cento riguardava donne immigrate, con punte di quasi il 40 per cento in regioni dove la presenza di extracomunitari era più elevata, come per esempio il Veneto e la Lombardia. In pratica, numeri e testimonianze di medici non obiettori danno ragione a ciò che dice Salvini. Non è in discussione la 194, cioè il «diritto» di una donna a interrompere la gravidanza. È in discussione l'uso che si fa della 194, diventata per alcune un sistema anticoncezionale, un modo come un altro di liberarsi della gravidanza e continuare a lavorare, tornando in fretta, come spiegava la dottoressa Cirillo, a prostituirsi. Lo Stato si fa carico del ricovero in ospedale, dell'aspirazione del feto, di cannule e curette (cioè del cucchiaio). Il racket della prostituzione ringrazia perché può rimandare la ragazza a battere sul marciapiede. Non c'è solo la dottoressa femminista che ha detto «basta aborti» a spiegare che cosa succede negli ospedali. Sono in tanti i pentiti della 194. Massimo Segato, viceprimario di ginecologia all'ospedale di Valdagno, ci ha scritto addirittura un libro. «Ogni volta che uscivo dalla sala operatoria avevo un senso di nausea. Cominciavo a chiedermi se stessi facendo davvero la cosa giusta». La sua era una macchina che andava a tutto vapore: 400 interruzioni di gravidanza ogni anno. «Continuavo solo per impegno civile, per coerenza. Qualcuno doveva fare il lavoro sporco e io ero uno di quelli». Il lavoro sporco la fabbrica degli aborti, dove le pratiche venivano sbrigate quasi in serie. «La cosa più bella», ha spiegato Giovanna Scassellati, responsabile del servizio di interruzione della gravidanza per il San Camillo di Roma per più di trent'anni, «è non vedere le donne tornare ad abortire». Perché è questo il tema. C'è chi si rivolge all'ospedale per abortire non una volta, ma due, tre, quattro e forse, come dice Salvini, sette volte. Secondo la relazione ministeriale, quasi il 26 per cento delle donne che ricorrono all'interruzione della gravidanza lo ha già fatto altre volte e tra queste il 36 per cento sono straniere. Il 5 per cento ha alle spalle due aborti, l'1,4 tre, lo 0,9 per cento anche di più. Ma davvero a sinistra c'è chi pensa che garantire sette interruzioni di gravidanza o anche solo due o tre sia compito dello Stato? Carol Everett, che tra il 1977 e il 1983 diresse quattro cliniche nel Texas specializzate in interruzioni di gravidanza, ha spiegato che il suo lavoro consisteva nel fare più aborti per fare più soldi. «Avevamo raggiunto l'obiettivo d'indurre ogni ragazza fra i 13 e i 15 anni ad abortire tra le tre e le cinque volte». C'è altro da aggiungere?
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