2019-10-29
Il plebiscito dei cittadini umbri è una bocciatura recapitata al Colle
Gli elettori hanno espresso il loro rifiuto nei confronti del patto Pd-M5s, stroncando anche la regia esercitata dal Quirinale. Che ora può minimizzare o scaricare Giuseppe Conte. Se cade l'Emilia Romagna però il voto si avvicina.Dopo la disfatta giallorossa in Umbria, sarà dura, per i quirinalisti che avevano dedicato paginate intere a lodare la mitica «saggezza del Colle», nei giorni in cui nasceva il Conte bis, rimanere adesso sul medesimo registro. Inutile girarci intorno: il Colle più alto aveva assunto la regia delle operazioni di agosto. Poteva - come ha fatto - accontentarsi dell'aritmetica parlamentare, che, in termini di legittimità formale, autorizzava la nascita di questo governicchio; oppure avrebbe potuto - e, come si sa, non lo ha fatto - attestarsi sulla linea di Costantino Mortati. Mortati (che fu anche autorevolissimo membro dell'Assemblea costituente) sottolineò un preciso dovere politico del Colle: farsi interprete del sentimento degli elettori, evitare soluzioni palesemente in contrasto con la volontà popolare, accertare la «concordanza tra corpo elettorale e parlamentare», evitare «gravi disarmonie». Comunque la si sia «vestita» e raccontata, ad agosto il Quirinale diede semaforo verde all'unione degli sconfitti di tre mesi prima, alle europee del 26 maggio, contro i vincitori certificati dalle urne. E adesso si trova davanti a un esercito in rotta, battuto e mortificato alla prima prova elettorale regionale. Un serio motivo di imbarazzo anche per il presidente della Repubblica. Ovviamente ora leggeremo molti retroscena sulle «inquietudini» del Colle. Ma, letteratura doloristica a parte, vanno esaminati i diversi scenari che possono prendere corpo.Il primo è uno scenario di sostanziale minimizzazione, sulla scia delle parole pronunciate ieri dallo stesso Giuseppe Conte. È la linea di chi vuole durare a tutti i costi. È la linea di chi, nella maggioranza, si sta già dividendo le maxi poltrone pubbliche in palio nella tornata di nomine di primavera. E, più prosaicamente, è la linea di 7 parlamentari su 10: sanno che, in caso di nuove elezioni, non sarebbero ricandidati o non verrebbero rieletti, con tanti saluti allo stipendio e al mutuo. Il secondo scenario è un'evoluzione del primo: far durare la legislatura, ma sostituire il governo. Se Colle e partiti si rendessero conto di un'inguaribile fragilità dell'attuale esecutivo, potrebbero provare a sostituirlo in corsa, più o meno con la stessa maggioranza. Fino a prima dell'Umbria, era lo schema preferito sia da Matteo Renzi che da Luigi Di Maio, l'uno e l'altro stufi dell'egocentrismo e della prosopopea di Conte. A entrambi è stata attribuita la frase perfida: «Uno che faccia il presidente del Consiglio lo troviamo». Certo, però, le dimensioni della disfatta umbra renderebbero il cambio di primo ministro in corsa - senza passare dalle urne - ancora più acrobatico: come giustificare il fatto di negare un'altra volta la parola agli italiani? Il terzo scenario fa del voto di fine gennaio in Emilia Romagna una specie di prova d'appello. O la va o la spacca: se cade anche l'ultima trincea, non c'è più alcuna difesa possibile. Da questo punto di vista, sia al Colle sia nel Pd si fa leva sull'impegno già dichiarato da parte di Renzi a favore dell'ipotetico successo del governatore dem Stefano Bonaccini. Avendo - anche lui, Renzi - disperato bisogno di comprare tempo, davanti all'avanzata salviniana. Se nemmeno l'impegno dell'ex Rottamatore dovesse scongiurare la disfatta, volente o nolente, toccherebbe al Colle considerare l'ipotesi di sciogliere le Camere (con buona pace dei partiti di maggioranza). L'intenzione di tutti era (e resta, come prima opzione) quella di blindare la legislatura, per arrivare all'elezione in questo Parlamento del nuovo capo dello Stato, di fatto facendolo esprimere a questa maggioranza, e contro Salvini. Ma ora in diversi dubitano di potercela fare. E lo stesso Mattarella, sensibile al nervosismo crescente dell'opinione pubblica, potrebbe decidere di non prestarsi a fare da ombrello per una semplice operazione dilatoria. In questo scenario, come La Verità ha già spiegato, va tenuta d'occhio l'iniziativa che è stata assunta, dopo il quarto voto per il taglio del numero di deputati e senatori, per sottoporre quella sforbiciata a un referendum confermativo. Se si attivasse la procedura referendaria, questo determinerebbe l'effetto collaterale di praticare una respirazione bocca a bocca alla legislatura: insomma, un motivo per non scogliere le Camere anche in caso di crisi del Conte bis, almeno fino all'esaurimento del percorso referendario e alla conseguente sistemazione della legge elettorale (realisticamente, giugno 2020). Anche questa variabile temporale va considerata. Resta sullo sfondo una speculazione che molti negano: c'è chi immagina dimissioni anticipate del capo dello Stato per accelerare il percorso di elezione del suo successore, con la candidatura di Mario Draghi che impazza nei palazzi romani. Ma siamo solo a ottobre del 2019: arrivare a inizio 2022 con questo Parlamento sembra davvero un viaggio troppo lungo. Anche per gli scafisti della politica romana, abituati alle traversate più impervie, irregolari e incerte.
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