
E meno male che «non bisogna strumentalizzare i morti». A ribadirlo con veemenza, almeno fino a ieri, era il proprio il Pd, lo stesso che nelle ultime ore ha cercato, in tutti i modi, di piegare a favore della propria campagna elettorale la tragedia di Mirandola, dove un immigrato irregolare ha dato fuoco alla sede della polizia municipale provocando due morti e 18 intossicati. Secondo i democratici, spalleggiati nel «tiro a Salvini» dagli alleati di governo del Movimento 5 stelle, Hamed Amin, il diciottenne marocchino che ha appiccato il fuoco, «essendo irregolare, doveva essere già stato espulso», e poiché se non si fosse trovato in Italia la tragedia non sarebbe accaduta, la colpa risulta essere, alla fine dei conti, guarda caso, del ministro dell'Interno Matteo Salvini. Peccato solo che i fatti, i numeri e persino le leggi (che mai prima il Pd ha contestato) dicano altro. Il giovane, infatti, ha compiuto il gravissimo atto quando ancora era nei termini di un allontanamento volontario e nessuno, a quanto risulta, fino alla mattina successiva al rogo, avrebbe potuto espatriarlo a forza. Ma partiamo dalle accuse. L'anatema contro il ministro lo hanno lanciato, in particolare, Giuditta Pini, deputata trentaquattrenne modenese al secondo mandato e, di norma, più avvezza ad occuparsi di legalizzazione delle droghe leggere che di immigrazione (qualche giorno fa era a Reggio Emilia ad un evento elettorale sulla cannabis light organizzato presso il coffe shop Hierba del Diablo) e Simona Bonafè, ex renziana doc, ora capolista del Pd alle elezioni europee per la circoscrizione Centro Italia. Lancia in resta, le due si sono avventurate in una serie di dichiarazioni tra le quali: «Matteo Salvini è inadatto e sta mentendo», «Questi sono gli effetti del decreto Sicurezza»; «Basta una persona, un delinquente, probabilmente con problemi psichiatrici per dimostrare che il re è nudo»; «Salvini è ministro da un anno e omette che il responsabile doveva essere rimpatriato». E via dicendo. Come sia andata, invece, esattamente, la questione lo ha spiegato ieri, con una nota ufficiale, la Legione dei carabinieri dell'Emilia Romagna, che ha ricostruito gli ultimi passaggi di vita del marocchino. «Dopo gli accertamenti medico legali avviati per stabilire l'identità del giovane nordafricano che è stato arrestato dai carabinieri di Carpi con l'accusa di aver incendiato gli uffici della municipale di Mirandola, l'uomo è stato identificato in un magrebino di appena 18 anni», scrivono i militari. «La procedura per il suo allontanamento dal territorio nazionale ha preso le mosse il 14 maggio scorso», quando, «dopo un controllo eseguito presso la stazione Termini di Roma, il ragazzo ha dichiarato di essere un algerino ventenne». A quel punto «l'ufficio Immigrazione della capitale, in ossequio alle disposizioni vigenti, gli ha notificato una intimazione a lasciare il territorio nazionale». Nel frattempo, «essendo trascorsi inutilmente i sette giorni durante i quali avrebbe dovuto lasciare l'Italia, il 20 maggio 2019 è stato emesso l'ordine di espulsione», ed esattamente in quella data il giovane «è stato notato lungo una strada di Camposanto (Modena)», non dalle forze dell'ordine ma «da un marocchino regolarmente soggiornante in Italia che lo ha accompagnato alla Croce blu e da lì in stato di ipotermia, presso il pronto soccorso di Mirandola». All'ospedale «si è dichiarato minorenne e si è subito allontanato». Il resto è cronaca. La traduzione? Il clandestino doveva andarsene via di propria spontanea volontà entro il 20 maggio, mentre dal 21 poteva essere espulso con accompagnamento coatto.
Si tratta di un meccanismo di legge, non di un caso specifico. A chiarirlo è l'avvocato Vittorio Platì, del Foro di Catanzaro, già attivo in processi per terrorismo e tratta internazionale di esseri umani legati alla jihad. «Come capita in queste situazioni il soggetto aveva ricevuto una intimazione all'allontanamento del questore e aveva sette giorni di tempo per lasciare il Paese volontariamente», spiega. «L'ordine di espulsione che comprende una espulsione coatta dal territorio, cioè l'accompagnamento all'interno di un Centro di espulsione, sarebbe potuto avvenire dal 21 mattina in avanti, cioè trascorsi i termini di legge». L'ordine di espulsione potrebbe essere stato emesso «dopo la verifica, con le autorità di frontiera, che non risultava l'uscita del soggetto dai confini nazionali» e «solo dopo la sua emissione poteva essere reso efficace, previa notifica all'interessato». Amin invece, probabilmente non a caso, proprio quella notte si è allontanato da Roma, evidentemente intenzionato a combinare qualcosa.






