2025-03-23
Il match di Kinshasa è ricominciato lassù
George Foreman (Getty images)
Il grande rivale di Alì, passato con lui alla storia per il «Rumble in the jungle», è morto a 76 anni. Pugile dalla forza brutale, fu sconfitto nella sfida delle sfide ma non è mai passato per «secondo». Dopo il ring, aveva scelto di predicare il cristianesimo. «Uscì dall’ascensore con addosso una tuta dalla pettorina ricamata e una giacchetta di cotonina indiana. Più che a un uomo somigliava a un leone in posizione eretta come un uomo. Sembrava assonnato, ma come un leone che sta digerendo una carcassa». Era George Foreman. Lo dipinse così Norman Mailer nel libro The Fight, il capolavoro che rese immortale anche per la cultura alta il più grande incontro di boxe della storia, a Kinshasa nel 1974. Mondiale dei pesi massimi in palio. Lo vinse il santone cool, Muhammad Alì; lo perse Foreman che non era mai stato sconfitto e che prima di allora aveva distrutto per 40 volte gli avversari che gli erano capitati a tiro. Avrebbe ripetuto fino alla fine: «Non mi ha battuto, mi è entrato nella testa».Big George, l’altra metà di quella sfida leggendaria, è passato a miglior vita ieri a Houston, Texas, a 76 anni, dopo una malattia degenerativa. Lo ha annunciato l’immensa famiglia: cinque mogli, 11 figli (i cinque maschi si chiamano tutti George Edward Foreman), 16 nipoti. «Devoto predicatore, devoto marito, padre amorevole, orgoglioso nonno e bisnonno, ha condotto una vita segnata da fede granitica, umiltà e determinazione. Se n’è andato serenamente circondato dai suoi cari». Non una parola per il fighter che era stato in quella vita lontana e sfumata per chi gli ha voluto bene, ma rimasta scolpita nel Pantheon dello Sport per chi lo ha visto all’opera. Pugile dalla forza esplosiva, due volte campione del mondo - la seconda a 45 anni, ecco un altro record - ovunque colpiva faceva danni. Su 81 incontri ne ha vinti 76 (68 per ko). Prima dei match si ritirava in un angolo dello spogliatoio con i suoi secondi a pregare perché l’avversario di turno non si facesse troppo male, un modo per ribadire la propria invincibilità. In realtà Foreman era silenzioso e gentile, dipinto come Bad Boy perché sembrasse il contrario di Alì, il labbro di Louisville, verboso e affascinante predicatore. Big George aveva una colpa per un nero in quegli anni: si sentiva profondamente yankee. Quando vinse l’oro olimpico a Città del Messico nel 1968 sventolò una bandierina a stelle strisce ripetendo tre volte perché tutti capissero: «Guardatemi, sono un americano felice». Dieci giorni prima Tommie Smith e John Carlos erano saliti sul podio dello stadio Azteca con il pugno chiuso nella mano guantata del potere nero. Foreman non ha mai rinnegato i valori americani, non ha mai scambiato lo sport per una tribuna politica, non ha mai ruffianeggiato con la cultura modaiola del tempo, non ha mai danzato con la rivoluzione. E non ha mai dimenticato che la religione cristiana (assieme alla boxe) lo aveva tolto dalla strada e molto probabilmente dalla galera. La sua fede lo portò ad avere un’esistenza piena dopo i pugni dati e presi: diventò ministro di culto a Houston in una chiesa cristiano-evangelica e si dedicò a numerose iniziative benefiche a sostegno della gioventù più disagiata.George Foreman nasce a Marshall in Texas nel 1949 da mamma Nancy che fa la cameriera e da papà Leroy, veterano di guerra che si dilegua. Cresce con un padre putativo e frequenta fin da ragazzo i bassifondi della città: borseggiatore adolescente, affezionato ospite di riformatori, biografia perfetta per entrare nel mondo del crimine, quando viene salvato dal Job Corps, un programma educativo voluto dalla diocesi e dall’amministrazione Johnson per combattere la povertà giovanile. Scopre la boxe, è un armadio dal pugno esplosivo, è un diamante grezzo destinato a diventare qualcuno. Gli esperti lo definiscono «l’erede di Sonny Liston» ma lui andrà molto oltre. E dopo Kinshasa, dopo la fenomenale carriera sul ring, trova il modo di guadagnare rispetto e soldi anche come imprenditore: la sua bistecchiera multiuso elettrica (il Foreman Grill) viene venduta in 100 milioni di pezzi in tutto il mondo. Recita in una sitcom, partecipa a un reality show canoro, viene sviolinato in un biopic del 2023 dal titolo Big George. Colleziona auto d’epoca, parte con un Maggiolino cabrio e arriva a 69 macchine dentro un enorme capannone nel suo ranch texano. Poi le vende tutte «non per necessità ma per dare un futuro certo alla mia tribù».Ma la sua vita ruota attorno a quel 30 ottobre 1974 a Kinshasa, alla grande sconfitta da favorito contro Muhammad Alì in declino. A quell’ottavo round cominciato molto prima, quando scendendo dall’aereo che lo porta nello Zaire si fa accompagnare dal fido cane lupo Dago. Con il quale si allena scartando sui prati, con il quale si rilassa nel tempo libero. Senza sapere che quell’animale era il simbolo della schiavitù; lo usavano gli aguzzini belgi per terrorizzare e poi sbranare gli schiavi. «Foreman è un belga!», provoca Alì in conferenza stampa facendolo passare per nemico del popolo africano. E quella notte il pubblico grida: «Alì bumayè», Alì uccidilo. Lo sport è soprattutto psicologia, la forza mentale è più micidiale di cento uppercut. Alla fine Foreman dirà: «Lui ha usato la strategia del rope a dope (la presa al laccio dell’imbecille), dove l’imbecille ero io».Negli anni i due diventano amici. Foreman coglie la forza evocativa di quel combattimento e commenta in un’intervista a due: «Io e te siamo più vicini di quanto immagini. Diventeremo vecchi e saremo sempre amici. Dovresti telefonarmi almeno una volta al mese, ok?». Lo aiuta nella malattia (il rivale è travolto dal Parkinson), nel 2016 lo piange sulla tomba. E rivela: «L’unica foto che ho salvato di quell’incontro è quella di Muhammad Alì che mi butta a terra. Mi sono reso conto di quale grande momento fosse per lo sport e per la boxe. Non l’ho mai dimenticato. E mi ha reso una persona molto migliore di quella che sarei stato se l’avessi buttato giù io». Alla lunga i pugni ti presentano il conto. Lui è entrato nell’Olimpo per quello che non arrivò mai: Foreman sta crollando, il destino è compiuto, Alì potrebbe finirlo ma «non ho voluto togliere con un ultimo cazzotto il fascino plastico di un corpo che cade». Giganti. Così l’immagine più leggendaria e falsa dello sport ci mostra piegato, quasi inginocchiato, un grande campione che ha sempre vissuto in piedi, in silenzio, forte dei suoi valori. E che in piedi, ieri, ha attraversato il fiume dell’Aldilà. Dove ha ritrovato Dago e ha ricominciato a giocare con lui.