2021-11-12
I numeri della «bomba» Friuli Venezia Giulia
Virologi e politici dipingono Trieste nel caos a causa dei non vaccinati e dei cortei no green pass. I dati, però, parlano di 19 malati in terapia intensiva in tutta la Regione. E i contagi nelle Rsa stavano salendo già a inizio ottobre. Mancano le cure a domicilioTrieste è in emergenza, si titola da giorni. Gli ospedali sarebbero «intasati», per lo più da persone non vaccinate, molte finite in reparto Covid direttamente dalle manifestazioni democratiche che si sono svolte nella città giuliana. «Non riusciamo più a capire e sopportare la gente che non si vaccina. Verso queste persone comincio a provare odio. Gli infermieri non ce la fanno più e non è giusto vedere la gente che manifesta in strada», era lo sfogo di Dario Bianchini, medico internista dell’Azienda sanitaria di Trieste, raccolto dal Piccolo. «A Trieste paghiamo il prezzo più alto a causa dei cortei e di 70.000 non vaccinati su 230.000 abitanti», ha dichiarato il vicegovernatore della Regione con delega alla Salute, Riccardo Riccardi. «Questa ondata è diversa dalle altre, colpisce sostanzialmente solo chi non è vaccinato», dichiarava sempre sul quotidiano triestino Domenico Montalbano, segretario regionale Smi, il sindacato dei medici italiani, sezione Friuli Venezia Giulia. I contagi in Regione sono in aumento, i dati lo confermano, ieri + 609 nuovi casi (25 erano sanitari vaccinati) con però un’ottima tenuta ospedaliera (19 persone ricoverate in terapia intensiva, 127 in reparto). Siamo davvero sicuri che ne siano responsabili solo i no vax e i manifestanti scesi in piazza contro le misure adottate dal governo? «Le case di riposo e Rsa cominciano pure loro a registrare contagi» a Trieste, si leggeva due giorni fa. Invece, a detta di un operatore del 118 che preferisce mantenere l’anonimato, «il primo ottobre furono segnalati 68 positivi in alcune case di riposo, ovvero al Brioni (28), Cellini (15), Domus Lucis (9), Carducci (7), Campanelle (5), San Domenico (2). La centrale ci avvertiva: fate particolare attenzione. C’erano anche operatori infettati e comunque si trattava di persone tutte vaccinate». Quindi da più di un mese si registrano numerosi casi di Covid tra anziani vaccinati ospitati in Rsa. I cortei non c’entrano. L’esasperazione per il nuovo allarmismo legato alla crescita di positivi è comprensibile, soprattutto se scatta in sanitari logorati dall’emergenza. Ora non vogliamo fare la conta di quanti vaccinati ci siano, tra i nuovi contagiati, perché il farmaco non riesce più a proteggere dopo pochi mesi. La questione fondamentale è forse un’altra, evidenziata dalle parole del presidente del Friuli Venezia Giulia. «Abbiamo circa il 16% di persone che potrebbero vaccinarsi e non lo fanno e questo comporta il 75% delle ospedalizzazioni», ha dichiarato ieri Massimiliano Fedriga in un’intervista. Ma perché mai deve essere così? «Questa pandemia è un problema di assistenza pubblica. I soggetti che arrivano in ospedale senza essere stati trattati con quei pochi farmaci che abbiamo a disposizione, diciamolo chiaro: per loro diventa troppo tardi. Metà di queste persone finisce in rianimazione», tuonò dalle pagine della Verità il professor Giorgio Palù, presidente dell’Agenzia italiana del farmaco. Era il febbraio scorso e l’eminente virologo tornava su un concetto di vitale importanza: «Ci vogliono linee guida, altrimenti ogni medico di base va per conto suo». A Trieste, invece, come nella maggior parte delle nostre città, le persone che risultano positive continuano a non essere assistite a casa. Le eccezioni sono pochissime. «Sono in contatto con tanti pazienti che dopo aver fatto il tampone finiscono nel panico perché non sanno che terapie seguire», racconta Claudia Castellana, per trent’anni infermiera strumentista all’ospedale pediatrico Burlo Garofolo di Trieste. «Se non sono vaccinati, accumulano sensi di colpa enormi e ricevono dalle Usca (le Unità speciali di continuità assistenziale, ndr) risposte del tipo “adesso potete solo pregare”. Raramente vengono visitati dai medici di famiglia che comunque si limitano a raccomandare tachipirina e vigile attesa e quando vanno in ospedale hanno già forti dolori al petto e mancanza di ossigenazione». Claudia, che lo scorso 15 ottobre si è autosospesa per solidarietà nei confronti dei colleghi lasciati a casa senza stipendio, dice: «Avrei potuto continuare a fare il tampone, ma pur non essendo contraria al vaccino trovo ingiusto l’obbligo». Spiega che solo 26 dei 350 operatori sanitari non vaccinati sono stati sospesi a Trieste. Probabilmente l’azienda si muove con cautela, per non far collassare l’intero sistema. Non ci sono medici e infermieri che possono sostituire quelli lasciati senza lavoro. Ma intanto chi non è seguito dal medico di base deve per forza andare in ospedale, spaventato, «o spende soldi di tasca propria, 67 euro per comprarsi dieci fiale di eparina che gli viene consigliata dalla rete dei dottori che fanno cure domiciliari. Un tam tam per vie traverse, arriva a pochi», precisa Francesca, nome di fantasia, medico di guardia e, fuori dagli orari di lavoro, instancabile sostegno di tanti pazienti Covid. «Li vado a trovare a casa, certo che non sono pagata per questo», si scandalizza. «Seguo protocolli diversi, di sicuro prescrivo subito antinfiammatori, eparina che previene fenomeni tromboembolici e cortisone, ma ogni persona va seguita giorno dopo giorno. In ospedale nessuno dei “miei” è mai finito, però siamo in pochissimi a muoverci sul territorio. Molti invece mi dicono che il medico di base li invita a monitorare la saturazione affinché non scenda sotto il 92%, in tal caso devono correre al pronto soccorso. Ma così le persone si spaventano, quella non è assistenza». Infatti, le terapie domiciliari continuano ad essere ignorate. O ti vaccini o rischi di finire ricoverato, questo è l’unico, menzognero messaggio che arriva dal ministero della Salute.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)