2018-11-01
Il manuale che spiega agli insegnanti come creare i «bambini europei»
Tra i libri che i docenti di lingue devono studiare c'è quello di Paolo Balboni. Illustra il «progetto politico» che permette di «trasformare» i piccoli italiani in perfetti cittadini Ue slegati dalla cultura d'origine. Per creare nuovi cittadini progressisti, ben disposti verso l'accoglienza degli stranieri e attenti ai diritti delle minoranze, non è sufficiente educarli tramite i libri di testo diffusi nelle scuole. Certo, la manualistica scolastica ha un ruolo fondamentale nel processo di indottrinamento, ma il testo da solo non basta. Bisogna che anche gli insegnanti siano ben disposti, pronti a piantare i semi del pensiero unico nel terreno fertile delle giovani menti. La formazione ideologica, dunque, deve iniziare a monte: è necessario prima educare i docenti, così che a loro volta possano poi plasmare gli alunni. Ed è proprio di un volume rivolto agli insegnanti che ci occupiamo oggi. Un libro importante e molto venduto, uscito per la prima volta nel 2002 e giunto ormai alla quarta edizione. Si intitola Le sfide di Babele. Insegnare le lingue nelle società complesse (Utet). L'autore è un vero e proprio luminare. Si tratta di Paolo Balboni, che insegna Glottodidattica presso l'Università Ca' Foscari di Venezia ed è, apprendiamo dalla biografia, «il decano del settore Didattica delle lingue moderne nelle università italiane». Ha fondato e diretto collane, dirige centri studi importanti e riviste, insomma è un peso massimo dell'accademia. Soprattutto, però, Balboni ha creato «le prime due certificazioni di didattica dell'italiano a stranieri», ovvero la certificazione Ditals e la certificazione Cedils. Il professore, si legge sul sito Ditals.com, «crea la certificazione Ditals a Siena e la ripropone con un nome differente una volta arrivato a Venezia». Chi, nel nostro Paese, vuole insegnare l'italiano agli stranieri deve possedere una di queste due certificazioni. Ottenerle non è semplicissimo, bisogna prepararsi bene e studiare. E il libro di testo indispensabile è, appunto, Le sfide di Babele. Sfogliandolo, ci si rende conto che il testo è complesso, denso, molto ricco. Il problema, in questo caso, non è la qualità, insomma. La preparazione di Balboni è evidente, così come non ci sono dubbi che il professore si dia molto da fare per promuovere con entusiasmo il proprio lavoro. Il fatto, però, è che nel suo prezioso libro ci sono alcuni passaggi decisamente inquietanti. Già dall'introduzione si capisce quale sia lo spirito che pervade il tomo: «In questi anni», scrive Balboni, «si parla sempre di più di globalizzazione (e della sua lingua, l'inglese): in realtà, lottare contro la globalizzazione non ha più senso di quanto ne abbia lottare contro il montare della marea». Certo, il professore non è a favore della «globalizzazione delle menti», e sostiene che si debba «salvaguardare la pluralità delle lingue». Tuttavia, fin da subito presenta la globalizzazione come una sorta di evento ineluttabile, un processore che sarebbe da pazzi provare a contrastare. Le premesse, in ogni caso, sono moderate.I guai grossi arrivano a pagina 87, nel capitolo «Il soggetto dell'acquisizione linguistica: lo studente». «In questo paragrafo», scrive Balboni, «vedremo perché è bene che un bambino si accosti a una lingua straniera e come guidare i processi che si mettono in moto». «Di solito», continua il professore, «si assumono le caratteristiche psicologiche e psicolinguistiche dei bambini come ragione portante per l'accostamento precoce alle lingue straniere». Chiaro: se si vuole che qualcuno impari bene una lingua straniera, è meglio cominciare a insegnargliela quando è ancora bambino. Fin qui, niente di male, anzi l'affermazione è più o meno nota a chiunque. Però Balboni aggiunge un particolare interessante. Egli spiega che bisogna cominciare presto a insegnare le lingue straniere non solo perché i bimbi imparano con più facilità degli adulti, ma soprattutto perché «la dimensione politica merita la priorità».Ed eccoci al punto. Lo studioso teorizza «l'insegnamento precoce della lingua come progetto politico». Egli sostiene che «la polis in cui vivranno i bambini che oggi entrano nella scuola dell'infanzia non sarà più l'Italia ma l'Unione europea. E da europei, non da italiani (e ancor meno da veneti o campani o sardi) essi dovranno vedersela con la globalizzazione delle merci, dei servizi, delle persone – cioè dei loro diritti, dei loro doveri, delle loro lingue».Il discorso è limpido. L'insegnante non deve considerare i bambini della sua classe come italiani o, peggio, come veneti o emiliani o lombardi. Deve considerarli «europei» e come europei deve formarli. Piccolo problema: questi bimbi, in effetti, sono italiani. E sono pure lombardi, veneti, emiliani, sardi o siciliani. Per quanto piccoli, hanno una storia, sono cresciuti in un territorio preciso, hanno ascoltato la lingua dei loro genitori, il loro dialetto. Hanno assunto le loro abitudini, sono cresciuti in un ambiente ben determinato che non è una generica «Europa», ma una città, una regione e, più di tutto, una nazione precisa. Questo, agli occhi del professor Balboni, è un problema. Ma non è insormontabile.Infatti lo studioso precisa: «Trasformare un bambino italiano in un bambino europeo è possibile se si inizia il processo per tempo: l'identità sociale, infatti, si forma prima dei 10 anni di età e se vogliamo che un bambino cresca sentendosi (potenzialmente) bilingue anziché legato a una lingua (che poi vuol dire una cultura, spesso anche un'etnia, con tutti i rischi che ne derivano), allora la ragione primaria per l'accostamento precocissimo alla lingua straniera è politica». In questo passaggio possiamo vedere in purezza l'ideologia europeista e globalista, quella che, secondo qualcuno, sarebbe una «invenzione dei populisti». Tanto per cominciare, un bambino italiano è già un bambino europeo. E il motivo è semplice: se uno nasce in Italia, nasce in Europa. Dunque, almeno in teoria, non ci sarebbe alcun bisogno di «trasformare» un piccolo italiano in un piccolo europeo. La questione, tuttavia, è decisamente più sottile. Balboni sta parlando di un tipo di europeo molto preciso. L'europeo che egli ha in mente è il cittadino perfetto della Ue, una sorta di «uomo nuovo» gradito a Bruxelles. Un «europeizzato» piuttosto che un europeo. Ecco perché c'è bisogno di una «trasformazione». Perché, per creare l'europeizzato bisogna prima fare tabula rasa, bisogna distruggere per poi edificare. Il fatto che un bimbo sia legato a una lingua, cioè a «una cultura, spesso anche un'etnia, con tutti i rischi che ne derivano» è, agli occhi del professore, estremamente sgradevole. La cultura di appartenenza va sradicata, l'etnia manco si deve nominare. Il bambino che nasce italiano va rieducato, riplasmato, ricostruito come l'Unione europea gradisce. Balboni, da questo punto di vista, è onesto: il progetto è politico, ammette. «Il progetto politico di fondo», prosegue, «può essere sintetizzato nel passaggio da bilinguismo a bilinguità: il bilinguismo è un dato sociale, la bilinguità è invece una condizione personale». Ovvio: un bimbo può essere bilingue per nascita, ma può essere forzato a «sviluppare una “personalità bilingue"». «Questa nozione», precisa Balboni, «è fondamentale per giustificare in termini umani e non solo utilitaristici l'investimento organizzativo e di risorse richiesto dall'insegnamento precoce delle lingue straniere - che in Italia dalla riforma Moratti dei primi anni del secolo in poi significa insegnamento dell'inglese». Tutto chiaro: sono stati investiti soldi in un piano politico, che prevede di formare bambini sostanzialmente neutri, per cui la lingua madre sia una lingua fra tante, pari all'inglese, cioè la lingua ufficiale dell'Ue (anche se poi l'Inghilterra dall'Ue se n'è andata tramite Brexit). Attenzione: qui non ci troviamo di fronte alle balzane teorie di un intellettuale qualsiasi. Qui stiamo parlando di un libro estremamente diffuso che è ritenuto fondamentale per la formazione degli insegnanti di italiano per stranieri, ma anche degli insegnanti di lingue nelle nostre scuole. Un volume che invita i docenti a «trasformare» i bambini, prendendoli da piccoli in modo che diventino bravi bambolotti europeisti. Per la serie: lasciate che i pargoli vengano all'Ue.