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2019-10-29
Il Pd è allo sbando. Zingaretti si rimangia l’inciucio di agosto: «Io ve l’avevo detto»
Ansa
Nicola Zingaretti, il giorno dopo il crollo dell'alleanza giallorossa in Umbria, ha l'ingrato compito di cercare di tenere unito ciò che unito non è, ovvero quel che resta del Pd, di cui è segretario. Mai così sinistrati, i big o presunti tali del partito tornano a dividersi: c'è chi - come Dario Franceschini e Francesco Boccia - non mette in discussione l'alleanza con il fu M5s; altri, come Andrea Marcucci, capogruppo al Senato, sono invece dell'idea che bisogna metterci una pietra sopra. Lui, Zingaretti, alterna acrobaticamente riflessioni ottimiste a considerazioni critiche, attaccando prima Matteo Renzi e poi Luigi Di Maio.
Ieri mattina, Zingaretti su Facebook ha pubblicato un post che dice tutto e niente, scaricando la colpa della sconfitta sull'avversario numero uno: Renzi. «In Umbria», scrive il segretario del Partito democratico, «abbiamo subìto una sconfitta ed esce confermata la forza dell'alleanza della destra italiana radicata nel sentimento popolare. Il Partito democratico si attesta al 22.3%, dopo una scissione e, considerando la presenza alle europee di altre forze politiche, ritengo questo come un risultato di tenuta. Lo affermo», aggiunge Zingaretti, «non per scaricare responsabilità su qualcuno, ma per comprendere cosa è avvenuto. Da qui si riparte. Questo dato conferma il Pd come l'unico credibile pilastro di un'alternativa alle destre». E ancora: «Anche il rapporto con il M5s», precisa Zingaretti, che ha sentito al telefono Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, «con il quale governiamo, va inserito in questo schema di confronto, non per esaltare le differenze ma per trovare sintesi vere e verificando, territorio per territorio, la possibilità di convergenze, senza imporre nulla». Convergenze parallele con il M5s? Zingaretti ricorda che, fosse stato per lui, il governo giallorosso non sarebbe mai nato, ammettendo quindi implicitamente che, visto che è nato, sarà pure il segretario del Pd ma la sua opinione conta poco: «Ad agosto», ricorda Zingaretti, «avevo sollevato perplessità sulla percorribilità di un'alleanza di governo con il M5s. Abbiamo poi costruito una linea unitaria, difficile, di cui ovviamente mi assumo oggi tutte le responsabilità. Ma è ovvio che occorre voltare pagina. Mi auguro una nuova solidarietà nella coalizione e nella compagine del governo Conte che non può essere un campo di battaglia quotidiana. Una maggioranza non può esistere per paura di Salvini, per evitare il voto dei cittadini o aspettare le nomine degli enti per occupare poltrone», sottolinea, con la prima stoccata a Renzi. «Dobbiamo costruire speranze», monita il segretario del Pd, «non alimentare polemiche. Non si può governare tra avversari e nemici. Nessun membro dell'alleanza può augurarsi o lavorare per la distruzione dell'altro. L'alleanza», sottolinea Zingaretti, «ha senso solo ed esclusivamente se vive in questo comune sentire delle forze politiche che ne fanno parte, altrimenti la sua esistenza è inutile e sarà meglio trarne le conseguenze».
In serata, da Frosinone, Zingaretti fa la voce grossa con Luigi Di Maio, come riporta Ciociaria Oggi :«Se Di Maio», attacca il segretario dei democratici, «vuole andare avanti da solo con l'8%, con le destre che raggiungono il 48%, può farlo senz'altro. Nel caso cosa dirgli, auguri!».
Un colpo di qua, uno di là: Zingaretti deve fare i conti con un partito lacerato. Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, alimenta il sospetto di essere rimasto nel partito solo per rompere le scatole dall'interno, facendo il gioco del suo grande amico Matteo Renzi: «È una sconfitta evidente», sottolinea Marcucci, «che non avrà conseguenze sul governo, ma impone una riflessione ben più approfondita sulle alleanze. Il matrimonio tra Pd e M5s in Umbria mette in evidenza tutti i limiti di alleanze costruite all'ultimo minuto e senza contenuti. Mi auguro che in vista delle prossime regionali», aggiunge Marcucci, «il Pd discuta meglio con i territori se sia o meno il caso di presentarsi in coalizione. Meglio misurare il rapporto col M5s al governo e solo dopo decidere cosa fare».
Per Marcucci, quindi, mai più alleanze col M5s. Di parere totalmente opposto Dario Franceschini, ministro dei beni culturali e sponsor numero uno del patto giallorosso: «Non mi sembra particolarmente acuta», scrive Franceschini su Twitter, «l'idea che poiché anche presentandoci insieme abbiamo perso l'Umbria, è meglio andare divisi alle prossime regionali. L'onda di destra si ferma con il buon governo e con l'allargamento e l'apertura delle alleanze, non di certo ridividendoci». «Esorto tutti, Di Maio compreso», sottolinea il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, «ad avere coraggio e andare avanti perché il Paese ha bisogno di un fronte alternativo. Io sono convinto di questo, dobbiamo andare avanti». Fino a quando? Come anticipato dalla Verità, il progetto di Zingaretti è far cadere il governo subito dopo la manovra, al più tardi dopo le elezioni regionali di gennaio in Emilia Romagna. Il superflop dell'Umbria ha rafforzato questa prospettiva.
Renzi non ha aiutato i suoi alleati e ora li sfotte perché hanno perso
Forse è una coincidenza, forse no. Resta il fatto che, stavolta, la formula di saluto «Un sorriso, Matteo», con cui Renzi ha chiuso la sua newsletter dedicata al naufragio dei giallorossi in Umbria, sembra quasi una beffa. Lo immaginiamo infatti il «sorriso» dell'ex premier alla notizia dello schianto del Pd e del M5s alle regionali di domenica. Lui che è stato attentissimo a tenersi fuori dall'ammucchiata celebrata con la foto di Narni. Una immagine che, spiega l'ex Rottamatore, «non ha aiutato a vincere». Semmai il contrario. Anche perché, secondo Renzi, l'affermazione del centrodestra in Umbria era un risultato «previsto». Dunque, Matteo ha deliberatamente lasciato che i suoi alleati di governo andassero a finire contro un muro senza provare minimamente imbarazzo. Salendo per di più in cattedra a ricordarglielo, il giorno dopo lo scontro. «Credo sia stato un errore politico drammatizzare il voto di questa pur bellissima regione», ha scritto mentre svolazzava per il mondo a far conferenze - prima New York poi gli Emirati Arabi - sul sito www.matteorenzi.it , «errore compiuto sia rivendicando l'alleanza strategica fra Pd e M5s, sia impegnando il capo del governo nella chiusura della campagna elettorale». Il flop umbro gli ha offerto l'occasione per ribadire il concetto fondante del suo nuovo partitino bonsai, Italia viva: opzionare il Colle con un nome di suo gradimento. «Nei prossimi mesi ci presenteremo alle regionali, a cominciare dalla Toscana, ma il nostro orizzonte continua a essere quello di andare in doppia cifra alle politiche. Che per noi si terranno nel 2023 e comunque dopo l'elezione del nuovo presidente della Repubblica». Concetto espresso anche nel corso dell'ultima Leopolda. Ovviamente, l'opportunità di prendere le distanze dalla inedita maggioranza di governo, alla prova delle urne, è stata ghiotta per un po' di sano vittimismo. «Leggo sui giornali che qualcuno attribuisce la colpa a me persino della sconfitta in Umbria», si è lamentato. Sottolineando: «Mi spiace che si possa arrivare a tanto. Questo odio nei miei confronti ha qualcosa di inspiegabile». Per rendere il discorso ancor più coinvolgente, Renzi ha allegato per i suoi lettori un link a un video di Paolo Mieli in cui l'ex direttore del Corriere della Sera ragiona «sul fuoco amico contro di me». Come per dire: ho anche i testimoni di quel che affermo. Infine, il momento della mozione dei ricordi che, nel caso di Renzi, hanno il colore rosa della nostalgia. «La verità è che quando ho lasciato la guida del Pd governavamo 17 regioni su 20. Adesso il Pd governa in 7 regioni su 20». Dunque, «l'idea di dire che è sempre tutta colpa mia non mi sembra geniale. Ma se serve a qualcuno per mettersi il cuore in pace, non replico, evito le polemiche e invito tutti a lavorare». Possibilmente senza dare fastidio al manovratore (lui).
«Penso che il governo debba preoccuparsi solo di governare, e di cercare di farlo bene. Noi stiamo dando una mano e continueremo a farlo: nei prossimi mesi continueremo con le nostre proposte su fisco e infrastrutture». Adesso scalare l'esecutivo si dice «dare una mano».
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Il segretario ha stretto il patto con M5s però, ora che è arrivata la mazzata, ricorda a tutti che lui era contrario. Ma non dà idee.Il Bullo vola negli Usa a fare conferenze e gongola: «Chi dà sempre colpe a me sbaglia».Lo speciale contiene due articoli. Nicola Zingaretti, il giorno dopo il crollo dell'alleanza giallorossa in Umbria, ha l'ingrato compito di cercare di tenere unito ciò che unito non è, ovvero quel che resta del Pd, di cui è segretario. Mai così sinistrati, i big o presunti tali del partito tornano a dividersi: c'è chi - come Dario Franceschini e Francesco Boccia - non mette in discussione l'alleanza con il fu M5s; altri, come Andrea Marcucci, capogruppo al Senato, sono invece dell'idea che bisogna metterci una pietra sopra. Lui, Zingaretti, alterna acrobaticamente riflessioni ottimiste a considerazioni critiche, attaccando prima Matteo Renzi e poi Luigi Di Maio. Ieri mattina, Zingaretti su Facebook ha pubblicato un post che dice tutto e niente, scaricando la colpa della sconfitta sull'avversario numero uno: Renzi. «In Umbria», scrive il segretario del Partito democratico, «abbiamo subìto una sconfitta ed esce confermata la forza dell'alleanza della destra italiana radicata nel sentimento popolare. Il Partito democratico si attesta al 22.3%, dopo una scissione e, considerando la presenza alle europee di altre forze politiche, ritengo questo come un risultato di tenuta. Lo affermo», aggiunge Zingaretti, «non per scaricare responsabilità su qualcuno, ma per comprendere cosa è avvenuto. Da qui si riparte. Questo dato conferma il Pd come l'unico credibile pilastro di un'alternativa alle destre». E ancora: «Anche il rapporto con il M5s», precisa Zingaretti, che ha sentito al telefono Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, «con il quale governiamo, va inserito in questo schema di confronto, non per esaltare le differenze ma per trovare sintesi vere e verificando, territorio per territorio, la possibilità di convergenze, senza imporre nulla». Convergenze parallele con il M5s? Zingaretti ricorda che, fosse stato per lui, il governo giallorosso non sarebbe mai nato, ammettendo quindi implicitamente che, visto che è nato, sarà pure il segretario del Pd ma la sua opinione conta poco: «Ad agosto», ricorda Zingaretti, «avevo sollevato perplessità sulla percorribilità di un'alleanza di governo con il M5s. Abbiamo poi costruito una linea unitaria, difficile, di cui ovviamente mi assumo oggi tutte le responsabilità. Ma è ovvio che occorre voltare pagina. Mi auguro una nuova solidarietà nella coalizione e nella compagine del governo Conte che non può essere un campo di battaglia quotidiana. Una maggioranza non può esistere per paura di Salvini, per evitare il voto dei cittadini o aspettare le nomine degli enti per occupare poltrone», sottolinea, con la prima stoccata a Renzi. «Dobbiamo costruire speranze», monita il segretario del Pd, «non alimentare polemiche. Non si può governare tra avversari e nemici. Nessun membro dell'alleanza può augurarsi o lavorare per la distruzione dell'altro. L'alleanza», sottolinea Zingaretti, «ha senso solo ed esclusivamente se vive in questo comune sentire delle forze politiche che ne fanno parte, altrimenti la sua esistenza è inutile e sarà meglio trarne le conseguenze».In serata, da Frosinone, Zingaretti fa la voce grossa con Luigi Di Maio, come riporta Ciociaria Oggi :«Se Di Maio», attacca il segretario dei democratici, «vuole andare avanti da solo con l'8%, con le destre che raggiungono il 48%, può farlo senz'altro. Nel caso cosa dirgli, auguri!».Un colpo di qua, uno di là: Zingaretti deve fare i conti con un partito lacerato. Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, alimenta il sospetto di essere rimasto nel partito solo per rompere le scatole dall'interno, facendo il gioco del suo grande amico Matteo Renzi: «È una sconfitta evidente», sottolinea Marcucci, «che non avrà conseguenze sul governo, ma impone una riflessione ben più approfondita sulle alleanze. Il matrimonio tra Pd e M5s in Umbria mette in evidenza tutti i limiti di alleanze costruite all'ultimo minuto e senza contenuti. Mi auguro che in vista delle prossime regionali», aggiunge Marcucci, «il Pd discuta meglio con i territori se sia o meno il caso di presentarsi in coalizione. Meglio misurare il rapporto col M5s al governo e solo dopo decidere cosa fare».Per Marcucci, quindi, mai più alleanze col M5s. Di parere totalmente opposto Dario Franceschini, ministro dei beni culturali e sponsor numero uno del patto giallorosso: «Non mi sembra particolarmente acuta», scrive Franceschini su Twitter, «l'idea che poiché anche presentandoci insieme abbiamo perso l'Umbria, è meglio andare divisi alle prossime regionali. L'onda di destra si ferma con il buon governo e con l'allargamento e l'apertura delle alleanze, non di certo ridividendoci». «Esorto tutti, Di Maio compreso», sottolinea il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, «ad avere coraggio e andare avanti perché il Paese ha bisogno di un fronte alternativo. Io sono convinto di questo, dobbiamo andare avanti». Fino a quando? Come anticipato dalla Verità, il progetto di Zingaretti è far cadere il governo subito dopo la manovra, al più tardi dopo le elezioni regionali di gennaio in Emilia Romagna. Il superflop dell'Umbria ha rafforzato questa prospettiva. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-pd-e-allo-sbando-zingaretti-si-rimangia-linciucio-di-agosto-io-ve-lavevo-detto-2641140827.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="renzi-non-ha-aiutato-i-suoi-alleati-e-ora-li-sfotte-perche-hanno-perso" data-post-id="2641140827" data-published-at="1765401395" data-use-pagination="False"> Renzi non ha aiutato i suoi alleati e ora li sfotte perché hanno perso Forse è una coincidenza, forse no. Resta il fatto che, stavolta, la formula di saluto «Un sorriso, Matteo», con cui Renzi ha chiuso la sua newsletter dedicata al naufragio dei giallorossi in Umbria, sembra quasi una beffa. Lo immaginiamo infatti il «sorriso» dell'ex premier alla notizia dello schianto del Pd e del M5s alle regionali di domenica. Lui che è stato attentissimo a tenersi fuori dall'ammucchiata celebrata con la foto di Narni. Una immagine che, spiega l'ex Rottamatore, «non ha aiutato a vincere». Semmai il contrario. Anche perché, secondo Renzi, l'affermazione del centrodestra in Umbria era un risultato «previsto». Dunque, Matteo ha deliberatamente lasciato che i suoi alleati di governo andassero a finire contro un muro senza provare minimamente imbarazzo. Salendo per di più in cattedra a ricordarglielo, il giorno dopo lo scontro. «Credo sia stato un errore politico drammatizzare il voto di questa pur bellissima regione», ha scritto mentre svolazzava per il mondo a far conferenze - prima New York poi gli Emirati Arabi - sul sito www.matteorenzi.it , «errore compiuto sia rivendicando l'alleanza strategica fra Pd e M5s, sia impegnando il capo del governo nella chiusura della campagna elettorale». Il flop umbro gli ha offerto l'occasione per ribadire il concetto fondante del suo nuovo partitino bonsai, Italia viva: opzionare il Colle con un nome di suo gradimento. «Nei prossimi mesi ci presenteremo alle regionali, a cominciare dalla Toscana, ma il nostro orizzonte continua a essere quello di andare in doppia cifra alle politiche. Che per noi si terranno nel 2023 e comunque dopo l'elezione del nuovo presidente della Repubblica». Concetto espresso anche nel corso dell'ultima Leopolda. Ovviamente, l'opportunità di prendere le distanze dalla inedita maggioranza di governo, alla prova delle urne, è stata ghiotta per un po' di sano vittimismo. «Leggo sui giornali che qualcuno attribuisce la colpa a me persino della sconfitta in Umbria», si è lamentato. Sottolineando: «Mi spiace che si possa arrivare a tanto. Questo odio nei miei confronti ha qualcosa di inspiegabile». Per rendere il discorso ancor più coinvolgente, Renzi ha allegato per i suoi lettori un link a un video di Paolo Mieli in cui l'ex direttore del Corriere della Sera ragiona «sul fuoco amico contro di me». Come per dire: ho anche i testimoni di quel che affermo. Infine, il momento della mozione dei ricordi che, nel caso di Renzi, hanno il colore rosa della nostalgia. «La verità è che quando ho lasciato la guida del Pd governavamo 17 regioni su 20. Adesso il Pd governa in 7 regioni su 20». Dunque, «l'idea di dire che è sempre tutta colpa mia non mi sembra geniale. Ma se serve a qualcuno per mettersi il cuore in pace, non replico, evito le polemiche e invito tutti a lavorare». Possibilmente senza dare fastidio al manovratore (lui). «Penso che il governo debba preoccuparsi solo di governare, e di cercare di farlo bene. Noi stiamo dando una mano e continueremo a farlo: nei prossimi mesi continueremo con le nostre proposte su fisco e infrastrutture». Adesso scalare l'esecutivo si dice «dare una mano».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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