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2021-02-14
Il Movimento di corsa verso l’esplosione
Giuseppe Conte (Ansa)
Il M5s si sveglia in preda a una crisi di nervi. Il governo Draghi è la Caporetto grillina, con i pentastellati che vedono la loro presenza ridotta al limite dell'irrilevanza, mentre la fiducia incombee i dissidenti affilano le armi. Il superministero della Transizione ecologica, che avrebbe dovuto rappresentare la vittoria di Beppe Grillo, di super non ha niente. Altro che accorpamento tra Sviluppo economico e Ambiente: il Mise viene affidato al leghista Giancarlo Giorgetti. Inoltre, il ministro della Transizione ecologica, Stefano Cingolani, è certamente in buoni rapporti con il M5s, ma è pure considerato vicino a Matteo Renzi, avendo partecipato a diverse edizioni della Leopolda. C'è già stata la prima defezione: ieri il deputato Giuseppe D'Ambrosio ha dato l'addio al Movimento.
Grillo, su Facebook, fa l'ermetico: «È di una transizione cerebrale che abbiamo bisogno», scrive l'Elevato, «13 febbraio 2021. Ti ricorderai questa data. Perché da oggi si deve scegliere. O di qua, o di là. Scegliere le idee del secolo che è finito nel 1999 oppure quelle del secolo che finirà nel 2099».
Giuseppe Conte, da parte sua, affida a Facebook il prevedibile post lagna, dicendo che torna a «vestire i panni di semplice cittadino». «Insieme a tanti preziosi compagni di viaggio», scrive, «abbiamo contribuito a delineare un percorso a misura d'uomo, volto a rafforzare l'equità, la solidarietà, la piena sostenibilità ambientale». Poi, la minaccia: «Il mio impegno e la mia determinazione saranno votati a proseguire questo percorso. La chiusura di un capitolo non ci impedisce di riempire fino in fondo le pagine della storia che vogliamo scrivere».
I dissidenti hanno buon gioco a sparare sulla croce giallorossa: «Questa mattina (ieri, ndr)», scrive su Facebook la senatrice Barbara Lezzi, «ho inviato, insieme ad alcuni colleghi, una mail al capo politico, al comitato di garanzia e al garante del M5s per segnalare che la previsione del quesito posta nella consultazione dell'11 febbraio 2021 non ha trovato riscontro nella formazione del nuovo governo. Non c'è», aggiunge la pasionaria, «il superministero che avrebbe dovuto prevedere la fusione tra il ministero dello Sviluppo economico e il ministero dell'Ambiente oggetto del quesito. Chiediamo che venga immediatamente indetta una nuova consultazione con un quesito in cui sia chiara l'effettiva portata del ministero e che riporti la composizione del governo. È evidente che, in assenza di riscontro, al fine di rispettare la maggioranza degli iscritti che hanno espresso altra indicazione il voto alla fiducia deve essere no». Sulla stella linea Nicola Morra: «Il quesito su Rousseau si è scoperto non essere corrispondente al vero». Ieri sette senatori (oltre alla Lezzi, Lannutti, Dessì, Crucioli, Abate, Giannuzzi e La Mura) hanno detto che voteranno no alla fiducia. E nella notte era prevista la riunione dei deputati.
Veniamo ai malumori interni non esplicitati pubblicamente: i parlamentari del M5s sono letteralmente imbufaliti. Innanzitutto i meridionali, che sono la stragrande maggioranza, visto che al Sud il M5s, nel 2018, prese la gran parte dei suoi voti, e che si ritrovano il solo Luigi Di Maio a rappresentare il Meridione al governo, ma in un ministero non di spesa. Di Maio è riuscito a conservare il suo ruolo di ministro degli Esteri per opera e virtù dello Spirito santo, ovvero del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha curato la composizione della squadra dei «politici». «Mentre gli altri segretari di partito», sbuffa un deputato pentastellato meridionale di primissimo piano, «interloquivano con il Quirinale, Vito Crimi perdeva tempo a organizzare cenette con Stefano Patuanelli. Risultato: siamo stati massacrati. Patuanelli ha pensato solo a salvare sé stesso, accettando anche di essere degradato dal Mise all'Agricoltura: sarebbe stato il caso di lasciare il posto a un rappresentante del meridione. Voglio vedere ora come farà, Patuanelli, che si vantava di essere l'uomo del dialogo coi dissidenti al Senato. Per non parlare di Roberto Fico…». Parliamone! «Fico», aggiunge la nostra fonte, «pur di salvare il suo D'Incà ha buttato a mare tutti, se ne è fregato del M5s, del Sud, di qualunque cosa. Altro che sindaco di Napoli! Ha fatto asse con Patuanelli, si è comportato da capocorrente, una enorme delusione. Per come sono andate le cose, non mi stupirebbe se Fico avesse giocato la partita anche contro Conte».
Il clima, nel M5s, è cupo: non c'è un solo parlamentare, tra tutti quelli contattati, che si dica soddisfatto per come sono andate le cose. Ora scatta la caccia ai posti di sottogoverno: «Mi auguro», sospira un deputato, «che i ministri che non sono stati riconfermati adesso abbiano la decenza di non tentare di riciclarsi come viceministri e sottosegretari: Fraccaro è già in piena sindrome da incarico. Per non parlare di Crimi, che oltre che capo politico è pure viceministro agli Interni. Visto che sarà lui a condurre le trattative, sarebbe veramente allucinante se alla fine si facesse riconfermare al Viminale». Il day after della formazione del governo Draghi, nel M5s, è tutto qui: sparite le poltrone, ora si combatte per le poltroncine. Una vale una, una vale l'altra.
Zingaretti teme la scalata di Orlando
Nulla è eterno, al mondo, tranne il congresso del Pd. La distribuzione dei ministeri «politici» del governo Draghi, curata direttamente dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, finisce per mettere all'angolo il segretario, Nicola Zingaretti. Tre ministri, nessuna donna: la delegazione dem al governo è composta da Andrea Orlando (Lavoro), Dario Franceschini (al quale è stata lasciata la delega ai Beni culturali ma sottratta quella al Turismo) e Lorenzo Guerini (Difesa), i tre leader delle tre maggiori componenti interne del partito, rispettivamente la sinistra, Areadem e Base riformista. Le quote rosa? Cancellate, sull'altare della spartizione correntizia. «Zingaretti», dice alla Verità un parlamentare dem, «ha subito e non deciso la scelta dei ministri, tenendo buoni i tre capicorrente per tentare di restare in piedi, ma la scelta di tre uomini su tre la pagherà cara».
Vanno all'assalto, le donne del Pd. «Non ci sono più scuse», scrive su Facebook la vicepresidente del partito, Debora Serracchiani. «Nessuno spazio», aggiunge la Serracchiani, rivolgendosi alle colleghe del partito, «ci sarà dato per gentile concessione. Non ci sono donne dem tra i ministri di Draghi non solo perché la logica della stabilità interna ha vinto su quella di genere, ma soprattutto perché non abbiamo ancora preso sul serio la sfida per la leadership. La sfida è prima di tutto politica ma anche culturale. Perché siamo di fronte a un enorme problema», infierisce la Serracchiani, «se le donne del più importante partito della sinistra italiana rinunciano a competere in prima persona per conquistare spazio alle loro idee. Ora, nel contingente, con le assegnazioni dei sottosegretariati sembra si voglia riparare un vaso rotto col nastro adesivo. Meglio di niente, dirà qualcuno, ma certo così non si risponde alla domanda: il Pd è un partito per donne? Per quanto mi riguarda», conclude, «dovrà esserlo».
Ci va giù durissima anche Laura Boldrini: «Non aver garantito», scrive su Facebook la deputata del Pd, «nella composizione del governo una pari rappresentanza tra uomini e donne è un fatto grave. Ancor più grave perché determinato dalle scelte del Partito democratico. Tre ministri dem, nessuna ministra. Lo dico chiaramente: il Pd deve scardinare l'assetto delle correnti che schiaccia il protagonismo femminile e impedisce il rinnovamento. Se non lo farà», aggiunge la Boldrini, «finirà per smarrire la sua identità progressista e il suo scopo sociale. Fino a che non si rimette in discussione questo assetto è inutile parlare di un nuovo modello di società che mette le donne al centro. Va invertita la rotta, subito. E non basterà, dopo quanto accaduto, qualche posto da sottosegretaria. Non può bastare».
Critiche e attacchi arrivano da diverse esponenti del Pd: Livia Turco, Giuditta Pini, Irene Tinagli, Titti Di Salvo, Lia Quartapelle. E Zingaretti? Il segretario, su Facebook, parla d'altro: «Scuola: 5% del Pil per l'istruzione. Sanità: 20 miliardi da investire per rinnovarla. Fisco: più equo e semplice. Con Draghi con le nostre idee. Comincia da oggi», scrive, «la campagna a sostegno delle politiche del governo». Si mette malissimo, per il leader del Pd, e non solo per la questione femminile, che si rivela una spina del fianco del segretario. Il problema maggiore, per il segretario, è che aveva puntato tutto su Giuseppe Conte. Ora che è uscito di scena, in molti si chiedono se Zingaretti lo seguirà. Anzi: la domanda è quando. Il neo ministro Orlando, attuale vice, è già in agguato.
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La beffa della Transizione ecologica fa insorgere i dissidenti: «Su Rousseau siamo stati ingannati, bisogna rivotare». E il malcontento trova benzina nel ridimensionamento del Sud nell'esecutivo: ora è tutti contro tutti.Il segretario del Pd ha paura che il nuovo titolare del Lavoro possa prendersi il partito. Polemica sulle quote rosa: «Perché Mario Draghi non ha scelto nessuna donna dem?»Lo speciale contiene due articoli. Il M5s si sveglia in preda a una crisi di nervi. Il governo Draghi è la Caporetto grillina, con i pentastellati che vedono la loro presenza ridotta al limite dell'irrilevanza, mentre la fiducia incombee i dissidenti affilano le armi. Il superministero della Transizione ecologica, che avrebbe dovuto rappresentare la vittoria di Beppe Grillo, di super non ha niente. Altro che accorpamento tra Sviluppo economico e Ambiente: il Mise viene affidato al leghista Giancarlo Giorgetti. Inoltre, il ministro della Transizione ecologica, Stefano Cingolani, è certamente in buoni rapporti con il M5s, ma è pure considerato vicino a Matteo Renzi, avendo partecipato a diverse edizioni della Leopolda. C'è già stata la prima defezione: ieri il deputato Giuseppe D'Ambrosio ha dato l'addio al Movimento. Grillo, su Facebook, fa l'ermetico: «È di una transizione cerebrale che abbiamo bisogno», scrive l'Elevato, «13 febbraio 2021. Ti ricorderai questa data. Perché da oggi si deve scegliere. O di qua, o di là. Scegliere le idee del secolo che è finito nel 1999 oppure quelle del secolo che finirà nel 2099». Giuseppe Conte, da parte sua, affida a Facebook il prevedibile post lagna, dicendo che torna a «vestire i panni di semplice cittadino». «Insieme a tanti preziosi compagni di viaggio», scrive, «abbiamo contribuito a delineare un percorso a misura d'uomo, volto a rafforzare l'equità, la solidarietà, la piena sostenibilità ambientale». Poi, la minaccia: «Il mio impegno e la mia determinazione saranno votati a proseguire questo percorso. La chiusura di un capitolo non ci impedisce di riempire fino in fondo le pagine della storia che vogliamo scrivere». I dissidenti hanno buon gioco a sparare sulla croce giallorossa: «Questa mattina (ieri, ndr)», scrive su Facebook la senatrice Barbara Lezzi, «ho inviato, insieme ad alcuni colleghi, una mail al capo politico, al comitato di garanzia e al garante del M5s per segnalare che la previsione del quesito posta nella consultazione dell'11 febbraio 2021 non ha trovato riscontro nella formazione del nuovo governo. Non c'è», aggiunge la pasionaria, «il superministero che avrebbe dovuto prevedere la fusione tra il ministero dello Sviluppo economico e il ministero dell'Ambiente oggetto del quesito. Chiediamo che venga immediatamente indetta una nuova consultazione con un quesito in cui sia chiara l'effettiva portata del ministero e che riporti la composizione del governo. È evidente che, in assenza di riscontro, al fine di rispettare la maggioranza degli iscritti che hanno espresso altra indicazione il voto alla fiducia deve essere no». Sulla stella linea Nicola Morra: «Il quesito su Rousseau si è scoperto non essere corrispondente al vero». Ieri sette senatori (oltre alla Lezzi, Lannutti, Dessì, Crucioli, Abate, Giannuzzi e La Mura) hanno detto che voteranno no alla fiducia. E nella notte era prevista la riunione dei deputati. Veniamo ai malumori interni non esplicitati pubblicamente: i parlamentari del M5s sono letteralmente imbufaliti. Innanzitutto i meridionali, che sono la stragrande maggioranza, visto che al Sud il M5s, nel 2018, prese la gran parte dei suoi voti, e che si ritrovano il solo Luigi Di Maio a rappresentare il Meridione al governo, ma in un ministero non di spesa. Di Maio è riuscito a conservare il suo ruolo di ministro degli Esteri per opera e virtù dello Spirito santo, ovvero del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha curato la composizione della squadra dei «politici». «Mentre gli altri segretari di partito», sbuffa un deputato pentastellato meridionale di primissimo piano, «interloquivano con il Quirinale, Vito Crimi perdeva tempo a organizzare cenette con Stefano Patuanelli. Risultato: siamo stati massacrati. Patuanelli ha pensato solo a salvare sé stesso, accettando anche di essere degradato dal Mise all'Agricoltura: sarebbe stato il caso di lasciare il posto a un rappresentante del meridione. Voglio vedere ora come farà, Patuanelli, che si vantava di essere l'uomo del dialogo coi dissidenti al Senato. Per non parlare di Roberto Fico…». Parliamone! «Fico», aggiunge la nostra fonte, «pur di salvare il suo D'Incà ha buttato a mare tutti, se ne è fregato del M5s, del Sud, di qualunque cosa. Altro che sindaco di Napoli! Ha fatto asse con Patuanelli, si è comportato da capocorrente, una enorme delusione. Per come sono andate le cose, non mi stupirebbe se Fico avesse giocato la partita anche contro Conte». Il clima, nel M5s, è cupo: non c'è un solo parlamentare, tra tutti quelli contattati, che si dica soddisfatto per come sono andate le cose. Ora scatta la caccia ai posti di sottogoverno: «Mi auguro», sospira un deputato, «che i ministri che non sono stati riconfermati adesso abbiano la decenza di non tentare di riciclarsi come viceministri e sottosegretari: Fraccaro è già in piena sindrome da incarico. Per non parlare di Crimi, che oltre che capo politico è pure viceministro agli Interni. Visto che sarà lui a condurre le trattative, sarebbe veramente allucinante se alla fine si facesse riconfermare al Viminale». Il day after della formazione del governo Draghi, nel M5s, è tutto qui: sparite le poltrone, ora si combatte per le poltroncine. Una vale una, una vale l'altra. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-movimento-di-corsa-verso-lesplosione-2650529040.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="zingaretti-teme-la-scalata-di-orlando" data-post-id="2650529040" data-published-at="1613247140" data-use-pagination="False"> Zingaretti teme la scalata di Orlando Nulla è eterno, al mondo, tranne il congresso del Pd. La distribuzione dei ministeri «politici» del governo Draghi, curata direttamente dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, finisce per mettere all'angolo il segretario, Nicola Zingaretti. Tre ministri, nessuna donna: la delegazione dem al governo è composta da Andrea Orlando (Lavoro), Dario Franceschini (al quale è stata lasciata la delega ai Beni culturali ma sottratta quella al Turismo) e Lorenzo Guerini (Difesa), i tre leader delle tre maggiori componenti interne del partito, rispettivamente la sinistra, Areadem e Base riformista. Le quote rosa? Cancellate, sull'altare della spartizione correntizia. «Zingaretti», dice alla Verità un parlamentare dem, «ha subito e non deciso la scelta dei ministri, tenendo buoni i tre capicorrente per tentare di restare in piedi, ma la scelta di tre uomini su tre la pagherà cara». Vanno all'assalto, le donne del Pd. «Non ci sono più scuse», scrive su Facebook la vicepresidente del partito, Debora Serracchiani. «Nessuno spazio», aggiunge la Serracchiani, rivolgendosi alle colleghe del partito, «ci sarà dato per gentile concessione. Non ci sono donne dem tra i ministri di Draghi non solo perché la logica della stabilità interna ha vinto su quella di genere, ma soprattutto perché non abbiamo ancora preso sul serio la sfida per la leadership. La sfida è prima di tutto politica ma anche culturale. Perché siamo di fronte a un enorme problema», infierisce la Serracchiani, «se le donne del più importante partito della sinistra italiana rinunciano a competere in prima persona per conquistare spazio alle loro idee. Ora, nel contingente, con le assegnazioni dei sottosegretariati sembra si voglia riparare un vaso rotto col nastro adesivo. Meglio di niente, dirà qualcuno, ma certo così non si risponde alla domanda: il Pd è un partito per donne? Per quanto mi riguarda», conclude, «dovrà esserlo». Ci va giù durissima anche Laura Boldrini: «Non aver garantito», scrive su Facebook la deputata del Pd, «nella composizione del governo una pari rappresentanza tra uomini e donne è un fatto grave. Ancor più grave perché determinato dalle scelte del Partito democratico. Tre ministri dem, nessuna ministra. Lo dico chiaramente: il Pd deve scardinare l'assetto delle correnti che schiaccia il protagonismo femminile e impedisce il rinnovamento. Se non lo farà», aggiunge la Boldrini, «finirà per smarrire la sua identità progressista e il suo scopo sociale. Fino a che non si rimette in discussione questo assetto è inutile parlare di un nuovo modello di società che mette le donne al centro. Va invertita la rotta, subito. E non basterà, dopo quanto accaduto, qualche posto da sottosegretaria. Non può bastare». Critiche e attacchi arrivano da diverse esponenti del Pd: Livia Turco, Giuditta Pini, Irene Tinagli, Titti Di Salvo, Lia Quartapelle. E Zingaretti? Il segretario, su Facebook, parla d'altro: «Scuola: 5% del Pil per l'istruzione. Sanità: 20 miliardi da investire per rinnovarla. Fisco: più equo e semplice. Con Draghi con le nostre idee. Comincia da oggi», scrive, «la campagna a sostegno delle politiche del governo». Si mette malissimo, per il leader del Pd, e non solo per la questione femminile, che si rivela una spina del fianco del segretario. Il problema maggiore, per il segretario, è che aveva puntato tutto su Giuseppe Conte. Ora che è uscito di scena, in molti si chiedono se Zingaretti lo seguirà. Anzi: la domanda è quando. Il neo ministro Orlando, attuale vice, è già in agguato.
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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