2024-06-29
I «kapò» andavano a prelevare «schiavi» nel centro profughi gestito dai Soumahoro
Aboubakar Soumahoro (Ansa)
La vicenda emerge nelle carte di un processo per caporalato in corso a Latina: alla sbarra 10 italiani e 8 sfruttatori bangladesi.«Io sono indiana, l’Italia non è un Paese buono». Alcuni quotidiani hanno subito rilanciato questa dichiarazione in chiave politica della povera Sony, la compagna di Satnam Singh, il trentunenne indiano morto sul lavoro dopo che un macchinario agricolo gli aveva strappato un braccio. Il padrone, Antonello Lovato, aveva scaricato bracciante e arto davanti all’umile dimora di Satnam e Sony, condannando a morte l’uomo.Quindi le parole di Sony sono del tutto comprensibili. Ma piano piano a Latina sta emergendo un quadro che non risparmia nessuno, a prescindere dalla nazionalità. A Latina, infatti, i veri nemici dei braccianti irregolari sembrano i bangladesi. Nel procedimento per sfruttamento del lavoro e intermediazione illecita (caporalato) che ha coinvolto anche Renzo Lovato, padre di Antonello, hanno ricevuto l’avviso di chiusura delle indagini Kalam Abul, cinquantenne originario di Shariaptur, considerato il capo dei caporali, e il concittadino Uttam Paul, 46 anni.I due sono anche alla sbarra in un secondo processo per caporalato insieme con altre 16 persone, di cui dieci imprenditori agricoli italiani e altri sei cittadini bangladesi. In questa inchiesta Abul e Paul sono stati raggiunti nel 2022 da un divieto di dimora nella Provincia di Latina. Le parti civili, ovvero i lavoratori sfruttati, stanno sfilando in aula (l’ultima udienza è stata l’altro ieri, come ha raccontato il quotidiano Latina oggi) e stanno confermando le accuse. Si tratta di poco meno di 70 lavoratori. La storia che emerge è inquietante: le piazze dove venivano reclutati i nuovi schiavi erano direttamente alcuni Cas (centri di accoglienza straordinaria) in teoria affidati al controllo della prefettura.Nella richiesta di rinvio a giudizio viene specificato che la manodopera sfruttata era «rappresentata da cittadini bangladesi anche richiedenti asilo politico ospiti presso il Cas Azalea di Monte San Biagio», ma anche in quelli di Terracina e Maenza. Il tutto «allo scopo di destinarla al lavoro di braccianti agricoli, sottoponendo i lavoratori medesimi a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno». In un altro passaggio viene evidenziato come tali lavoratori fossero «costretti a sottostare alle predette condizioni di lavoro per potere sostenere la propria famiglia e inviare (in taluni casi all’estero) parte delle retribuzioni ricevute» e che questi erano «obbligati a corrispondere 6 euro al giorno per il trasporto giornaliero sui campi con i furgoni, nonché ad effettuare acquisti presso il negozio intestato al fratello di Kalem Abul, Alamgir».Le paghe erano magre, al massimo di 35 euro per sette ore di lavoro, senza contare gli straordinari non riconosciuti. La tariffa si aggirava sui 4,5 euro l’ora, circa la metà di quanto previsto dai contratti collettivi nazionali. Un testimone ha anche raccontato che Abul gli affittava una stanza («Circa 65 euro per 10 giorni») e che alla fine gli rimaneva in tasca ben poco: «Riesco a guadagnare qualche volta 300 euro e qualche volta 200 euro tolti i soldi che do a Kalam Abul» aveva detto ai poliziotti che lo interrogavano. E a proposito di Maenza scopriamo che il Cas che riforniva i presunti schiavi era gestito nientepopodimeno che dalla cooperativa Karibu, quella commissariata a fine 2022 per i numerosi reati contestati ai suoi titolari, ovvero i famigliari di Aboubakar Soumahoro, anche loro a processo presso il Tribunale di Latina. Nell’ordinanza di misure cautelari emessa nel 2022 contro Abul e gli altri, a tal proposito, si legge: «Allo stesso modo, gli indagati hanno utilizzato nei campi agricoli gli ospiti dell’altro centro di accoglienza, il “Casal dei Lupi”, sito a Maenza in località Farneto e gestito dalla società cooperativa sociale “Karibu”. Nel periodo di indagine sono stati notati alcuni furgoni che hanno prelevato diversi ospiti del Cas in questione - sulla base delle indicazioni degli imprenditori agricoli delle zone di Sabaudia/San Felice Circeo - per poi riaccompagnarli il tardo pomeriggio e/o la sera». Nelle numerose intercettazioni agli atti Abul parla più volte dei braccianti da recuperare a Maenza. A questo punto il giudice per le indagini preliminari Pierpaolo Bortone ci informa che anche tra gli aguzzini si possono trovare richiedenti asilo: «In tale contesto è sempre Kalam Abul che si è occupato di reclutare i braccianti, avvalendosi di un soggetto richiedente asilo ivi ospitato, identificato in Miah Sanih nato in Bangladesh. Quest’ultimo, in sede di sommarie informazioni testimoniali […] ha riferito che Kalam Abul era suo datore di lavoro; che insieme agli altri stranieri richiedenti asilo venivano prelevati dal Centro Azalea con alcuni furgoni e venivano trasportati nei campi; che venivano controllati nei campi da un uomo incaricato e denominato “master”; che Kalam Abul stornava dalla loro paga delle somme di denaro di cui si appropriava».Il gip evidenzia «l’imposizione di lunghissimi orari di lavoro […] anche nei giorni festivi», «il mancato riconoscimento della malattia», «l’occultamento degli infortuni sul lavoro», «l’erogazione di stipendi effettivi di importo ridotto» e «vessazioni sul luogo di lavoro».Nelle carte si legge anche che «i braccianti sono stati utilizzati in condizioni degradanti» e che «i trasportatori di braccianti agricoli hanno stipato gli immigrati sui mezzi di trasporto in quantità doppia/tripla rispetto al numero consentito, mettendone a rischio l’incolumità». I verbali delle vittime rivelano che il lavoro veniva spesso effettuato a cottimo e non su paga oraria: per la raccolta di 1.000 carote si potevano guadagnare 40 euro (ma un testimone ha garantito che l’obiettivo era irraggiungibile), per 1.000 mazzi di ravanelli «da dieci palline» 25-26 euro. Un’intercettazione ha confermato «non solo la modalità della retribuzione “a cottimo”, ma anche le gravose condizioni di lavoro in cui lavorano i braccianti che, infatti, manifestano il loro diniego a raccogliere i prodotti agricoli presso il terreno di turno, a causa della presenza di erba infestante fino al collo». A parlare sono un caporale, Habib Khan, chiamato a controllare i connazionali nei campi, e Kalam Abul. Khan spiega: «Qua le rape rosse non le vuole raccogliere nessuno perché c’è tanta ortica fino al collo e non vogliono fare a mazzi ma vogliono fare a ore perché c’è tanto lavoro da fare». Abul replica: «Fate per favore, servono solo 1.500 mazzi e fate mazzi da tre». Khan: «Fratello nessuno non vuole fare le rape». Abul minaccia: «Fate, fate, vengo, vengo». Passano pochi minuti e Khan si rifà vivo: «Fratello questa roba non la raccoglie nessuno […] Il problema è l’ortica che prude arriva fino al collo». Abul riassume: «Ci sono foglie di ortica e che dobbiamo fare? Non lavoriamo? Prima togliete le foglie di ortica e dopo lavorate. Servono solo 1.500 mazzi». Quindi invita Khan a dare l’esempio. Risposta: «Solo io mica ce la faccio». E invita il capo ad andare a vedere. A questo punto Abul taglia corto: «Se non avete raccolto, oggi il furgone non passa a prendervi, dovete raccogliere oggi 1.500 prodotti per forza. Dovete raccogliere 1.500 mazzi, sono pochi.... non è una cosa difficile». Come detto i protagonisti sono i caporali che si preoccupano di fare il lavoro sporco per i padroni italiani. Al termine della sua ordinanza il gip ricostruisce il ruolo di Abul e Paul: «Hanno provveduto a reclutare i braccianti da sfruttare, anche presso alcuni Cas della Provincia. Risultano aver avuto rapporti continui e costanti con diverse aziende agricole alle quali hanno fornito i braccianti agricoli. I furgoni sono risultati nella disponibilità di Abul, il quale ha provveduto a far trasportare i braccianti e, in alcune occasioni, si è posto egli stesso alla guida di un furgone; anche Paul ha provveduto ad accompagnare i braccianti sul posto di lavoro. […] Tali circostanze risultano confermate dalle numerose intercettazioni e dai tracciati gps […] nonché dal controllo effettuato dalla polizia giudiziaria in data 20 marzo 2019, nel corso del quale Kalam Abul è stato fermato alla guida del furgone Renault Traffìc con a bordo 14 immigrati: in tale occasione tutti i soggetti hanno dichiarato che avrebbero dovuto lavorare presso l’Azienda “Cortese”, ossia presso un’altra azienda rispetto a quella in cui Abul risulterebbe alle dipendenze». Di fronte a queste prove, nel giugno del 2021, il pm Marco Giancristofaro aveva ragionevolmente richiesto per Abul la custodia in carcere, per Paul gli arresti domiciliari, mentre per gli imprenditori beneficiari il sequestro o il controllo giudiziario dell’azienda.La misura per i caporali sembra idonea. Infatti, dopo i controlli effettuati nel suo negozio, nel marzo del 2019, Abul smette di pagare i braccianti tra quelle mura e, scrivono i magistrati, da quel momento, «costui è più accorto e spesso si raccomanda di non parlare al telefono che ritiene essere intercettato». Inoltre, come dimostra l’inchiesta che coinvolge Renzo Lovato, Abul e Paul continuano a reiterare le stesse attività illecite, almeno tra l’autunno del 2019 e il maggio del 2020. Ma nel febbraio del 2022 il gip, che è il fratello della conduttrice Serena Bortone, quella dell’affaire Scurati, sfoggia un garantismo che sarebbe certamente apprezzato anche dal governatore della Liguria Giovanni Toti: pur ammettendo un rischio di recidiva e che i fatti in questione impongano l’adozione di una misura cautelare, questa debba essere «individuata nel divieto di dimora nella Provincia di Latina, misura», a detta del giudice, «in grado di prevenire il ripetersi di azioni criminose omogenee, di limitare la pericolosità sociale dei soggetti e di salvaguardare l’incolumità della persona offesa». Quindi, anche in ragione «della incensuratezza degli indagati», per Bortone a fermare i caporali basterebbe un divieto di ingresso nella Provincia, la seconda più estesa del Lazio. E il controllo del rispetto di tale proibizione è stato affidato al commissariato di Terracina che, ne siamo certi, avrà anche molte altre questioni di cui occuparsi.
(Ansa)
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Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)