2022-07-28
Il dossier scottante: «Pechino infiltra le sue spie alla Fed». E su Taiwan è crisi
Report del Senato svela pressioni su funzionari per avere dritte sui tassi. La visita della Pelosi rovina i piani di dialogo di Biden.Il governo cinese si è infiltrato nella Federal Reserve a partire (almeno) dal 2013. A lanciare l’allarme è un rapporto, redatto dai componenti repubblicani della commissione per la Sicurezza interna del Senato degli Stati Uniti. In particolare, il dossier enumera varie modalità attraverso cui il regime di Pechino ha condotto attività di penetrazione nella banca centrale americana. L’indagine ha innanzitutto scoperto che svariati dipendenti della Fed intrattengono «stretti legami» con la People’s Bank of China, oltre che con numerose istituzioni universitarie cinesi (come la Wuhan University e la Tsinghua University). Il rapporto ha inoltre messo in evidenza come almeno un dipendente della banca centrale americana «abbia interagito direttamente» con Xinhua: agenzia di stampa, controllata dal governo di Pechino e che - secondo il report - svolge anche attività di intelligence. Ma si registrano elementi ancora più gravi. Le autorità della Repubblica popolare hanno arrestato un impiegato della Fed quattro volte, mentre quest’ultimo si trovava in viaggio a Shanghai nel 2019: in particolare, i funzionari cinesi hanno minacciato ritorsioni sulla sua famiglia, se costui non avesse collaborato con il regime. Il rapporto enumera inoltre alcuni casi di dipendenti della Fed che, in possesso di informazioni sensibili, hanno cercato di trasferire dati ad entità collegate al governo cinese. Governo cinese che pare fosse particolarmente interessato a conoscere le intenzioni degli ultimi tre governatori della banca centrale americana in materia di aumento dei tassi d’interesse. Infine, il documento parla esplicitamente di «tentativi di spionaggio», che potrebbero essere stati condotti dalla Repubblica popolare attraverso personale interno alla Fed. Tutto questo è assolutamente inquietante: è infatti facile immaginare il vantaggio politico e commerciale che Pechino potrebbe aver conseguito grazie a informazioni riservate trapelate dalla Federal Reserve. Sia il governatore della banca centrale, Jerome Powell, sia Pechino hanno criticato il rapporto dei repubblicani. Tuttavia le attività d’infiltrazione in esso descritte appaiono in linea con la condotta che la Repubblica popolare porta da tempo avanti in vari settori del mondo occidentale: dalle grandi imprese alle startup, passando per il mondo dei media e l’ambito accademico (pensiamo al preoccupante peso degli Istituti Confucio nelle università americane ed europee). Si tratta di una minaccia che incombe tra l’altro anche sul nostro Paese, come La Verità ha più volte segnalato negli ultimi mesi. L’ironia risiede nel fatto che Pechino denunci ripetutamente delle interferenze occidentali su dossier come Hong Kong e Taiwan, quando è la prima a cercare di intromettersi in settori e istituzioni sensibili del blocco euroatlantico. E proprio il dossier taiwanese è al centro di nuove tensioni. Ieri, il ministero degli Esteri cinese ha minacciato «conseguenze», se Nancy Pelosi darà seguito alla sua intenzione (per ora non confermata) di recarsi sull’isola nelle prossime settimane. Alcuni giorni fa, la Casa Bianca ha mostrato una certa irritazione verso l’eventuale visita della speaker della Camera non solo per motivi di sicurezza (il Pentagono ricorrerà all’uso di jet da combattimento come scorta, qualora il viaggio avvenga) ma anche politici (Joe Biden dovrebbe avere oggi un colloquio da remoto con Xi Jinping e la sua amministrazione sta considerando di revocare alcuni dei dazi che Donald Trump aveva imposto a Pechino). Ora, questa mezza diatriba «in mondovisione» (e tutta interna al Partito democratico americano) rischia di minare la capacità di deterrenza degli Usa nei confronti della Cina e tradisce, se vogliamo, un’eccessiva morbidezza da parte di Biden verso il Dragone (che ha ripreso a mettere sotto pressione militarmente Taipei dopo la crisi afgana di agosto). Buon senso avrebbe voluto che il presidente e la speaker avessero elaborato a porte chiuse una linea comune, evitando dannose divergenze coram populo. Dall’altra parte, le accuse di interferenza lanciate dai cinesi sono grottesche. Non solo, come abbiamo visto, la Repubblica popolare interferisce in Occidente dal punto di vista economico ed accademico, sfruttando inoltre la leva del debito per acquisire influenza in Africa (nonostante la retorica terzomondista). Ma va anche sottolineato che Taiwan non è una «questione interna», come la definisce Pechino. La Repubblica di Cina, il cui governo ha sede a Taipei, non ha infatti mai riconosciuto la Repubblica popolare cinese, istituita da Mao Zedong nel 1949, dopo la guerra civile che vide contrapposti nazionalisti e comunisti. Tra l’altro, ricordiamo che la tensione sta aumentando, anche in considerazione del fatto che Taiwan è tra i principali produttori al mondo di microchip. Un elemento decisivo, in una fase storica in cui Usa e Cina stanno cercando di diminuire la loro reciproca dipendenza nel campo dell’alta tecnologia.