2020-10-10
Il Fondo Interbancario invitò Mincione a salvare Carige
Dalla causa dei piccoli azionisti contro l'ente che tutela i depositi (accusato di aver escluso potenziali investitori) emerge l'accordo di riservatezza con la Pop 12 del finanziere dello scandalo vaticano. I legali del Fitd: operazione sotto la regia dei commissari.Raffaele Mincione è il potente finanziere che da Londra muove sullo scacchiere italiano. Il suo nome spunta nelle cronache di operazioni bancarie. Anzi, bisognerebbe di scalata o di salvataggio. Protagonista almeno fino alla data dell'ottobre 2019, quando gli inquirenti vaticani puntano il faro sulle sue attività e sulle enormi perdite dell'Obolo di San Pietro. Le cronache dei giornali si spostano sulla Capitale inglese e sugli immobili di Sloane avenue e insistono sui rapporti con la segreteria di Stato, tanto che i telefoni del finanziere vengono requisiti dai Promotori di giustizia vaticani. Eppure, una delle città simbolo di queste relazioni non è né Roma né Londra, ma Genova. Come ha scritto anche l'Osservatore Romano i fondi dell'Obolo finiti nella gestione Mincione sarebbero stati investiti in Carige. Nonostante il mandato originario opzionasse la casella attività non speculative. Immaginare il ruolo di Mincione come perno di Carige non è certo una ricostruzione infondata. Tanto che, al di là dell'origine dei fondi, a pensare di legare il nome del finanziere a quello della banca sono state addirittura figure apicali. E non ci riferiamo agli amministratori delegati ma ai commissari nominati da Bankitalia in accoppiata con il Fondo interbancario di tutela dei depositi e lo Schema volontario di Intervento (Svi), consorzi privati ma supervisionati da Bankitalia con lo scopo di tutelare i risparmi degli italiani. Tra giugno e luglio del 2019 lo Svi sottoscrive con Pop 12, la società lussemburghese riconducibile a Mincione, un accordo di riservatezza per valutare «l'opportunità di prendere parte all'intervento» di rafforzamento patrimoniale. «In tale contesto le parti hanno condiviso l'opportunità di avviare un'interlocuzione per lo scambio di informazioni», compreso «il piano industriale della banca», si legge nell'accordo. In quello stesso periodo lo Svi firmava accordi paritetici con la Fondazione Cassa di risparmio di Lucca (che aveva 1,1% delle azioni), Fondazione Banca del Monte di Lucca (0,1% delle azioni), Family Office Sim. Delle quattro contattate Pop 12 è quella con il maggior numero di azioni (4,6%) e dunque a logica sarebbe stata destinata a essere l'elemento trainante del gruppetto destinato a supportare l'intervento del Fondo. Era certo interesse dei commissari allargare il più possibile il dialogo con le parti per trovare sostenitori dell'aumento o al limite soci neutri disposti a non mettersi di traverso.Il documento è agli atti al tribunale di Genova all'interno di una vicenda molto complessa che vede contrapposti i piccoli azionisti e appunto il fondo destinato a salvare i risparmi dei correntisti italiani accusato di aver escluso Apollo global management dal progetto di salvataggio culminato con l'assemblea del 20 settembre. Nel rispondere alle accuse, lo Svi di fatto svela quali siano stati i movimenti preparatori all'assemblea e aggiunge che «il confronto tra le parti volto a delineare la struttura e i termini e le condizioni dell'operazione di salvataggio è stato portato avanti sotto la regia dei commissari». In quest'ottica, si legge negli atti, «sin dal principio i commissari hanno coinvolto lo Svi nelle interlocuzioni di cui essi si erano fatti promotori con soci e investitori», aggiungendo che invece i contatti con Malacalza investimenti «non hanno mai neppure preso avvio, in quanto quest'ultima si è rifiutata di firmare l'accordo di riservatezza». Salvo spiegare in una nota che la famiglia genovese chiedeva di ricevere il set informativo prima di prendere impegni. Fatto sta che a settembre i Malacalza si sfilano dall'operazione, ma non bloccano l'aumento di capitale, come era avvenuto nella precedente assemblea. A quel punto la ricapitalizzazione viene distribuita per 312,2 milioni allo Schema volontario (con conversione dei bond sottoscritti a novembre 2018), per 63 alla Cassa centrale banca, per 85 milioni in opzione ai soci e per circa 238 al fondo interbancario. Nel complesso più di 600 milioni che però sono durati poco. Già il bilancio chiuso al 31 dicembre 2019 si dimostra un bagno di sangue. Circa la metà dell'aumento di capitale viene perso per strada. Forse per questo motivo in occasione dell'assemblea del 20 settembre Mincione dichiara al Sole 24 Ore di voler votare sì all'operazione ma di non aderire all'aumento di capitale. Eppure il fondo sembrava crederci almeno fino a poco prima della pausa estiva. Stessa posizione per i commissari Pietro Modiano, Fabio Innocenzi e Raffaele Lener? Oppure, a logica, il loro era solo un tentativo di allargare il più possibile la platea per portare a casa il maggior numero di voti favorevoli al piano di rilancio. D'altronde, Mincione, meno di un anno prima e subito dopo aver reso pubblico il suo ingresso in banca, si era dato da fare per avere un ruolo decisionale. Aveva sollevato caos mediatico. Tanto da dichiarare apertamente sulle colonne del Secolo XIX di essere stato lui «a scegliere come socio la Cassa di Trento, Ccb». Lanciando un assist a Giulio Gallazzi, fondatore di Sri group e già consigliere di Carige, il quale nelle ore successive spiegava che le casse trentine avevano il diritto di comprare, ma che se non lo avessero fatto sarebbe subentrato qualcun altro. Non sappiamo se il riferimento fosse a Mincione, visto il livello di conoscenza tra loro, o ad altri investitori. Quelle ore sono decisive per cambiare lo scenario e spetterà anche ai giudici che hanno in mano la causa dei piccoli azionisti valutare se il Fondo interbancario e lo Svi potessero agire diversamente per evitare la dissoluzione di valore.