2022-05-15
Il secondo lavoro dei magistrati: controllori che non controllano
Dismessa la toga, molti trovano incarichi ben retribuiti per dare una patente di correttezza a concorsi o atti. Ma uno scandalo scoppiato a Genova mette in discussione il loro operato. E non è l’unico caso.Mentre nelle grandi aziende pubbliche e private vengono ingaggiati ex ufficiali delle forze dell’ordine, all’interno delle istituzioni italiane la nomina di magistrati o ex magistrati a garanzia della legalità è ormai diventata una moda. Ultimo caso in ordine di tempo è quello dell’ex capo della Procura di Milano, Francesco Greco, nominato dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri consulente per l’anticorruzione. Greco raccoglie idealmente il testimone lasciato da Alfonso Sabella, che l’ex sindaco Ignazio Marino nominò assessore alle Legalità dopo che l’inchiesta sul «mondo di mezzo» aveva travolto l’immagine della sua amministrazione. Di lui si ricordano gli annunci tipo «entro l’estate del 2016 il lungomuro di Ostia non ci sarà più». Oppure il suo suv in sosta vietata che l’assessore aveva giustificato come un qualsiasi cittadino indisciplinato: «Ieri mattina giunto al lavoro e con l’agenda piena di impegni, non ho trovato un parcheggio regolare e l’ho lasciata lì, ripromettendomi di tornare subito a spostarla, senza purtroppo successivamente riuscirci».Nel 2014 il sindaco di Firenze Dario Nardella aveva affidato la sicurezza del capoluogo toscano all’ex procuratore capo fiorentino Giuseppe Quattrocchi. In Lombardia, durante la presidenza del leghista Roberto Maroni a capo dell’Arac, l’anticorruzione regionale era stato nominato l’ex magistrato Francesco Dettori, che però nel 2017 aveva sbattuto la porta. All’anticorruzione nazionale (Anac) è invece approdato nel 2016 a presiedere il comitato dei garanti Edmondo Bruti Liberati, fresco di pensionamento dalla magistratura. Ma anche le università ricorrono a ex magistrati. Ad esempio, attualmente il ruolo di garante dell’ateneo genovese è ricoperto, per il quadriennio 2021-2025, dall’ex procuratore del capoluogo ligure Francesco Cozzi. Eppure, visto che a gennaio 2022 uno dei pm genovesi, Francesco Cardona Albini, firma una richiesta (pendente davanti al Gip) di misure cautelari, per otto indagati per la concorsopoli interna all’ateneo della città della Lanterna, sembra che il suo arrivo non avesse intimorito gli indagati, visto che la motivazione delle esigenze cautelari, è quella del pericolo di reiterazione del reato. Le prime intercettazioni citate nell’atto risalgono al 2020, per poi portare alle iscrizioni sul registro degli indagati negli ultimi mesi in cui Cozzi era ai vertici della Procura. Ricapitolando, a novembre l’ex procuratore prende servizio all’università sulla quale gli uffici giudiziari da lui diretti fino a giugno 2021 stavano indagando, prendendo il posto di un altro ex collega, Michele Di Lecce, suo predecessore anche ai vertici della Procura. Di Lecce, che nel 2018 era stato anche nominato (dal sindaco di Genova Marco Bucci) responsabile dell’anticorruzione per la ricostruzione del ponte Morandi, dall’università percepiva 6.480 euro lordi l’anno. Ed è a lui, nella sua qualità di garante dell’ateneo, che nel 2019 si rivolge un professore, F. T., che contesta la «mancata pubblicazione dei nominativi di coloro che avevano chiesto di partecipare alla “procedura pubblica di selezione finalizzata al reclutamento di un ricercatore a tempo determinato” presso il Dipartimento di Giurisprudenza». Nella sua risposta, che Di Lecce riporta anche in una «relazione agli organi di governo» sulla sua attività, comunica di aver chiuso il procedimento «osservando però che resta comunque difficile comprendere le ragioni per le quali si scelse di non comunicare ai commissari fin dall’inizio dei lavori della Commissione i nominativi di coloro che avevano chiesto di partecipare alla “procedura pubblica di selezione” sopra indicata». Tra le contestazioni mosse dalla Procura ad alcuni indagati, che emergono dalla richiesta di arresto, c’è proprio quella di essersi attivati «in violazione […] del Regolamento dell’Università per il conferimento degli assegni di ricerca, per conoscere i nominativi e curricula dei partecipanti al bando prima della riunione della commissione per la predeterminazione dei criteri di valutazione (…), apprendendo della presenza di tre domande di partecipazione al bando ed ottenendo infine […] in violazione del segreto d’ufficio, l’accesso alla piattaforma contenente i nominativi dei partecipanti».Ma c’è una vicenda in particolare dell’inchiesta genovese, alla quale nella richiesta di misure cautelari viene dedicato un intero capitoletto, emersa da alcune intercettazioni, che avrebbe portato alla scoperta di un intreccio di rapporti tra la presidente della commissione di un concorso, L. T., ordinario all’università, e il padre del ragazzo che è risultato vincitore, P. C., anche lui professore. Da una telefonata in particolare, «oltre ai già menzionati legami didattici e scientifici», scrivono i magistrati, «è emersa una relazione sentimentale tra i due docenti». Ma è saltato fuori anche che la donna sperava di sbarcare al dicastero della Giustizia, forse nello staff del ministro Marta Cartabia. Sembra senza successo. Almeno fino al 2 marzo 2021, giorno della telefonata intercettata. L. T. si lamenta con il prof amico. E gli riporta il contenuto di una conversazione: «”Eh, allora, la Cartabia non t’ha chiamata?”... e io ho detto “no, guarda, questa cosa della Cartabia veramente me la dovete spiegare, perché io, eh... non l’ho più sentita”. “Eh, ma come no? Ma cosa mi dici? Io nel messaggio avevo detto che dovevamo velocizzare i lavori pensando che tu fossi impegnata, allora a ‘sto punto prendiamocela con calma”. Ho detto “Guarda, vedi tu, io la Cartabia non l’ho mai più vista, mai... mai più sentita, quindi poi per i lavori grazie, ti ringrazio del pensiero visto che avevi detto di velocizzare, io sto finendo e... però vedi tu per il meglio, ecco». Il prof le consiglia: «Ma tu a questo punto dovresti mandare un messaggio dicendo “cara professoressa, come si trova nelle mansioni?”». E lei: «Io ieri le ho mandato un messaggio... e ho detto semplicemente... le ho detto... “cara prof, so che... immagino che sia un incarico molto duro, comunque le rinnovo la mia disponibilità , se ci fosse bisogno...”. Dopodiché so già che non mi risponderà». Il prof ha un sospetto: «Qualcuno le parla male...». Della loro relazione che il prof definisce «clandestina», aggiungendo: «Poi viene fuori sui giornali».
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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