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2019-09-26
200.000 euro al comitato Sì
a fondo perduto. Vacilla la difesa di Bianchi
Ansa
Se è vero che i soldi non hanno colore, è altrettanto vero che non hanno sempre lo stesso peso. Nell'inchiesta di Firenze, in cui è indagato per traffico d'influenze illecite l'avvocato Alberto Bianchi, le impronte che lascia il denaro su conti correnti e bilanci sono il filo d'Arianna che gli inquirenti stanno seguendo per individuare le labili frontiere tra politica e affari, tra prestazioni professionali e lobbying. Si sa che Bianchi, presidente della fondazione Open, la cassaforte di Matteo Renzi chiusa un anno fa, ha ottenuto per un incarico legale - relativo a una complessa transazione di 75 milioni di euro con Autostrade - una parcella di 2 milioni di euro dal gruppo Toto Costruzioni. Due terzi di questa cifra sono rimasti nella disponibilità dello studio associato mentre un terzo è stato trattenuto dall'avvocato stesso. Parliamo di circa 750.000 euro lordi, ovvero 400.000 netti. Somma che è stata ulteriormente «spacchettata» in due mosse. Duecentomila euro sono stati versati, da Bianchi, alla fondazione Open, in crisi finanziaria, e da questa successivamente restituiti quasi del tutto (190.000 euro sono tornati indietro un anno dopo). L'altra metà è stata invece bonificata sui conti del Comitato nazionale per il Sì al referendum del dicembre 2016, e - a quanto si sa - non più resa. E sono proprio questi ultimi i denari che maggiormente stanno incuriosendo gli investigatori, per un motivo molto semplice. Bianchi, per sua stessa ammissione, da presidente della fondazione sarebbe stato chiamato a rispondere di eventuali situazioni debitorie e, quindi, aveva tutto l'interesse a neutralizzare questo rischio. Che lo abbia fatto anticipando personalmente la cifra è il motivo di approfondimento investigativo di queste ore, soprattutto riguardo alla compatibilità, con lo statuto della fondazione, di questa operazione dare-avere. Nel secondo caso, i soldi sono stati invece versati a «titolo personale» nelle casse di un comitato che non solo aveva concluso la propria missione ma che, soprattutto, aveva una struttura molto meno rigida di Open riguardo a responsabilità civili nei confronti di terzi creditori. In una interrogazione parlamentare del 2016, infatti, Sinistra italiana già sollevava dubbi sulla eccessiva elasticità di cui godeva la gioiosa macchina da guerra renziana: «Le attuali normative non prevedono alcuna forma di rendiconto delle spese e dei finanziamenti da parte del Comitato nazionale basta un Sì, né tantomeno alcuna forma di controllo e di verifica, come invece previsto per le spese elettorali dei partiti e dei movimenti politici». La domanda, quindi, è una: perché, a un certo punto, l'avvocato Bianchi ha deciso di sacrificare, dai propri profitti personali, ben 200.000 euro per una causa persa come quella del referendum 2016?
All'epoca, il tesoriere del Comitato era il commercialista fiorentino Lorenzo Anichini. Contattato dal nostro giornale, ha preferito non rilasciare dichiarazioni al riguardo, limitandosi solo a chiarire che i promessi 500.000 euro di finanziamento pubblico, che il Comitato avrebbe dovuto ricevere per le spese referendarie, «non sono mai stati incassati». In quei mesi si parlò addirittura di una trattativa tra il Comitato e la ex Cassa di risparmio di Firenze per ottenere una linea di credito per la campagna referendaria. Nel consiglio di amministrazione della Cr sedeva Marco Carrai, imprenditore fedelissimo di Matteo Renzi, mentre nel consiglio d'indirizzo c'era proprio Alberto Bianchi.
Anichini è uno dei petali minori del Giglio magico, ma non per questo è meno importante. Attualmente ricopre ben 18 incarichi - come sindaco o supplente - in altrettante società. È presidente del collegio sindacale della Stazione Leopolda, la società a responsabilità limitata che gestisce l'area fiere diventata famosa per i meeting renziani. Stessa posizione è quella in Gse spa (Gestore dei servizi energetici, una controllata del ministero dell'Economia): Anichini è stato nominato nel luglio 2017 e resterà in carica per tre anni.
Il commercialista toscano è inoltre sindaco della Centrale del latte della Toscana spa, in cui nel 2004 trovò spazio come consigliere di amministrazione pure Andrea Bacci, amico di famiglia dei Renzi e ristrutturatore della villa di Matteo a Pontassieve. Anichini fa parte del collegio sindacale pure di Bat (British American Tobacco) con scadenza del mandato fissata al 31 dicembre 2019. La multinazionale Usa delle sigarette è un nome ricorrente nelle vicende renziane. Ha finanziato con 110.000 euro la fondazione Open, di cui Bianchi era presidente, e ha apertamente sostenuto il corso dell'allora premier rottamatore. Il quale, nell'ottobre 2014, torcendo un po' il protocollo, andò a inaugurare lo stabilimento bolognese della Philip Morris in cui venivano prodotte le sigarette di nuova generazione che, a quei tempi, beneficiarono di uno sconto del 50% sulle accise nella versione finale del decreto di riforma del comparto. Pochi mesi prima, Renzi aveva pure incontrato a Roma il gran capo dell'azienda a stelle e strisce, Nicandro Durante. Erano i giorni del renzismo d'assalto assai lontani da quelli odierni del renzismo sott'assedio.
Toto non trattava solo col Pd. Anche il Movimento 5 stelle ha consolidato il suo potere
Non solo Pd. Di «grazie», per il gruppo Toto, ne sono arrivate anche dai 5 stelle. La Verità, in questi giorni, ha ricostruito la vicenda del contenzioso tra Strada dei parchi, gestore delle arterie abruzzesi A24 e A25 e l'Anas, sulle rate del corrispettivo del prezzo della concessione non corrisposte dalla società dei Toto all'ente statale. Nella diatriba era intervenuto, nel 2017, il governo Gentiloni, che aveva sospeso l'obbligo di pagamento purché quel denaro fosse impiegato da Strada dei parchi per i lavori di messa in sicurezza dell'infrastruttura. Il denaro doveva essere poi restituito in tre rate negli anni 2028, 2029 e 2030. Nel luglio scorso, su sollecitazione del tribunale di Roma, che aveva sollevato un dubbio di costituzionalità proprio sull'articolo 52 quinquies del del 50/2017, è intervenuta la Consulta, che si è pronunciata su un altro aspetto della controversia: i Toto ritenevano di essere creditori del Mit e non di Anas, ma la Consulta, confermando questo aspetto della legge approvata dal governo Gentiloni, ha dato loro torto. L'odissea delle rate Anas, però, non è finita. A questo punto, anzi, la holding abruzzese potrebbe ricevere un altro aiuto dalla politica.
Nell'accordo stipulato ad agosto tra Strada dei parchi e ministero delle Infrastrutture, relativo all'approvazione del nuovo piano economico e finanziario, sollecitata da una sentenza del Consiglio di Stato, si prefigura la possibilità di stornare le rate degli anni 2017, 2018 e 2019, ipoteticamente destinate ad Anas e ora bloccate su un conto da circa 178 milioni di euro, per consentire al gestore delle autostrade di coprire, con quel denaro, i 70 milioni di buco di bilancio derivanti dai mancati incrementi dei pedaggi, nonché per scongiurare ulteriori aumenti da dopo il 30 novembre prossimo. Difatti, è fino a quella data che Strada dei parchi, con il Mit, si è impegnata a mantenere le tariffe attuali ai caselli di A24 e A25.
A onor del vero, bisogna sottolineare che l'idea di destinare a tale scopo le rate spettanti all'Anas era stata caldeggiata anche dal presidente della Regione Abruzzo ed ex senatore di Fratelli d'Italia, Marco Marsilio. Anche se il «diritto d'autore» sulla trovata spetta all'ex presidente del Pd, Luciano D'Alfonso, che nel 2016 ventilò l'ipotesi di congelare il versamento dei 55 milioni l'anno - che però, a differenza di quello che riteneva D'Alfonso, non erano il canone, bensì la rateizzazione del prezzo di vendita della concessione. Ma non finisce qui. Sbloccando l'iter per l'approvazione del Pef, il ministero che fino a quest'estate era retto da Danilo Toninelli ha accettato anche di prorogare la concessione autostradale di 10 anni, dal 2030 al 2040. Non proprio quello che sperava Carlo Toto quando, lanciando un progetto di varianti sul tracciato per oltre 5 miliardi, propose al Mit di Graziano Delrio una proroga di 45 anni, ma è già qualcosa...
Eppure, tra Strada dei parchi e Toninelli, l'anno scorso, era cominciato un braccio di ferro durante il quale il grillino era arrivato a minacciare la revoca della concessione. Una parabola incredibile: dalla paventata rescissione del contratto con i Toto alla proroga decennale. Dalle polemiche sui fondi ministeriali per la messa in sicurezza dei viadotti, all'approvazione di un maxi piano di lavori da 3,1 miliardi, di cui 2 a carico dello Stato.
Nel frattempo, la scorsa primavera, a trattative per il salvataggio di Alitalia in corso, era stato Luigi Di Maio, all'epoca ministro dello Sviluppo economico, a tirare fuori dal cappello il nome del gruppo Toto. La società si era dichiarata disposta a mettere sul piatto una cifra tra i 300 e i 400 milioni, per aggiudicarsi il 30% delle quote del capitale della compagnia, completando la cordata composta dall'americana Delta, da Ferrovie dello Stato e dal ministero del Tesoro. La mossa, però, aveva suscitato diverse riserve, anzitutto da parte di Fs, gemella di Anas. Scettica anche Delta. A pesare sui giudizi dei potenziali partner c'erano i trascorsi di Carlo Toto con Air One e Alitalia (cui l'imprenditore abruzzese aveva venduto la propria compagnia, trasferendo 600 milioni di debiti), quelli del figlio Riccardo, già patron di Air One, con la Livingstone, compagnia da lui rilevata ma fallita pochi anni dopo, oltre che l'esposizione finanziaria della holding, che secondo il bilancio 2016 ammontava a un miliardo e 128 milioni. È possibile che il coinvolgimento dei Toto servisse a Di Maio per prendere tempo e fare pressione sui partner già interessati all'affare Alitalia, inducendoli a chiudere l'accordo. Parallelamente al dialogo con l'ex titolare del Mise, oggi alla Farnesina, i Toto erano coinvolti nell'alterco con Toninelli. Un ministro giunto dal pungo alla carezza. In fondo, che i canali di comunicazione con la politica, per la dinastia chietina, siano molteplici, lo mostra una curiosa circostanza: mentre il capostipite Carlo è stato testimone di nozze dell'ex governatore abruzzese del Pd, Luciano D'Alfonso (dai Toto definito «uno di famiglia»), il figlio Alfonso, immortalato nel 2015 all'inaugurazione della variante di valico sull'A1 con Matteo Renzi, lo è stato dello sposo di Sara Marcozzi, candidata alle ultime regionali con il Movimento 5 stelle. E acerrima nemica di D'Alfonso.
Jet privato e vacanze per D’Alfonso il renziano che dominava l’Abruzzo
L'inchiesta di Firenze sta esaminando i collegamenti professionali e commerciali fra il gruppo Toto e il Giglio magico. La dinastia di imprenditori abruzzesi è usa a dimostrare una certa generosità verso la politica. A cominciare da quella abruzzese, come si evince dalle inchieste che sviscerarono i legami dei Toto con l'ex sindaco di Pescara, ex governatore e oggi senatore dem, il «sempre assolto» (in dieci processi) Luciano D'Alfonso, massimo esponente del renzismo in Regione: basti dire che, lo scorso marzo, a invitare Matteo Renzi a presentare il suo libro nella sala comunale del capoluogo adriatico, era stato proprio D'Alfonso.
Nonostante egli sostenga di non aver mai organizzato incontri privati tra Renzi, Luca Lotti e i Toto, ma di aver presenziato solo a eventi istituzionali, con La Verità D'Alfonso ha ricordato di essersi ritrovato proprio con Renzi e l'ad di Strada dei parchi (società dei Toto) per una consumazione «francescana, ma forse anche costosa», durante una visita ai laboratori del Gran Sasso. I rapporti dei Toto con il «sempre assolto» renziano (che però non ha seguito il Bullo in Italia viva) sono tanto cristallini che se Mario Toto, fratello del capostipite Carlo, davanti ai magistrati lo definì «uno di famiglia», il secondo addirittura si descrisse come loro «damo di compagnia». Quei legami sono stati alla base di alcuni procedimenti giudiziari che hanno coinvolto gli imprenditori e l'ex sindaco pescarese. Ad esempio, l'inchiesta Housework, che portò, nel 2008, agli arresti domiciliari di D'Alfonso. L'accusa, sostenuta dal pm Gennaro Varone, ipotizzava che Carlo Toto e il figlio Alfonso (più un'altra ventina di imprenditori) avessero elargito favori al primo cittadino per garantirsi gli appalti del Comune. Allora finirono agli atti i doni dei Toto a D'Alfonso e famiglia. Il Fatto Quotidiano, per questo accusato dall'ex governatore di una «lettura pornografica» del processo, le aveva elencate tutte: un jet privato Falcon 20 per le tratte Pescara-Malta, Malta-Venezia e Venezia-Pescara; un motoscafo taxi; un soggiorno a Santiago de Compostela, trascorso insieme dalle due famiglie ma pagato dai Toto; biglietti Roma-Chicago per cognato e sorella di D'Alfonso, 10.786 euro; biglietti Roma-Istanbul, dieci voli privati nel 2006, altri due a Spalato nel 2005 e nel 2008, uno a Zagabria, uno a Belgrado. E ancora: cene elettorali per 10.800 euro, «pranzo di lavoro di un'associazione facente capo a D'Alfonso per 924 euro in un hotel di Roma», uno stipendio mensile da 1.500 euro a «Fabrizio Paolini (borsista al Comune di Pescara nel 2005 e, di fatto, autista e coadiutore del sindaco)», oltre a un «rimborso spese carburante e facoltà d'uso di una Alfa Romeo 166» tra il 2004 e il 2007. Il tutto, sempre secondo l'accusa, per aggiudicarsi, quali unici concorrenti, il bando per la realizzazione e gestione dei parcheggi a pagamento nell'area di risulta dell'ex ferrovia di Pescara (appalto in seguito revocato). La tesi del pm Varone era chiara: nel suo ricorso dopo l'assoluzione in primo grado del 2013, riportato dal sito I due punti, si legge che i Toto sarebbero stati «a completa disposizione di D'Alfonso per ogni sua esigenza economica. D'Alfonso disponeva della cassaforte dei Toto». Tanto che l'allora sindaco del capoluogo adriatico, rilevò l'accusa, prelevava poco denaro dal suo conto. La difesa replicava che D'Alfonso, per le spese familiari, si sarebbe fatto aiutare dalla zia, dai suoceri e dai genitori. Nella sentenza di assoluzione bis per gli imputati, risalente al 2015, i giudici d'Appello notarono che «non è per nulla eccezionale e inverosimile, nella nostra realtà socioeconomica, ancora caratterizzata da modelli familiari tradizionali, che familiari si mobilitino in favore di un congiunto e lo sostengano economicamente». I magistrati smontarono anche l'ipotesi di corruzione: «Nulla dimostra che le elargizioni dei Toto siano in controprestazione di provvedimenti amministrativi riferibili alla volontà di D'Alfonso». Insomma, non si poteva provare che vacanze, biglietti aerei, jet privati e motoscafi avessero comprato i favori dell'ex sindaco. Ormai era acclarato che il «damo di compagnia» fosse «uno di famiglia» (tant'è che Carlo Toto gli fece da testimone di nozze), però i giudici d'Appello ritennero che «il rapporto amicale» fosse «già esistente quando D'Alfonso non era sindaco», che in quella generosità non ci fosse malizia e che, anzi, essa perdurasse anche «quando il Comune di Pescara assumeva decisioni contrarie ai loro interessi». Nel mirino dei pm finì pure la vicenda della mancata realizzazione della Mare-Monti, la statale 81, quando D'Alfonso era presidente della provincia di Pescara. Secondo l'accusa, la Toto spa avrebbe ottenuto dal politico il via libera, senza le dovute autorizzazioni, a «una variante predisposta dall'impresa medesima idonea a stravolgere l'originario progetto […], peraltro portando il tracciato a invadere i confini della riserva del lago di Penne», come si legge nell'ordinanza di custodia cautelare del 2008 del gip di Pescara. Nel 2017, il tribunale ha dichiarato prescritti i reati. Ma D'Alfonso ha rinunciato alla prescrizione, venendo assolto per non aver commesso il fatto nel 2018.
Alcuni scambi di carinerie tra i Toto e l'ex governatore abruzzese sono rimasti fuori dalle aule di tribunale. Da presidente della Regione, D'Alfonso è stato un grande propugnatore del progetto di Strada dei parchi per realizzare tunnel e varianti su A24 e A25: un cantiere da 5,7 miliardi di euro, in parte da finanziare grazie ai fondi Ue, in parte ripagati grazie a un indotto da 10.000 posti di lavoro, che i gestori delle autostrade promettevano in cambio del prolungamento della concessione di 45 anni rispetto alla scadenza del 2030. Con una delibera, la 325 del 2015, la Regione dichiarava persino di aver preso atto che «la messa in sicurezza della A24 e della A25 comporta la necessità di varianti di tracciato». In pratica, la Giunta D'Alfonso affermava che l'antisismicità delle infrastrutture dipendeva dal recepimento del progetto dei Toto. Peccato non la pensasse così il Mit guidato, allora, da Graziano Delrio, che bocciò il progetto.
Ultima chicca. In questi giorni, La Verità ha approfondito la questione del contenzioso tra Strada dei parchi e Anas. Prima di entrare in politica e mettersi in aspettativa, D'Alfonso lavorava proprio presso quell'ente statale. Da governatore abruzzese, per scongiurare gli aumenti dei pedaggi su A24 e A25, D'Alfonso proponeva ad Anas, cioè al suo datore di lavoro, di rinunciare alle famose rate del corrispettivo del prezzo della concessione che Strada dei parchi avrebbe dovuto versare. Esattamente la soluzione individuata dall'emendamento alla manovrina del 2017, che sospese il pagamento dei 121 milioni purché fossero usati dal concessionario per i lavori di adeguamento sismico. Ovviamente, una coincidenza.
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L'avvocato, dopo aver incassato dal gruppo Toto una ricca parcella da 2 milioni, elargì 200.000 euro alla fondazione Open e altrettanti alla struttura che sosteneva la battaglia referendaria di Matteo Renzi. Questi ultimi sono stati versati a fondo perduto.Con Danilo Toninelli alle infrastrutture, Strada dei parchi si è vista prolungare di 10 anni la concessione autostradale e ha ottenuto 2 miliardi per i lavori di messa in sicurezza.L'ex presidente della Regione Abruzzo, Luciano D'Alfonso, è stato processato, assieme a Carlo Toto, con l'accusa di aver ricevuto doni in cambio di appalti. In aula si giustificò definendosi «damo di compagnia» del magnate della A24.Lo speciale contiene tre articoli. Se è vero che i soldi non hanno colore, è altrettanto vero che non hanno sempre lo stesso peso. Nell'inchiesta di Firenze, in cui è indagato per traffico d'influenze illecite l'avvocato Alberto Bianchi, le impronte che lascia il denaro su conti correnti e bilanci sono il filo d'Arianna che gli inquirenti stanno seguendo per individuare le labili frontiere tra politica e affari, tra prestazioni professionali e lobbying. Si sa che Bianchi, presidente della fondazione Open, la cassaforte di Matteo Renzi chiusa un anno fa, ha ottenuto per un incarico legale - relativo a una complessa transazione di 75 milioni di euro con Autostrade - una parcella di 2 milioni di euro dal gruppo Toto Costruzioni. Due terzi di questa cifra sono rimasti nella disponibilità dello studio associato mentre un terzo è stato trattenuto dall'avvocato stesso. Parliamo di circa 750.000 euro lordi, ovvero 400.000 netti. Somma che è stata ulteriormente «spacchettata» in due mosse. Duecentomila euro sono stati versati, da Bianchi, alla fondazione Open, in crisi finanziaria, e da questa successivamente restituiti quasi del tutto (190.000 euro sono tornati indietro un anno dopo). L'altra metà è stata invece bonificata sui conti del Comitato nazionale per il Sì al referendum del dicembre 2016, e - a quanto si sa - non più resa. E sono proprio questi ultimi i denari che maggiormente stanno incuriosendo gli investigatori, per un motivo molto semplice. Bianchi, per sua stessa ammissione, da presidente della fondazione sarebbe stato chiamato a rispondere di eventuali situazioni debitorie e, quindi, aveva tutto l'interesse a neutralizzare questo rischio. Che lo abbia fatto anticipando personalmente la cifra è il motivo di approfondimento investigativo di queste ore, soprattutto riguardo alla compatibilità, con lo statuto della fondazione, di questa operazione dare-avere. Nel secondo caso, i soldi sono stati invece versati a «titolo personale» nelle casse di un comitato che non solo aveva concluso la propria missione ma che, soprattutto, aveva una struttura molto meno rigida di Open riguardo a responsabilità civili nei confronti di terzi creditori. In una interrogazione parlamentare del 2016, infatti, Sinistra italiana già sollevava dubbi sulla eccessiva elasticità di cui godeva la gioiosa macchina da guerra renziana: «Le attuali normative non prevedono alcuna forma di rendiconto delle spese e dei finanziamenti da parte del Comitato nazionale basta un Sì, né tantomeno alcuna forma di controllo e di verifica, come invece previsto per le spese elettorali dei partiti e dei movimenti politici». La domanda, quindi, è una: perché, a un certo punto, l'avvocato Bianchi ha deciso di sacrificare, dai propri profitti personali, ben 200.000 euro per una causa persa come quella del referendum 2016?All'epoca, il tesoriere del Comitato era il commercialista fiorentino Lorenzo Anichini. Contattato dal nostro giornale, ha preferito non rilasciare dichiarazioni al riguardo, limitandosi solo a chiarire che i promessi 500.000 euro di finanziamento pubblico, che il Comitato avrebbe dovuto ricevere per le spese referendarie, «non sono mai stati incassati». In quei mesi si parlò addirittura di una trattativa tra il Comitato e la ex Cassa di risparmio di Firenze per ottenere una linea di credito per la campagna referendaria. Nel consiglio di amministrazione della Cr sedeva Marco Carrai, imprenditore fedelissimo di Matteo Renzi, mentre nel consiglio d'indirizzo c'era proprio Alberto Bianchi.Anichini è uno dei petali minori del Giglio magico, ma non per questo è meno importante. Attualmente ricopre ben 18 incarichi - come sindaco o supplente - in altrettante società. È presidente del collegio sindacale della Stazione Leopolda, la società a responsabilità limitata che gestisce l'area fiere diventata famosa per i meeting renziani. Stessa posizione è quella in Gse spa (Gestore dei servizi energetici, una controllata del ministero dell'Economia): Anichini è stato nominato nel luglio 2017 e resterà in carica per tre anni.Il commercialista toscano è inoltre sindaco della Centrale del latte della Toscana spa, in cui nel 2004 trovò spazio come consigliere di amministrazione pure Andrea Bacci, amico di famiglia dei Renzi e ristrutturatore della villa di Matteo a Pontassieve. Anichini fa parte del collegio sindacale pure di Bat (British American Tobacco) con scadenza del mandato fissata al 31 dicembre 2019. La multinazionale Usa delle sigarette è un nome ricorrente nelle vicende renziane. Ha finanziato con 110.000 euro la fondazione Open, di cui Bianchi era presidente, e ha apertamente sostenuto il corso dell'allora premier rottamatore. Il quale, nell'ottobre 2014, torcendo un po' il protocollo, andò a inaugurare lo stabilimento bolognese della Philip Morris in cui venivano prodotte le sigarette di nuova generazione che, a quei tempi, beneficiarono di uno sconto del 50% sulle accise nella versione finale del decreto di riforma del comparto. Pochi mesi prima, Renzi aveva pure incontrato a Roma il gran capo dell'azienda a stelle e strisce, Nicandro Durante. Erano i giorni del renzismo d'assalto assai lontani da quelli odierni del renzismo sott'assedio.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-soldi-di-bianchi-al-comitato-del-si-un-regalo-2640630337.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="toto-non-trattava-solo-col-pd-anche-il-movimento-5-stelle-ha-consolidato-il-suo-potere" data-post-id="2640630337" data-published-at="1767176870" data-use-pagination="False"> Toto non trattava solo col Pd. Anche il Movimento 5 stelle ha consolidato il suo potere Non solo Pd. Di «grazie», per il gruppo Toto, ne sono arrivate anche dai 5 stelle. La Verità, in questi giorni, ha ricostruito la vicenda del contenzioso tra Strada dei parchi, gestore delle arterie abruzzesi A24 e A25 e l'Anas, sulle rate del corrispettivo del prezzo della concessione non corrisposte dalla società dei Toto all'ente statale. Nella diatriba era intervenuto, nel 2017, il governo Gentiloni, che aveva sospeso l'obbligo di pagamento purché quel denaro fosse impiegato da Strada dei parchi per i lavori di messa in sicurezza dell'infrastruttura. Il denaro doveva essere poi restituito in tre rate negli anni 2028, 2029 e 2030. Nel luglio scorso, su sollecitazione del tribunale di Roma, che aveva sollevato un dubbio di costituzionalità proprio sull'articolo 52 quinquies del del 50/2017, è intervenuta la Consulta, che si è pronunciata su un altro aspetto della controversia: i Toto ritenevano di essere creditori del Mit e non di Anas, ma la Consulta, confermando questo aspetto della legge approvata dal governo Gentiloni, ha dato loro torto. L'odissea delle rate Anas, però, non è finita. A questo punto, anzi, la holding abruzzese potrebbe ricevere un altro aiuto dalla politica. Nell'accordo stipulato ad agosto tra Strada dei parchi e ministero delle Infrastrutture, relativo all'approvazione del nuovo piano economico e finanziario, sollecitata da una sentenza del Consiglio di Stato, si prefigura la possibilità di stornare le rate degli anni 2017, 2018 e 2019, ipoteticamente destinate ad Anas e ora bloccate su un conto da circa 178 milioni di euro, per consentire al gestore delle autostrade di coprire, con quel denaro, i 70 milioni di buco di bilancio derivanti dai mancati incrementi dei pedaggi, nonché per scongiurare ulteriori aumenti da dopo il 30 novembre prossimo. Difatti, è fino a quella data che Strada dei parchi, con il Mit, si è impegnata a mantenere le tariffe attuali ai caselli di A24 e A25. A onor del vero, bisogna sottolineare che l'idea di destinare a tale scopo le rate spettanti all'Anas era stata caldeggiata anche dal presidente della Regione Abruzzo ed ex senatore di Fratelli d'Italia, Marco Marsilio. Anche se il «diritto d'autore» sulla trovata spetta all'ex presidente del Pd, Luciano D'Alfonso, che nel 2016 ventilò l'ipotesi di congelare il versamento dei 55 milioni l'anno - che però, a differenza di quello che riteneva D'Alfonso, non erano il canone, bensì la rateizzazione del prezzo di vendita della concessione. Ma non finisce qui. Sbloccando l'iter per l'approvazione del Pef, il ministero che fino a quest'estate era retto da Danilo Toninelli ha accettato anche di prorogare la concessione autostradale di 10 anni, dal 2030 al 2040. Non proprio quello che sperava Carlo Toto quando, lanciando un progetto di varianti sul tracciato per oltre 5 miliardi, propose al Mit di Graziano Delrio una proroga di 45 anni, ma è già qualcosa... Eppure, tra Strada dei parchi e Toninelli, l'anno scorso, era cominciato un braccio di ferro durante il quale il grillino era arrivato a minacciare la revoca della concessione. Una parabola incredibile: dalla paventata rescissione del contratto con i Toto alla proroga decennale. Dalle polemiche sui fondi ministeriali per la messa in sicurezza dei viadotti, all'approvazione di un maxi piano di lavori da 3,1 miliardi, di cui 2 a carico dello Stato. Nel frattempo, la scorsa primavera, a trattative per il salvataggio di Alitalia in corso, era stato Luigi Di Maio, all'epoca ministro dello Sviluppo economico, a tirare fuori dal cappello il nome del gruppo Toto. La società si era dichiarata disposta a mettere sul piatto una cifra tra i 300 e i 400 milioni, per aggiudicarsi il 30% delle quote del capitale della compagnia, completando la cordata composta dall'americana Delta, da Ferrovie dello Stato e dal ministero del Tesoro. La mossa, però, aveva suscitato diverse riserve, anzitutto da parte di Fs, gemella di Anas. Scettica anche Delta. A pesare sui giudizi dei potenziali partner c'erano i trascorsi di Carlo Toto con Air One e Alitalia (cui l'imprenditore abruzzese aveva venduto la propria compagnia, trasferendo 600 milioni di debiti), quelli del figlio Riccardo, già patron di Air One, con la Livingstone, compagnia da lui rilevata ma fallita pochi anni dopo, oltre che l'esposizione finanziaria della holding, che secondo il bilancio 2016 ammontava a un miliardo e 128 milioni. È possibile che il coinvolgimento dei Toto servisse a Di Maio per prendere tempo e fare pressione sui partner già interessati all'affare Alitalia, inducendoli a chiudere l'accordo. Parallelamente al dialogo con l'ex titolare del Mise, oggi alla Farnesina, i Toto erano coinvolti nell'alterco con Toninelli. Un ministro giunto dal pungo alla carezza. In fondo, che i canali di comunicazione con la politica, per la dinastia chietina, siano molteplici, lo mostra una curiosa circostanza: mentre il capostipite Carlo è stato testimone di nozze dell'ex governatore abruzzese del Pd, Luciano D'Alfonso (dai Toto definito «uno di famiglia»), il figlio Alfonso, immortalato nel 2015 all'inaugurazione della variante di valico sull'A1 con Matteo Renzi, lo è stato dello sposo di Sara Marcozzi, candidata alle ultime regionali con il Movimento 5 stelle. E acerrima nemica di D'Alfonso. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-soldi-di-bianchi-al-comitato-del-si-un-regalo-2640630337.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="jet-privato-e-vacanze-per-dalfonso-il-renziano-che-dominava-labruzzo" data-post-id="2640630337" data-published-at="1767176870" data-use-pagination="False"> Jet privato e vacanze per D’Alfonso il renziano che dominava l’Abruzzo L'inchiesta di Firenze sta esaminando i collegamenti professionali e commerciali fra il gruppo Toto e il Giglio magico. La dinastia di imprenditori abruzzesi è usa a dimostrare una certa generosità verso la politica. A cominciare da quella abruzzese, come si evince dalle inchieste che sviscerarono i legami dei Toto con l'ex sindaco di Pescara, ex governatore e oggi senatore dem, il «sempre assolto» (in dieci processi) Luciano D'Alfonso, massimo esponente del renzismo in Regione: basti dire che, lo scorso marzo, a invitare Matteo Renzi a presentare il suo libro nella sala comunale del capoluogo adriatico, era stato proprio D'Alfonso. Nonostante egli sostenga di non aver mai organizzato incontri privati tra Renzi, Luca Lotti e i Toto, ma di aver presenziato solo a eventi istituzionali, con La Verità D'Alfonso ha ricordato di essersi ritrovato proprio con Renzi e l'ad di Strada dei parchi (società dei Toto) per una consumazione «francescana, ma forse anche costosa», durante una visita ai laboratori del Gran Sasso. I rapporti dei Toto con il «sempre assolto» renziano (che però non ha seguito il Bullo in Italia viva) sono tanto cristallini che se Mario Toto, fratello del capostipite Carlo, davanti ai magistrati lo definì «uno di famiglia», il secondo addirittura si descrisse come loro «damo di compagnia». Quei legami sono stati alla base di alcuni procedimenti giudiziari che hanno coinvolto gli imprenditori e l'ex sindaco pescarese. Ad esempio, l'inchiesta Housework, che portò, nel 2008, agli arresti domiciliari di D'Alfonso. L'accusa, sostenuta dal pm Gennaro Varone, ipotizzava che Carlo Toto e il figlio Alfonso (più un'altra ventina di imprenditori) avessero elargito favori al primo cittadino per garantirsi gli appalti del Comune. Allora finirono agli atti i doni dei Toto a D'Alfonso e famiglia. Il Fatto Quotidiano, per questo accusato dall'ex governatore di una «lettura pornografica» del processo, le aveva elencate tutte: un jet privato Falcon 20 per le tratte Pescara-Malta, Malta-Venezia e Venezia-Pescara; un motoscafo taxi; un soggiorno a Santiago de Compostela, trascorso insieme dalle due famiglie ma pagato dai Toto; biglietti Roma-Chicago per cognato e sorella di D'Alfonso, 10.786 euro; biglietti Roma-Istanbul, dieci voli privati nel 2006, altri due a Spalato nel 2005 e nel 2008, uno a Zagabria, uno a Belgrado. E ancora: cene elettorali per 10.800 euro, «pranzo di lavoro di un'associazione facente capo a D'Alfonso per 924 euro in un hotel di Roma», uno stipendio mensile da 1.500 euro a «Fabrizio Paolini (borsista al Comune di Pescara nel 2005 e, di fatto, autista e coadiutore del sindaco)», oltre a un «rimborso spese carburante e facoltà d'uso di una Alfa Romeo 166» tra il 2004 e il 2007. Il tutto, sempre secondo l'accusa, per aggiudicarsi, quali unici concorrenti, il bando per la realizzazione e gestione dei parcheggi a pagamento nell'area di risulta dell'ex ferrovia di Pescara (appalto in seguito revocato). La tesi del pm Varone era chiara: nel suo ricorso dopo l'assoluzione in primo grado del 2013, riportato dal sito I due punti, si legge che i Toto sarebbero stati «a completa disposizione di D'Alfonso per ogni sua esigenza economica. D'Alfonso disponeva della cassaforte dei Toto». Tanto che l'allora sindaco del capoluogo adriatico, rilevò l'accusa, prelevava poco denaro dal suo conto. La difesa replicava che D'Alfonso, per le spese familiari, si sarebbe fatto aiutare dalla zia, dai suoceri e dai genitori. Nella sentenza di assoluzione bis per gli imputati, risalente al 2015, i giudici d'Appello notarono che «non è per nulla eccezionale e inverosimile, nella nostra realtà socioeconomica, ancora caratterizzata da modelli familiari tradizionali, che familiari si mobilitino in favore di un congiunto e lo sostengano economicamente». I magistrati smontarono anche l'ipotesi di corruzione: «Nulla dimostra che le elargizioni dei Toto siano in controprestazione di provvedimenti amministrativi riferibili alla volontà di D'Alfonso». Insomma, non si poteva provare che vacanze, biglietti aerei, jet privati e motoscafi avessero comprato i favori dell'ex sindaco. Ormai era acclarato che il «damo di compagnia» fosse «uno di famiglia» (tant'è che Carlo Toto gli fece da testimone di nozze), però i giudici d'Appello ritennero che «il rapporto amicale» fosse «già esistente quando D'Alfonso non era sindaco», che in quella generosità non ci fosse malizia e che, anzi, essa perdurasse anche «quando il Comune di Pescara assumeva decisioni contrarie ai loro interessi». Nel mirino dei pm finì pure la vicenda della mancata realizzazione della Mare-Monti, la statale 81, quando D'Alfonso era presidente della provincia di Pescara. Secondo l'accusa, la Toto spa avrebbe ottenuto dal politico il via libera, senza le dovute autorizzazioni, a «una variante predisposta dall'impresa medesima idonea a stravolgere l'originario progetto […], peraltro portando il tracciato a invadere i confini della riserva del lago di Penne», come si legge nell'ordinanza di custodia cautelare del 2008 del gip di Pescara. Nel 2017, il tribunale ha dichiarato prescritti i reati. Ma D'Alfonso ha rinunciato alla prescrizione, venendo assolto per non aver commesso il fatto nel 2018. Alcuni scambi di carinerie tra i Toto e l'ex governatore abruzzese sono rimasti fuori dalle aule di tribunale. Da presidente della Regione, D'Alfonso è stato un grande propugnatore del progetto di Strada dei parchi per realizzare tunnel e varianti su A24 e A25: un cantiere da 5,7 miliardi di euro, in parte da finanziare grazie ai fondi Ue, in parte ripagati grazie a un indotto da 10.000 posti di lavoro, che i gestori delle autostrade promettevano in cambio del prolungamento della concessione di 45 anni rispetto alla scadenza del 2030. Con una delibera, la 325 del 2015, la Regione dichiarava persino di aver preso atto che «la messa in sicurezza della A24 e della A25 comporta la necessità di varianti di tracciato». In pratica, la Giunta D'Alfonso affermava che l'antisismicità delle infrastrutture dipendeva dal recepimento del progetto dei Toto. Peccato non la pensasse così il Mit guidato, allora, da Graziano Delrio, che bocciò il progetto. Ultima chicca. In questi giorni, La Verità ha approfondito la questione del contenzioso tra Strada dei parchi e Anas. Prima di entrare in politica e mettersi in aspettativa, D'Alfonso lavorava proprio presso quell'ente statale. Da governatore abruzzese, per scongiurare gli aumenti dei pedaggi su A24 e A25, D'Alfonso proponeva ad Anas, cioè al suo datore di lavoro, di rinunciare alle famose rate del corrispettivo del prezzo della concessione che Strada dei parchi avrebbe dovuto versare. Esattamente la soluzione individuata dall'emendamento alla manovrina del 2017, che sospese il pagamento dei 121 milioni purché fossero usati dal concessionario per i lavori di adeguamento sismico. Ovviamente, una coincidenza.
Imagoeconomica
Al centro del dibattito c’è il futuro assetto della magistratura, tra indipendenza e garanzie del cittadino.
Partiamo dalla prima, e cominciamo col chiederci se la riforma inciderà in maniera positiva sull’autonomia della magistratura, sia come ordine, contro i tentativi di condizionamento provenienti dalla politica, e sia al livello del singolo magistrato, a tutela della libertà di ciascun giudice di decidere secondo scienza e coscienza, a fronte di eventuali pressioni da parte di singoli soggetti o centri di potere interni alla magistratura stessa.
La risposta è certamente sì.
Cominciamo col dire che l’articolo 104 della Costituzione, come riformulato, prevede al primo comma che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente». Inoltre, in base al quarto comma, i rapporti di forza tra componenti laici e togati all’interno dei due Csm (della magistratura giudicante e requirente) resteranno invariati (rispettivamente, un terzo e due terzi). Mentre l’Alta Corte, a cui secondo l’articolo 105 spetterà la giurisdizione disciplinare nei confronti dei giudici e dei pubblici ministeri, risulterà composta da 15 giudici, di cui tre nominati dal presidente della Repubblica - ovvero la massima istituzione di garanzia dello Stato -, tre estratti a sorte da un elenco di soggetti altamente qualificati eletti dal Parlamento in seduta comune, e altri nove estratti a sorte dai magistrati giudicanti e requirenti (sei giudici e tre pubblici ministeri) con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie, e che svolgano, o abbiano svolto, funzioni di legittimità presso la Suprema Corte di Cassazione.
Come si vede, quindi, l’indipendenza esterna della magistratura resterà garantita al massimo grado contro le invasioni di campo della politica.
Passiamo poi alla indipendenza interna, che uscirà notevolmente rafforzata dalla riforma attraverso il sistema del sorteggio, il vero e proprio perno intorno al quale ruoterà il nuovo assetto della magistratura, e contro il quale, nella reale sostanza, anche se non nella forma, si levano ora le voci di protesta delle correnti, dove con tale termine si intendono le conventicole interne all’Associazione nazionale magistrati, siano esse di destra, di centro o di sinistra.
Già molti anni fa, chi scrive rassegnò le proprie dimissioni dall’Anm perché non condivideva le logiche spartitorie e il ruolo di centro occulto di potere assunto dall’organismo sindacale delle toghe, soprattutto a seguito della riforma Mastella, che, sostituendo il vecchio sistema basato sull’anzianità di servizio con degli astratti e opinabili criteri di merito e attitudini, aveva di fatto finito con l’attribuire al Csm, e quindi alle correnti, una pressoché assoluta discrezionalità nelle procedure di nomina dei capi degli uffici giudiziari, sia giudicanti che requirenti.
Una discrezionalità di cui, invero, si è fatto un pessimo uso, e che di fatto è sconfinata nell’arbitrio, come ha dimostrato la vicenda Palamara.
Da allora, avvolta nella cappa soffocante delle correnti, la magistratura è diventata sempre più un luogo burocratico e senza anima, asfittico e soffocante, ideologicamente orientato, autoreferenziale e separato dal contesto sociale. Facendo leva sugli appetiti carrieristici, si è sacrificata la libertà dei singoli magistrati sull’altare della onnipotente pervasività delle conventicole associative.
Ma torniamo alla riforma.
Cosa vuol dire precisamente «separazione delle carriere»? Perché il fatto di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri aumenterà le garanzie del cittadino? E perché il sorteggio dei componenti togati dei Csm garantirà una maggiore autonomia dei magistrati?
Per diverse buone ragioni.
In primo luogo, separare le carriere vuol dire che non solo gli avanzamenti in carriera, ma anche le promozioni e tutto ciò che riguarda le sorti professionali dei magistrati (e quindi, ad esempio, anche le ambite nomine alla Scuola Superiore della Magistratura) non verranno più decise nella comune «stanza di compensazione» di un unico Csm, ma da due Csm diversi, uno per i giudici e un altro per i pubblici ministeri. Quindi, non accadrà più che i pubblici ministeri decidano sulle carriere e sulle vicende disciplinari dei giudici e viceversa. Questo non potrà che rafforzare l’autonomia sia degli uni che degli altri.
In secondo luogo, il potere dell’Anm ne uscirà di fatto fortemente ridimensionato, in quanto la separazione delle carriere e il sorteggio ostacoleranno gli accordi spartitori delle correnti, liberando i magistrati dal soffocante giogo delle conventicole. Aumenteranno di conseguenza sia il tasso di autonomia interna della magistratura che le garanzie dei cittadini.
In terzo luogo, il sorteggio dei componenti togati del Csm reciderà il rapporto tra elettore ed eletto, rendendo più trasparenti le nomine dei capi degli uffici, che pertanto si baseranno più su criteri meritocratici che di appartenenza ideologica, facendo quindi anche diminuire, auspicabilmente, il numero dei ricorsi al giudice amministrativo, che negli ultimi anni sono esponenzialmente aumentati e hanno determinato un danno per l’immagine della magistratura.
Questi sono tutti fattori che rafforzeranno concretamente l’autonomia e l’imparzialità dei giudici, sia rispetto alle correnti che all’ufficio del pubblico ministero, rendendo, nel complesso, le decisioni di tutti i magistrati più trasparenti, autorevoli e libere da interferenze esterne. Di conseguenza, ci troveremo di fronte anche a una magistratura più efficiente e più attenta alle garanzie dei cittadini.
Ma separare le carriere vuol dire anche andare verso una maggiore specializzazione e aumentare la professionalità del magistrato. Il mestiere del pubblico ministero è infatti profondamente diverso da quello del giudice, perché occorrono specifiche competenze in vari settori del sapere quali l’informatica, la dattiloscopia, la medicina legale, la psichiatria, la grafologia e la criminologia, che sono propri più dell’inquirente che del giurista. Senza contare che il coordinamento della polizia giudiziaria richiede particolari attitudini e percorsi esperienziali diversi, oltre che, a volte, valutazioni di opportunità e persino di natura economica (costi-benefici) che sono estranee, in linea di principio, alla cultura della giurisdizione intesa in senso stretto. Una cosa è infatti scrivere una sentenza, ben altro è disporre od eseguire una perquisizione, svolgere un sopralluogo, oppure stabilire quante unità di polizia giudiziaria impiegare in una certa indagine.
In tal senso, la maggiore specializzazione consentirà anche una migliore qualità delle indagini, e un più efficace contrasto di ogni forma di criminalità.
E ancora, con il sorteggio verranno meno le gravi opacità emerse dallo scandalo Palamara, e sarà possibile recuperare almeno in parte la fiducia dei cittadini verso l’istituzione della magistratura, che viene oggi sempre più vista come una corporazione a sé, piuttosto che un ordine autonomo e indipendente al servizio dei cittadini.
Un’ultima importante osservazione. Il fatto che un’associazione privata come l’Anm, e quindi per definizione permeabile alla politica, possa decidere di fatto le nomine dei procuratori della Repubblica costituisce un’anomalia tutta italiana, che non ha precedenti nel mondo occidentale e determina un pericolo esiziale per gli equilibri democratici del Paese. Votare a favore della riforma vuol dire perciò porre riparo a tale anomalia e ricondurre l’Italia sui binari della normalità attraverso un più corretto bilanciamento dei poteri dello Stato.
Che altro dire? È questa la migliore delle riforme possibili? Forse no. Ma, come si sa, il meglio è nemico del bene, soprattutto se l’alternativa alla riforma è il sistema di potere correntizio anestetizzato dal non-pensiero delle false ideologie.
Soprattutto, questa è una riforma a tutela dei cittadini, ma anche di quei tanti silenziosi magistrati che non aspettano altro che di essere liberati dalla tirannia delle conventicole, e che per troppo tempo hanno dovuto tacere per non incorrere nell’ostracismo e nell’emarginazione.
Piuttosto, quel che è più grave è che - qualunque sarà l’esito del referendum - con l’abbracciare in maniera così drastica la causa del No, l’Anm si è fatto soggetto politico, e questo ha già determinato e determinerà un ancor più grave danno all’immagine dell’intera magistratura. Danno che sarà difficilmente sanabile nel breve periodo, e che non basteranno a riparare né le fake news o le improbabili chiamate alle armi a difesa della democrazia, e né tantomeno le coccarde sulla toga.
di Paolo Itri
Magistrato e scrittore, presidente di sezione della Corte tributaria di Napoli
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Maurizio Gasparri (Ansa)
Alla luce dell’ultima sentenza della Corte Costituzionale sulla legge toscana, secondo le stesse fonti del centrodestra, è in atto una fase di studio e di approfondimento che potrebbe portare anche a una riapertura del termine per la presentazione degli emendamenti. Sulla necessità di procedere non ha dubbi il capogruppo al senato di Forza Italia, Maurizio Gasparri. «Bisogna fare una legge nazionale», dice Gasparri alla Verità, «prima che Regioni e Corte Costituzionale causino guasti maggiori. Non è facile trovare un punto di sintesi, ma bisogna trovarlo. La sentenza della Consulta in realtà mette dei paletti molto forti rispetto alla legge toscana ma lascia alcuni spiragli aperti al ruolo del servizio sanitario nazionale, in termini tecnici difficili da aggirare. È una delle questioni che in Senato è ancora in corso di approfondimento. Ovvio che», aggiunge Gasparri, «piacciano o meno, le sentenze della Corte determinano un orientamento. Valorizziamo i paletti che pone arginando gli sconfinamenti delle Regioni ma riflettiamo su alcune indicazioni. È un tema delicato che non si può affrontare con superficialità. Una deriva eutanasia nella società c’è e va arginata, tra mille problemi e difficoltà». «Dal mio punto di vista la sentenza non incide negativamente sull'impianto della nostra legg», ha detto all’Agi Ignazio Zullo (Fdi), uno dei relatori del testo presentato dalla maggioranza al Senato, «anzi valorizza il percorso delle cure palliative, la necessità di tempi più lunghi nella valutazione delle condizioni in cui versa la persona che chiede di essere aiutata a porre fine alla propria vita, l’organizzazione dei comitati etici e l’impossibilita' che la richiesta possa avvenire per delega».
È il ruolo del servizio sanitario nazionale ad essere il punto che divide più di tutti gli altri il centrodestra (che vuole escludere il Ssn dalla pratica del suicidio assistito) dalla sinistra (che invece vuole che il Ssn si faccia carico, in caso di richiesta, di questa prestazione). Nella sentenza, la Corte precisa che «la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, della legge regionale Toscana n. 16 del 2025 lascia intatto il diritto della persona, in relazione alla quale siano state positivamente verificate le condizioni per l’accesso al suicidio medicalmente assistito, di ottenere dalle aziende del servizio sanitario regionale il farmaco, i dispositivi eventualmente occorrenti all’autosomministrazione, nonché l’assistenza sanitaria anche durante l’esecuzione di questa procedura, come del resto affermato nella ricordata sentenza n. 132 del 2025, che riveste, da questo punto di vista, portata auto applicativa». Dunque, un ruolo il Ssn deve svolgerlo, seppure di assistenza e contorno, oltre che per la fornitura di farmaco e dispositivi. Il senatore del Pd Bazoli, vicepresidente del gruppo dem a Palazzo Madama, vede uno spiraglio: «Direi che, sotto il profilo del ruolo del Ssn», commenta Bazoli alla Verità, «la parte rilevante di questa sentenza è quella in cui ribadisce a chiare lettere che la persona che si trova nelle condizioni stabilite dalla Corte ha “il diritto” di ottenere dalle aziende sanitarie locali il farmaco, gli strumenti necessari e l’assistenza sanitaria opportuna per eseguire il proposito di suicidio. È una conferma importante, alla quale il legislatore nazionale ovviamente non può in alcun modo derogare. È un diritto pienamente riconosciuto e dunque pienamente eseguibile».
La Regione Toscana ha già messo in movimento i propri uffici per correggere la legge cassando o modificando i numerosi articoli bocciati dalla Corte. «La Corte costituzionale», dichiarano la segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni Filomena Gallo e il tesoriere Marco Cappato, «ha dichiarato infondata la richiesta del governo di cancellare la legge regionale della Toscana dell’Associazione Luca Coscioni sulle procedure di fine vita. È una decisione importante anche perché conferma il ruolo del servizio sanitario nazionale. Ora ripresenteremo il testo rivisto dalla Corte in tutte le Regioni». Le distanze tra centrodestra e sinistra restano intatte: si tratta di capire se esista una maggioranza convinta della necessità di legiferare. In assenza, la legislatura si chiuderà senza un testo approvato.
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