2020-12-24
«I dpcm di Conte sono censurabili e incostituzionali»
Giuseppe Conte (Getty images)
Ad accusare il premier è una sentenza del Tribunale di Roma Bla bla «viziati da difetto di motivazione e profili di illegittimità»Tutti i decreti del presidente del Consiglio dei ministri in materia di Covid e di emergenza sanitaria, cioè gli ormai innumerevoli dpcm firmati da Giuseppe Conte che da febbraio condizionano la vita degli italiani, sono «censurabili», «illegittimi» e «incostituzionali». Quindi un commerciante non può farsi forte di un Dpcm, che lo obbliga a tenere chiuso il negozio e gli fa crollare il fatturato, per decidere di non pagare più l’affitto. Quel negoziante, al contrario, deve rispettare sempre e comunque il contratto con il proprietario del locale e deve versargli il dovuto. In alternativa, il sistema giuridico gli lascia una sola strada: impugnare i dpcm, per l’appunto illegittimi, davanti all’autorità giudiziaria.È in base a questa logica, obiettivamente inoppugnabile, se la sesta sezione civile di Roma ha appena condannato la società affittuaria di un negozio della Capitale (con 256.200 euro di morosità accumulata da marzo) a lasciarlo libero dal 16 marzo. E forse non è un caso se il magistrato che ha deciso in questa importante causa-pilota si chiama Alessio Liberati: la sua decisione liberatoria nasce dalla conclusione che i dpcm varati da Conte «siano viziati da violazioni per difetto di motivazione», ma anche «da molteplici profili di illegittimità». Come tali, sono «caducabili», cioè da annullare. Insomma, gli ormai mitici dpcm non producono effetti dal punto di vista giuridico. Sono atti nulli. Inesistenti. Non hanno valore. Sono praticamente bla bla senza alcun effetto. È vero che purtroppo colpiscono nel profondo le libertà degli italiani e le loro attività economiche, in troppi casi costrette alla chiusura: ma il giudice Liberati conferma che il governo giallorosso si è spinto fuori dalle norme dello Stato democratico e ne sta violando le leggi fondamentali.Il giudice nota, infatti, che i tanti dpcm con cui il governo è intervenuto per gestire la pandemia non hanno «natura normativa, ma amministrativa». È una tesi che era già stata affermata, e autorevolmente: in primavera molti costituzionalisti avevano contestato con durezza l’impiego del dpcm come strumento del tutto inadatto a comprimere le nostre libertà fondamentali. Il 28 aprile La Verità aveva raccolto le critiche del presidente emerito della Consulta, Sabino Cassese, e del giurista Giovanni Guzzetta, promotore di una petizione anti dpcm che in pochi giorni è stata firmata da oltre 25.000 italiani. Alle loro voci si erano poi aggiunte quelle di altri due presidenti emeriti della Corte costituzionale, Antonio Baldassarre e Annibale Marini.Oggi, però, ad accusare senza reticenze il governo non è la dottrina giuridica, per quanto autorevole, ma addirittura il più importante tribunale della Repubblica. Nella sua sentenza, la sesta sezione civile di Roma scrive che «non si può ritenere che un dpcm possa porre limitazioni a libertà costituzionalmente garantite, non avendo valore e forza di legge». E rimprovera Palazzo Chigi di avere affrontato il Covid forzando gli strumenti normativi tipici di una situazione da emergenza bellica, in quanto «non esiste una legge ordinaria che attribuisce al Consiglio dei ministri di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario». Da questa seconda originaria anomalia deriva l’illegittimità di tutti i decreti presidenziali firmati da Conte, anche di quelli che disciplinano la «fase 2». Secondo il giudice Liberati, anche gli ultimi dpcm «hanno imposto una rinnovazione della limitazione dei diritti di libertà che avrebbe invece richiesto un ulteriore passaggio in Parlamento». La sentenza aggiunge, con estrema chiarezza, che «l’impianto normativo-provvedimentale è in contrasto con la Carta costituzionale».Ma gli schiaffi per il governo non si fermano qui. Anche il suo Comitato tecnico scientifico viene coinvolto nella reprimenda. Perché la sentenza annota che i dpcm, per essere validi come atti amministrativi, «devono essere motivati, ai sensi dell’articolo 3 della legge 241 del 1990». I dpcm di Conte, però, citano sempre come base e motivazione le analisi del Cts, che sono altri atti amministrativi. «Questa tecnica», annota il giudice, «è in astratto ammessa e riconosciuta dalla giurisprudenza, ma richiede che gli atti cui si fa riferimento siano resi disponibili o comunque siano conoscibili». Il problema è che questo, invece, nella maggioranza dei casi non è accaduto: «È fatto notorio», si legge nella sentenza, «che alcuni di tali atti (cioè i verbali del Cts, ndr) siano stati resi pubblici con difficoltà, talvolta solo in parte, e comunque con una tempistica molto lunga, in alcuni casi addirittura prossima alla scadenza d’efficacia del dpcm stesso». All’inizio, ricorda il tribunale, i verbali del Cts venivano addirittura classificati come «riservati». Quindi le motivazioni dei dpcm restavano del tutto sconosciute. La sentenza stabilisce quindi che, avendo violato l’obbligo della loro motivazione, i dpcm sono «illegittimi anche per violazione della legge».In aprile Guzzetta diceva a La Verità che contro la deriva dei dpcm «l’unica speranza è che un cittadino trovi un giudice che gli dia retta». Bene: sono serviti otto mesi, ma oggi ci siamo arrivati. Meglio tardi che mai…
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