2020-06-07
Il fuggiasco e le sirene della vita di prima
La morte della donna dai lunghi capelli bianchi ha minato la relativa calma dell’eremita della montagna. E ravvivato il ricordo di un altro suicidio. Quello di Cesare il cacciatore, che gli insegnò a sopravvivere nella natura. Torna l’interrogativo: che fare?La morte della donna dai lunghi capelli bianchi ha minato quella relativa calma che Immenso era riuscito ad ammansire, nella sua quasi granitica aspettativa di una vita priva di rischi. O meglio, scevra di concorrenza fra simili e di tutte quelle forme di prepotenza che oramai sembrano incatenare i rapporti fra gli umani. Abbandonando il dolore della città era salito al monte per respirare a pieni polmoni e dimenticarsi dell’uomo che era stato. O che avrebbe potuto continuare a diventare.Ora quell’uomo è di nuovo lì, accanto a lui. Muove le stesse mani che muove lui, respira la stessa aria che respira lui. Parlotta fra sé e sé nelle stesse semilune d’ombra dove borbotta e commenta. Era certo di averlo seppellito in qualche recesso inesplorabile, magari dentro una grotta dimenticata da Dio o rinchiuso, per sempre, in un buco della terra. Invece fermenta nel suo stesso corpo, nel suo stesso sguardo, nel suo pensiero, è lui.Cosa l’ha commosso di quel corpo pronto a esplodere che aveva trovato appeso a una corda nella baita del monte gemello? Forse le sue segrete speranze di tornare ad amare e a essere amato da una bella donna? Si sta rendendo conto che a un uomo, o quantomeno, all’uomo che lui è stato e che ora, ancora, non si è pienamente trasformato, non bastano i sussurri degli alberi che oscillano nel vento. E non bastano i canti degli uccelli all’alba e al tramonto. Non bastano i mormorii suadenti e irregolari dei ruscelli che così tanto hanno ammansito i monaci eremiti sulle montagne del mondo, nei millenni precedenti. Non basta il mondo riflesso in una goccia di rugiada. Non basta il battersi delle primavere e degli autunni, le stagioni che montano e tramontano, nel ciclo compresso delle nuove esigenze. Lui voleva qualcosa di più, qualcosa di più umano, che la compagnia indifferente delle volpi e dei lupi, dei tassi e dei castori non riusciva a fornirgli. Cibo umano, ecco di cosa sente ora un bisogno insaziabile.Immenso aveva sperato di poter imparare. Aveva sperato di poter diventare come. E aveva sperato che quelle sue suggestioni fossero abbastanza radicali da annullare ogni altro desiderio. La grande bocca che digrigna non si è spenta del tutto, in lui, ancora ogni tanto si fa sentire. E quanto si fa sentire.Cosa fare dunque? Tornare indietro e provare a rientrare nella città? Cambiare montagna, cambiare valle? O magari cercare di farsi accettare in qualche comunità intermedia, un monastero, un villaggio, una comune silvana? Ma non era meglio restare dov’era in attesa di maturare soluzioni più consapevoli? In qualche misura più sicure? E se poi una volta ritornato fra gli uomini e le donne si fosse accorto che le sue antiche insoddisfazioni erano tutte vere, ribadite, e quindi desiderasse nuovamente la fuga? E se gli fosse questa volta stata negata? Che cosa gli sarebbe dunque rimasto da fare? Vivere da schiavo una vita decisa da altri? Adattarsi al meno peggio? Ne sarebbe poi stato capace? Oppure sarebbe marcito in una prigione? Sarebbe stato costretto a strapparsi via la vita? Ne valeva la pena? Poteva davvero correre questi rischi? Aveva senso? La testa gli duole, a chiunque avrebbe causato lo stesso disagio; da anni non era stata più così piena e pesante.Si maledice per tutto questo interrogarsi sul senso delle cose. Non sarebbe bastato vivere alla giornata? Non è poi alfine questo l’obiettivo che si era prefissato chiudendo la vita di prima, abbandonando la legge della città di vetro? Forse sarebbe bastato andare ad abbattere qualche albero mezzo morto nel bosco. Fare fatica, fisica, spremersi anche le ultime forze rimaste e sfinito, ritornarsene, al primo buio, nella sua abitazione da fuggiasco. La sera avrebbe avuto così poca voglia di farsi qualcosa da mangiare che si sarebbe accontentato di una minestra di castagne tiepida o forse un paio di patate lesse. O anche meno. Si sarebbe abbandonato al sonno ristoratore e l’indomani i pessimi pensieri irrisolvibili avrebbero semplicemente taciuto. Nella sua testa. Un silenzio che è il silenzio di coloro che qui sono venuti a trascorrere l’ultima parte della propria vita. Come Zen, come la coppia di giovani corridori nudi, come Cesare.Il primo anno qui abitava un vecchio cacciatore. Una noesca barba biancheggiante serpentava giù dal mento, annodata più volte per non impigliarsi fra le mani. Cesare, così si faceva chiamare, era un cacciatore. Suo padre era un cacciatore. E suo padre era un cacciatore perché suo nonno, il padre di suo padre, era stato a sua volta un cacciatore. Generazioni di cacciatori che risalivano all’indietro i secoli sterminando selvaggina in qualsiasi bosco allungassero lo stivale. Cacciatori d’arma grossa, fucili pesanti, calibri poderosi, non si poteva mica scherzare con gente come Cesare. Quando si andava a caccia con lui si ritornava almeno con una bestia di grossa taglia. Immenso aveva visto sulle pareti della sua casupola di legno, che lui stesso si era costruito abbattendo conifere su, all’ultimo giro di alberi prima delle pietraie, la costellazione di palchi di cervo che aveva collezionato nel corso di vent’anni. Una manifestazione macabra di potenza e fede.«Cristo, sfido qualsiasi cacciatore di queste montagne a fare meglio!» bofonchiava, tirando su col naso e pippando da quella sua vetusta pipa dal grosso fornello di legno di orniello. Ci metteva dentro qualsiasi cosa, di certo non scendeva in paese a cercare trinciato di tabacco. Ora faceva macerare e poi seccare le larghe foglie a forma di cuore di una pianta che cresce intorno allo stagno. Ora invece, in inverno, metteva da parte gli aghi di larice che triturava e polverizzava assieme a schegge di corteccia. Cesare era forse l’uomo più rude che Immenso avesse mai incontrato. Eppure conosceva a memoria la sacra Bibbia. Soprattutto passi dell’Antico Testamento. I profeti, l’avventurosa storia di Giona, la Genesi. Del Nuovo Testamento amava le lettere di San Paolo. Invece dei Vangeli non parlava mai, d’altronde a quel figlio di Dio morto in croce non ci credeva nemmeno. Alzava le spalle e si riempiva la pipa aspettando il compiersi della notte. Uomo di poche parole, dunque di gran senno.Fu Cesare ad insegnargli cosa fare in caso di caccia, come conservare la carne, i gesti svelti da compiersi. «Ah ragazzo, questa che ti sei scelto non è mica una vita da signorine, qui basta un attimo e si va all’altro mondo a fare compagnia ai santi! Ci puoi scommettere quella testa che hai attaccato al collo!» gli diceva, con quel suo vociare strimpellato da castrato. Sì, la voce non corrispondeva all’attesa del corpo che si portava appresso. Non era altissimo, più o meno come lui, ma la mole, le spalle, il modo di occupare lo spazio, tutto avrebbe indicato una voce possente, minacciosa, di fondo di grotta. Invece saltava fuori una voce mezza strozzata, acuta, addirittura stridula. Forse Cesare parlava poco anche per questa ragione.Non parlava del suo passato. Era stato sposato, tutto qui quel che gli era sfuggito una volta, ma si era subito taciuto. Figli? Un lavoro? Una tragedia? Un tradimento? O peggio? Nessuno l’ha mai saputo. Una mattina Immenso e Zen andarono a cercarlo e lo trovarono seduto ai piedi del più largo castagno del bosco. Un quaranta spanne di circonferenza, circa. Il suo corpo era appoggiato al tronco, seduto. Le gambe dritte in avanti ed il fucile fra le braccia. Quel che restava di una faccia, di parte della testa, altrove. Non aveva detto ovviamente nulla. La sua vita era finita così, in un botto di rumore e polvere da sparo. Lo seppellirono ai piedi del castagno. Il suo fucile, scarico, piantato per terra e incrociato ad un ramo. Soltanto il nome inciso sulla base dell’albero monumentale.Cesare è quanto di più vicino vi sia stato a un mentore, a un parente prossimo, per Immenso, qui, fra questi boschi e queste cime. Le sue mani scivolano nelle scanalature delle lettere incise nella corteccia. Il castagno è un sopravvissuto. Lo ricorda con quell’affetto carico di sentimento che ti unisce ad un parente che hai amato molto, che hai rispettato, per la sua età, la sua saggezza, la sua sapienza. Non perché devi, perché sei stato con lui quel che forse avresti sempre voluto essere. Ci sono presenze che ti regalano questa condizione. Ci sono uomini, o donne, che ti fanno stare bene, mentre la vita la vivi, e poi dopo, quando quella stessa vita la ricordi. Non è poco affatto.Immenso si inginocchia davanti alla tomba del cacciatore. Lo ricorda, quasi lo invoca. Resta lì ad attendere un segno, reale o improvviso, inatteso, una coincidenza che gli faccia capire se deve restare e attendere oppure rimettersi in viaggio. Lo vogliono i suoi piedi farsi strada? La sua testa, i suoi occhi, il suo cuore, che cosa pensano, che cosa gli consigliano di fare? Andare o restare? Adattarsi ancora una volta a questa vita da neoeremita montagnoso o rilanciarsi in un nuovo paesaggio, in un’altra valle, su un altro sperone? O magari fare ritorno fra le voci degli uomini? Cosa deve fare? Può restare e farsi torturare dalla paura di sprecare soltanto tempo?Un lampo scintilla fra le nuvole basse che coprono le cime delle due montagne. Un alito di aria fredda si sospinge fra le piante e lo attraversano. Immenso socchiude gli occhi e resta in ascolto, di qualsiasi rumore. Un tronco che oscilla, lo schiocco di un legno, la corsa di uno zoccolo.
Ecco #DimmiLaVerità dell'8 settembre 2025. Il generale Giuseppe Santomartino ci parla dell'attentato avvenuto a Gerusalemme: «Che cosa sta succedendo in Medio Oriente? Il ruolo di Hamas e la questione Cisgiordania».