2019-09-27
Il gruppo Toto finanziava Open direttamente
La controllata Renexia ha versato 25.000 euro alla fondazione di Matteo Renzi, oltre a pagare una maxi parcella - ritenuta sospetta dagli inquirenti - al presidente Alberto Bianchi. Donazioni anche da British american tobacco, Davide Serra e David Ermini.Il Bullo fa causa al Fatto: nel mirino la frase sull'«odore di massoneria». Denunciati per diffamazione pure Piero Pelù e una nonnina sbancata.Lo speciale contiene due articoli.C'era anche la Renexia spa tra i finanziatori della fondazione Open di Matteo Renzi. La società impegnata nel settore delle energie rinnovabili appartiene al gruppo Toto, nota famiglia di imprenditori abruzzesi, e il suo amministratore delegato, il pavese Lino Bergonzi, è attualmente indagato per appropriazioni indebita e falso in bilancio per aver acquisito, tra l'ottobre del 2016 e quello del 2017, cinque aziende autorizzate a costruire parchi eolici da Patrizio Donnini, ex stretto collaboratore di Renzi, al prezzo monstre di 1.030.000.Donnini tra agosto e settembre 2016 aveva pagato le stesse ditte 68.200 euro, realizzando una plusvalenza dichiarata di 950.000 euro. Ma la Renexia, prima di arricchire Donnini (indagato a sua volta per appropriazione indebita e autoriciclaggio), aveva iniettato 25.000 euro nella cassaforte renziana, accettando che quell'offerta venisse resa pubblica. Il finanziamento è inserito nell'elenco (periodo luglio 2014-maggio 2015) che era presente su Internet sino a qualche mese fa. Ora il sito della fondazione è stato cancellato e la stessa è stata chiusa nel 2018. A riaprire gli archivi ci ha pensato la Guardia di finanza di Firenze su ordine della Procura di Firenze. Il 16 settembre le Fiamme gialle hanno perquisito lo studio dell'avvocato Alberto Bianchi, ex presidente della fondazione, e hanno portato via bilanci ed elenchi dei finanziatori. Al centro delle loro indagini la parcella da 2 milioni di euro pagata dalla Toto costruzioni generali allo studio di Bianchi. Di quei 2 milioni, 750.000 euro sono finiti direttamente nella disponibilità dell'avvocato che, dopo aver pagato le tasse, ha dirottato il guadagno netto di quella prestazione professionale: 200.000 euro su Open e 200.000 verso i comitati per il Sì del referendum costituzionale del 2016. La versione ufficiale è che quest'ultima sia stata un'elargizione a titolo personale, mentre la prima sarebbe stata fatta per evitare di rispondere davanti alla legge per i bilanci dissestati della fondazione. Alla chiusura di Open, il presidente avrebbe recuperato 190.000 euro. Dunque con che formula sono entrati nelle casse della fondazione? Era un prestito? Oppure un'erogazione liberale? Nell'articolo 6 si legge: «La fondazione non ha scopo di lucro e pertanto durante tutta la sua esistenza non potrà distribuire, neppure in modo indiretto, utili o avanzi di gestione, nonché fondi, riserve o capitali, salvo che la destinazione o la distribuzione non siano imposte dalla legge. Eventuali utili o avanzi di gestione dovranno essere impiegati esclusivamente per la realizzazione delle attività istituzionali e di quelle connesse». L'articolo 17 aggiunge: «Se lo scopo della fondazione divenisse impossibile o di scarsa utilità [...] il patrimonio residuo della fondazione sarà devoluto a fini di pubblica utilità». Quindi Bianchi, se abbiamo ben compreso, avrebbe potuto recuperare i suoi soldi solamente se non fossero stati una donazione. E in effetti, sino al giugno del 2017 (l'elenco pubblico dei finanziatori si ferma a quella data), Bianchi compare nella lista dei donatori per aver elargito 30.400 euro, un versamento che sarebbe stato effettuato dopo il maggio 2015. Quando sono stati versati gli altri 200.000 euro? Dopo il giugno 2017? Oppure, come abbiamo ipotizzato, non sono da considerarsi un'elargizione?L'avvocato non ci ha risposto, ma certamente lo farà con gli inquirenti. I quali stanno passando ai raggi x i bilanci (su Internet l'ultimo disponibile risale al 2016) e la lista dei finanziatori. La loro l'attenzione si starebbe concentrando sui sostenitori più generosi, alla ricerca di eventuali ricadute dell'attività di governo sulle loro aziende.Nel salvadanaio di Matteo Renzi hanno messo soldi un po' tutti i bei nomi della finanza e dell'imprenditoria sedicente progressista del Paese. Molti però hanno preferito nascondersi dietro le cortine fumogene dell'anonimato negando l'autorizzazione alla diffusione dei loro dati. Sui 6,7 milioni di euro raccolti complessivamente dalla fondazione, solo 2,3 milioni sono «noti». In pratica, come scritto dal settimanale Panorama questa settimana in edicola, appena un terzo. Sul sito «oscurato» della fondazione, gli organi sociali di Open hanno reso pubblici i nomi dei simpatizzanti che hanno «contribuito finanziariamente […] dalla sua costituzione al 30 giugno 2017» per un totale di 5.542.902,49 euro. Considerato che l'ente ha chiuso i battenti agli inizi del 2018, significa che da luglio 2017 in poi sono stati raccolti altri 1,2 milioni di euro di cui si sa nulla. Il che non corrisponde esattamente alle convinte dichiarazioni di Bianchi («Siamo la fondazione italiana più trasparente in assoluto») né agli obblighi di chiarezza che uno strumento finanziario, legato alla politica, dovrebbe avere. Oggi, con la legge Spazzacorrotti, questo meccanismo di «occultamento» non sarebbe più possibile.Ma chi sono i finanziatori in chiaro di Open? Il banchiere Carlo Micheli, figlio del finanziere Francesco, ha versato 10.000 euro. L'immancabile Davide Serra e la moglie Anna Barassi hanno staccato un assegno da 175.000 euro. L'ex presidente della Fiat Paolo Fresco e la moglie Marie Edmée Jacquelin hanno offerto 50.000 euro. Un po' di più (60.000 euro) è arrivato dalla Isvafim spa, società che fa riferimento all'imprenditore napoletano Alfredo Romeo coinvolto nell'inchiesta Consip insieme all'ex ministro Luca Lotti e al papà di Matteo Renzi, Tiziano.La stessa cifra (62.000 euro) messa sul piatto da Enzo Manes, patron della finanziaria Intek spa e della Km Europa metalli. Dall'industriale dell'acciaio Guido Ghisolfi (suicidatosi nel febbraio 2019) e dalla moglie Ivana Tanzi è giunto esattamente il doppio, 125.000 euro. Tra i capitani coraggiosi ci sono pure l'armatore Vincenzo Onorato (50.000 euro) e la sua Moby (100mila). La lista comprende anche la multinazionale delle sigarette, British american tobacco (100.000 euro), la Blau meer (20.000 euro), di cui sono titolari i fratelli Orsero, i re della frutta, e la Alicros spa (30.000 euro), controllata dalla famiglia Garavoglia dell'azienda Campari. Diecimila euro è la quota versata da Jacopo Mazzei, presidente della Cassa di risparmio di Firenze e consuocero di Paolo Scaroni e cugino di Lorenzo Bini Smaghi, e da David Ermini, attuale vicepresidente del Csm. Due curiosità: i 5.000 euro di Dario Cusani, fratello di Sergio, condannato nel processo per la maxitangente Enimont, e i 250 euro di Antonio Campo Dall'Orto che sarà poi nominato dg della Rai renziana.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-gruppo-toto-finanziava-open-direttamente-2640639638.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-bullo-fa-causa-al-fatto-e-chiede-a-de-bortoli-100-000-euro-di-danni" data-post-id="2640639638" data-published-at="1758136698" data-use-pagination="False"> Il Bullo fa causa al «Fatto». E chiede a de Bortoli 100.000 euro di danni Il senatore Matteo Renzi è ormai una macchina da soldi. Infatti al suo stipendio da senatore (che lo stesso ex premier ha quantificato in 10.000 euro) aggiunge le numerose entrate che gli derivano da consulenze, conferenze e cause civili per diffamazione. Per la sua attività di conferenziere globe trotter sta firmando contratti anche a cinque zeri. Un filone così remunerativo per cui avrebbe fondato una società ad hoc, la Digistart. Ma anche le citazioni in tribunale di giornalisti e avversari vari si stanno dimostrando un esercizio altamente redditizio. Ad aprile aveva annunciato cause contro personaggi come il cantante Piero Pelù (che lo aveva definito «boy scout di Licio Gelli»), lo chef Gianfranco Vissani, il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio e altri, compresa una vecchietta inviperita con lui per il cosiddetto decreto Salvabanche. Sembra che con qualche volto noto Renzi abbia già chiuso la pratica incassando ricche transazioni, mentre con altri la guerra continua. Per esempio ieri il suo ufficio stampa ha comunicato che l'ex Rottamatore ha incaricato i propri legali di procedere con un'azione civile contro Il Fatto Quotidiano per gli articoli firmati da Carlo Tecce e Tomaso Montanari il 25 settembre. Il primo servizio si intitolava «Politico e oratore: Renzi (ri)organizza le sue casse» e faceva i conti in tasca al leader di Italia viva; il secondo aveva invece questo incipit: «L'imbarazzante fuga di Matteo Renzi dal Partito democratico non è solo l'occasione per capire una volta per tutte la vera natura di questo piccolo imprenditore del proprio potere, personale e di clan (inseparabile dallo “stantio odore di massoneria" captato per tempo da Ferruccio de Bortoli)». E deve essere stata propria quest'ultima citazione a far infuriare il fu Rottamatore. Infatti la settimana scorsa l'avvocato fiorentino Lorenzo Pellegrini ha depositato una richiesta di risarcimento danni da 100.000 euro per diffamazione contro l'ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli e una richiesta di mediazione all'Organo di conciliazione di Firenze per le «plurime espressioni offensive» che avrebbero leso la reputazione di Renzi. Tra le frasi contestate c'è proprio quella sulla «massoneria», vergata nel 2014: «Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria». Nel 2015, sempre de Bortoli, è tornato alla carica: «Del giovane caudillo Renzi che dire? Un maleducato di talento», dove l'accostamento a Francisco Franco o comunque a un dittatore è stato ritenuto dall'ex premier diffamatorio. Infine l'avvocato Pellegrini contesta un capitolo del libro di de Bortoli Poteri forti (o quasi), in cui, nel 2017, l'autore avrebbe riportato «falsamente» un episodio che si sarebbe verificato a Forte dei Marmi nell'estate del 2014. Nell'occasione, secondo de Bortoli, l'allora premier avrebbe intimidito in hotel l'inviato Marco Galluzzo del Corriere, accusandolo di violare la sua privacy.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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