
Anche se resta lontano dal governo, il vero vincitore delle elezioni è il partito sovranista di Jimmie Åkesson. Perdono gli altri gruppi. È il Paese che ha accolto di più. Risultato? Crisi di rigetto, mancata integrazione, criminalità. Come aveva evidenziato Donald Trump.Non ditelo all'Inviato Unico e al Corrispondente Collettivo che - al solito - non hanno capito granché. Ma il dato di fondo delle elezioni in Svezia è che, pur essendo destinati a rimanere (per ora) lontani dal governo, i veri vincitori sono i Democratici svedesi con il simbolo della margherita. Non fatevi ingannare dal nome: si tratta in realtà del partito sovranista guidato da Jimmie Åkesson.Per lunghi mesi, Åkesson e i suoi sono stati criminalizzati, trattati più o meno come nazisti: ma sono il partito in crescita più robusta, dal 13% di cinque anni fa al 17,6% di domenica. Quanto invece ai partiti più grandi, sia di centrosinistra sia di centrodestra, hanno poco da cantare vittoria. I Socialdemocratici del premier uscente Stefan Löfven si attestano al 28,4% (sotto la soglia psicologica del 30, peggior risultato da un secolo per il partito da sempre egemone a Stoccolma), e, anche contando gli alleati di sinistra, può contare su una coalizione parlamentare appena superiore al 40%. Discorso analogo per il centrodestra: i Moderati scendono al 19,8 (giù di 3 punti), e anche considerando i loro alleati più piccoli, resterebbero a loro volta lontani dalla maggioranza. Insomma, stallo totale, e partiti tradizionali costretti o a mercanteggiare seggi per una maggioranza risicata, o a costruire il regalo perfetto per Åkesson: una larga coalizione con tutti dentro, tranne lui.La realtà è che, mentre lo demonizzavano, Åkesson ha saputo ascoltare la società svedese, ferita da un'immigrazione fuori controllo. Come si sa, a partire dalla mala gestione dell'emergenza in Siria, la Svezia è forse il Paese che ha accolto di più, spalancando le porte senza limiti. Risultato? Rigetto da parte dei cittadini, mancata integrazione, nuove temibili bande criminali, polizia in balia del disordine, boom di rapine e episodi di violenza. Ne parlò all'inizio del 2017 Donald Trump, con una frase («guardate cos'è successo in Svezia») che gli valse un coro globale di prese in giro: lui si riferiva a un servizio-tv sulla Svezia visto la sera prima, ma mezzo mondo (incluso l'ex primo ministro svedese Carl Bildt) lo derise come se avesse diffuso una fake-news. Un anno e mezzo dopo, appare chiaro che Trump non aveva torto.Il partito di Åkesson si è concentrato proprio su questo, con tre punti-chiave. Il loro linguaggio è spesso urticante, ma le proposte a ben vedere sono di buon senso: una moratoria sulle nuove richieste d'asilo, reimpatri più rapidi per gli irregolari, regole più severe per la concessione della cittadinanza.Vale anche la pena di ricordare che i due attuali eurodeputati del partito di Åkesson siedono nel gruppo più liberale del parlamento di Bruxelles, cioè il gruppo Ecr-Acre attualmente guidato dai Conservatori inglesi (e che vede anche consistenti delegazioni di Polonia e Repubblica Ceca). È evidente che, in vista delle europee di maggio 2019, sarà il Ppe a dover scegliere se proseguire una campagna di criminalizzazione a prescindere, o se invece - facendo tesoro del ruolo dell'ungherese Viktor Orban e del tedesco Manfred Weber - aprire all'alleanza con i sovranisti. Intanto, Matteo Salvini, che nelle scorse settimane ha annunciato la volontà di costruire una Lega delle Leghe europea e ha pure aderito al think tank lanciato da Steve Bannon, ieri si è complimentato con Åkesson: «La Svezia patria del multiculturalismo e modello della sinistra, dopo anni di immigrazione selvaggia, ha deciso finalmente di cambiare», ha twittato.Resta con il cerino in mano la sinistra italiana. Si segnalano le reazioni dell'ex premier Paolo Gentiloni («Vuoi vedere che agli svedesi interessa più difendere il welfare che cacciare i migranti?»), come se gli svedesi non fossero preoccupati anche per gli effetti sociali ed economici dell'immigrazione incontrollata, dell'ineffabile Laura Boldrini («Il partito xenofobo ha ottenuto lo stesso risultato della Lega, 17%»), come se non fosse scontato, anche a Stoccolma, un trend in crescita esponenziale per i sovranisti, e infine dell'eurolirico Sandro Gozi («Con nuove alleanze progressiste li batteremo»), secondo la consueta tragicomica linea «non abbiamo vinto ma vinceremo».Peggio di loro, solo i giornaloni. Prima hanno descritto Åkesson come un mostro, omettendo di raccontare il caos dell'immigrazione incontrollata; ora - tra una banalità e un luogo comune - si arrampicano sugli specchi per dire che «cresce l'onda nera» ma «l'argine ha retto» e «i sovranisti non sfondano». Infine, vette irraggiungibili a Sky, dove si è perfino sentito parlare di «campagna antieuro»: peccato che in Svezia ci sia la corona svedese, non l'euro.
Il signor Yehia Elgaml, padre di Ramy (Ansa)
A un anno dal tragico incidente, il genitore chiede che non venga dato l’Ambrogino d’oro al Nucleo operativo radiomobile impegnato nell’inseguimento del ragazzo. Silvia Sardone: «Basta con i processi mediatici nei loro confronti, hanno agito bene».
È passato ormai un anno da quando Ramy Elgaml ha trovato la morte mentre scappava, su uno scooter guidato dal suo amico Fares Bouzidi (poi condannato a due anni e otto mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale), inseguito dai carabinieri. La storia è nota: la notte del 24 novembre scorso, in zona corso Como, i due ragazzi non si fermano all’«alt» delle forze dell’ordine che avevano preparato un posto di blocco per verificare l’uso di alcolici nella zona della movida milanese. Ne nasce così un inseguimento di otto chilometri che terminerà solamente in via Ripamonti con lo schianto dello scooter, la morte del ragazzo e i carabinieri che finiscono nei guai, prima con l’accusa di omicidio stradale in concorso e poi con quelle di falso e depistaggio. Un anno di polemiche e di lotte giudiziarie, con la richiesta di sempre nuove perizie che sembrano pensate più per «incastrare» le forze dell’ordine che per scoprire la verità di quel 24 novembre.
I governi ricordino che il benessere è collegato all’aumento dell’energia utilizzata.
Quattro dritte ai politici per una sana politica energetica.
1 Più energia usiamo, maggiore è il nostro benessere.
Questo è cruciale comprenderlo. Qualunque cosa noi facciamo, senza eccezioni, usiamo energia. Coltivare vegetali, allevare animali, trasportare, conservare e preparare il cibo, curare la nostra salute, costruire le dimore dove abitiamo, riscaldarle d’inverno e rinfrescarle d’estate, spostarci da un posto all’altro, studiare fisica o violino, tutto richiede l’uso di energia. Se il nostro benessere consiste nella disponibilità di nutrirci, stare in salute, vivere in ambienti climatizzati, poterci spostare, realizzare le nostre inclinazioni, allora il nostro benessere dipende dalla disponibilità di energia abbondante e a buon mercato.
Stéphane Séjourné (Getty)
La Commissione vuole vincolare i fondi di Pechino all’uso di fornitori e lavoratori europei: «È la stessa agenda di Donald Trump». Obiettivo: evitare che il Dragone investa nascondendo il suo know how, come accade in Spagna.
Mai più un caso Saragozza. Sembra che quanto successo nella città spagnola, capoluogo dell’Aragona, rappresenti una sorta di spartiacque nella strategia masochistica europea verso la Cina. Il suicidio chiamato Green deal che sta sottomettendo Bruxelles a Pechino sia nella filiera di prodotto sia nella catena delle conoscenze tecnologiche si è concretizzato a pieno con il progetto per la realizzazione della nuova fabbrica di batterie per auto elettriche, che Stellantis in collaborazione con la cinese Catl costruirà in Spagna.
La Cop30 di Belém, Brasile (Ansa)
Il vertice ospitato da Luiz Inácio Lula da Silva nel caldo soffocante di Belém si chiude con impegni generici. Respinti i tentativi del commissario Wopke Hoekstra di forzare la mano per imporre più vincoli.
Dopo due settimane di acquazzoni, impianti di aria condizionata assenti e infuocati dibattiti sull’uso della cravatta, ha chiuso i battenti sabato scorso il caravanserraglio della Cop30. Il presidente del Brasile Luiz Inácio da Silva detto Lula ha voluto che l’adunata di 50.000 convenuti si tenesse nella poco ridente località di Belém, alle porte della foresta amazzonica, a un passo dall’Equatore. Si tratta di una città con 18.000 posti letto alberghieri mal contati, dove le piogge torrenziali sono la norma e dove il caldo umido è soffocante. Doveva essere un messaggio ai delegati: il mondo si scalda, provate l’esperienza. Insomma, le premesse non erano buone. E infatti la montagnola ha partorito uno squittìo, più che un topolino.





