2019-10-25
Il nigeriano della Sim di babbo Renzi: «Facevo anche lavoretti in casa sua»
Festus Edu fu portato da un collaboratore di Tiziano in un negozio di telefonia per farsi rilasciare una scheda a suo nome che però non ha «mai usato». Da quel numero il papà del Bullo mandava sms al suo coindagato. «Ho accettato di registrare a mio nome la scheda telefonica poi utilizzata da Tiziano Renzi per riconoscenza». È questo, in soldoni, quanto ha detto circa dieci giorni fa ai magistrati Festus Edu, il trentacinquenne nigeriano titolare della sim che il padre dell'ex premier Matteo utilizzava per comunicare riservatamente con il sodale Mariano Massone, oggi suo coindagato in un'inchiesta per bancarotta. Ma il fascicolo in cui si parla della scheda è stato aperto per un'altra ipotesi di reato: traffico di influenze illecite e vede indagato a Firenze anche l'imprenditore Luigi Dagostino (condannato con Renzi senior lo scorso 7 ottobre per false fatture). La nuova indagine, avviata a marzo, ha avuto un'impennata grazie a quattro informative della Guardia di finanza. Particolarmente importante è l'annotazione del luglio scorso che ha esaminato i messaggini trovati sui due cellulari sequestrati a febbraio a Massone. Tra gli Sms anche quelli partiti dalla Sim intestata al nigeriano Edu, ma in realtà scritti da babbo Renzi. Avrebbero come argomento temi pertinenti al traffico di influenze, cioè richieste di aiuti o raccomandazioni presso pubblici ufficiali.Festus, originario di Koko, città lungo il fiume Benin, più di 10 anni fa è arrivato in Italia su un barcone. Quindi, dopo svariate peripezie, è giunto a Montevarchi - provincia di Arezzo - dove vive tuttora al primo piano di un'angusta palazzina su tre livelli nel centro storico. È un ragazzone alto 1 metro e 90 e quando lo incontriamo è piuttosto elegante, con un bel giaccone color tabacco. Quando ci presentiamo rimane impietrito. È chiaro che non deve aver mai parlato con un giornalista in vita sua. Si infila in casa. Pensiamo che non uscirà più. E invece ritorna con una più comoda felpa blu. Prova a rispondere alle domande in un italiano un po' stentato. È agitato ma molto educato. Cerca di dissimulare l'ansia con qualche sorriso stiracchiato. Ha in mano un telefonino vecchio modello e una scheda della compagnia Lycamobile, la più usata dagli stranieri: «Io ho utilizzato sempre questa e una volta la Wind. Mai la Tim». Cioè l'azienda a cui appartiene il 339… (non più attivo) con cui mandava messaggi Tiziano Renzi. Un giorno uno dei più stretti collaboratori, Carlo Ravasio, storico dipendente delle aziende di famiglia (è indagato per il crac Marmodiv), portò Festus in un negozio di telefonia a Pontassieve («saprei ritrovarlo» ci assicura), dove viveva Matteo Renzi, allora presidente del Consiglio, per acquistare a suo nome (anche se pagò Ravasio) la tessera incriminata. Su richiesta dell'italiano, la Sim venne registrata con il documento di Edu, anche se Ravasio se la fece subito consegnare. «Io non l'ho mai usata. Non credo di aver commesso un crimine. Se un amico ti chiede un favore glielo fai. Per me Carlo poteva anche aver dimenticato i documenti». Festus non avrebbe mai osato dire di no a una richiesta dei suoi «salvatori». Infatti nei mesi precedenti, mentre chiedeva l'elemosina davanti alla chiesa di Rignano sull'Arno, aveva conosciuto babbo Tiziano. II quale promise quasi subito di trovare un lavoro a quel ragazzone che lo fermava per un obolo. E in effetti, come vedremo, lo fece ingaggiare dalla cooperativa Marmodiv (di cui secondo la Procura Tiziano era amministratore di fatto), dall'aprile 2014 al gennaio 2015 e dall'inizio del 2016 sino a marzo 2019. In quella data il Tribunale di Firenze ne ha dichiarato il fallimento. Apriamo una piccola parentesi: la Marmodiv, secondo i magistrati, sarebbe stata gestita a partire dalla sua apertura (avvenuta nel 2013) dai genitori del leader di Italia viva in veste di amministratori di fatto. La ditta, secondo l'accusa, sarebbe stata utilizzata nel biennio 2017-18 anche come cartiera per l'emissione di una decina di fatture che avrebbero consentito alla Eventi 6 di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto con costi fittizi. Il valore nominale dei documenti era di 188.608 euro, più 41.493 di Iva. Per questo papà Tiziano e mamma Laura sono oggi indagati per bancarotta fraudolenta documentale e utilizzo di false fatture. Un ex collega di Festus alla Marmodiv, Paolo M., ricorda il rapporto del nigeriano con i parenti del Rottamatore: «In cooperativa sapevamo che era un po' un protetto di Tiziano e della moglie Laura, lo tenevano come un gioiellino a parte. Tanto è vero che lui non guadagnava solo con il volantinaggio. Sapevamo che faceva anche lavori extra». Una condizione di privilegio di cui Edu si vantava: «Poco prima che ci fosse il fallimento, mi diceva che se la coop fosse saltata lo “zio Tiziano" gli avrebbe trovato da fare qualcos'altro», conclude Paolo M..Continua Edu: «Non lo chiamavo “zio Tiziano", ma “il mio babbo". È vero, mi faceva fare anche lavori a casa sua, per esempio opere di giardinaggio». Una specie di factotum per sbrigare le attività più faticose. «Durante le feste che organizzava, quelle del paese, facevo il guardiano di notte, affinché non portassero via le cose». Avevi un contratto per questi lavoretti? «No, mi pagava sul momento». Lo scorso 27 aprile, dopo che Tiziano è stato arrestato e la Marmodiv è fallita, Festus ha iniziato a percepire l'indennità di disoccupazione: 700 euro circa per sei mesi. Ma adesso è finita. Un paio di mesi fa ha pure provato a richiamare il «suo babbo» con la scusa di un saluto: «Mi ha chiesto come stavo e se vivevo sempre a Montevarchi. Ma non abbiamo parlato di un nuovo impiego». Ci guarda: «Se può, lo faccia sapere che voglio lavorare: in fabbrica, lavori di fatica, non l'impiegato». Annuncio messo.Gli offriamo un caffè in un bar di piazza Vittorio Veneto, a due passi dal suo mini appartamento. Festus resta in piedi a fianco del tavolino, imbarazzato. Una ragazza gli chiede se sia stato assunto dal Comune: «Purtroppo non ho la patente, la devo prendere» risponde intimidito. Tutt'altro carattere rispetto all'altro nigeriano rovinato sulla via di Rignano, Evans Omoigui, che non è ancora riuscito a ottenere i 90.000 euro che, secondo il Tribunale civile di Genova, la Arturo Srl di Tiziano avrebbe dovuto pagargli. Disavventura che Omoigui ha raccontato in una serie di canzoni da lui interpretate che gli costarono, durante un servizio delle Iene, l'appellativo di «faccia di merda» urlato da babbo Tiziano.La convocazione dei giorni scorsi da parte dei magistrati ha gettato Festus nello sconforto: «Io la notte non dormo più. Ma non ho commesso nessun crimine». I pm lo hanno sentito in veste di testimone, senza avvocato. Edu vuole far sapere anche a chi scrive che lui è uno a posto. Apre il portafogli e mostra la carta di identità italiana, il permesso di soggiorno in regola. «Mi danneggerà questa cosa?» chiede. Poi svuota in fretta la sua tazzina, prende una sigaretta, e dopo essersi messo le mani in testa per l'ennesima volta, cercando di sdrammatizzare la situazione con un sorriso a mezza bocca, ci dice: «Abbiamo parlato abbastanza no? Io vado. Ha un accendino?». Quindi sparisce.I pm Luca Turco e Christine von Borries hanno ordinato la perquisizione della villa, dell'auto e dell'ufficio di Renzi senior alla ricerca della scheda intestata a Festus, che però non è stata trovata. In compenso i militari hanno requisito sei cellulari, tre Sim (una bosniaca), 12 pen drive, tre cd (uno con materiale su Medjugorje) e un computer portatile e uno fisso (sequestrato nella stanzetta di Tiziano presso la Eventi 6, che in finanzieri hanno cercato a colpo sicuro). La tessera straniera non era mai stata usata ed era stata acquistata nell'ultimo pellegrinaggio mariano che i genitori, la figlia Matilde e il cognato Andrea Conticini hanno fatto a settembre. La scheda, ha giurato il babbo, era una di quelle acquistate da uno dei suoi compagni di viaggio per risparmiare sulle telefonate in Bosnia, ma non sarebbe stata usata durante la trasferta a Medjugorje perché il genitore non sarebbe riuscito a inserirla nel suo iPhone. Gli investigatori sospettano che, invece, sia rimasta vergine per un altro motivo: doveva servire in Italia per le telefonate riservate. Quando è stata sequestrata pare che non fosse inserita dentro ad alcun cellulare.Lunedì scorso le apparecchiature elettroniche, dopo la realizzazione della cosiddetta copia forense, sono state restituite al legittimo proprietario. Nel frattempo la difesa ha rinunciato al Riesame e per questo il materiale sequestrato potrà essere utilizzato a fini investigativi. Torniamo a Festus e ai motivi della sua «riconoscenza». Nelle carte del processo per false fatture in cui sono stati condannati i coniugi Renzi sono state depositate due mail del 2016 da cui risulta chiaro che Tiziano spinse per far assumere il cittadino nigeriano come volantinatore nella cooperativa Marmodiv. Nei due messaggi di posta elettronica l'interlocutore di Tiziano Renzi è Mirko Provenzano. Costui nel luglio 2018 ha patteggiato una pena per la bancarotta della cuneese Direkta Srl, crac per cui è a processo anche Laura Bovoli, mamma di Matteo Renzi. In quel momento, dopo i pasticci combinati in Piemonte, si è ritirato in Toscana dove ha trovato l'ala protettrice di Tiziano, il quale lo ha fatto ingaggiare come «direttivo» quadro proprio alla Marmodiv. Il 13 gennaio 2016 Renzi senior scrive: «Occorre (…) intanto assumere Festu (…)». Provenzano si mette sull'attenti: «Per Festus il contratto parte da domani quindi lo si può aggregare subito (mi accordo con Carlo per portarlo giù ) (…)». Carlo è il già citato Ravasio. All'epoca era membro del cda della Marmodiv ed è lui la persona che ha portato Festus nel negozio di Pontassieve. Quel giorno al giovane africano sembrava di fare un favore da poco rispetto a quelli che aveva ricevuto. Ma per colpa di quel gesto, oggi non solo è disoccupato, ma dice, pure, di aver perso il sonno.
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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