2019-01-14
I dem vogliono togliere dal frigo Biden contro Trump. Ma rischia la fine della Clinton
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La campagna elettorale per le primarie democratiche si avvia ad entrare nel vivo. Lo scorso 31 dicembre, la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, ha annunciato la creazione di un comitato esplorativo in vista di una sua prossima discesa in campo. Il tutto, mentre negli ultimi due giorni si sono fatti avanti la deputata delle Hawaii, Tulsi Gabbard, e l’ex ministro dello Sviluppo urbano, Julian Castro: se la prima appare molto spostata a sinistra e tendenzialmente vicina alle posizioni politiche del senatore socialista Bernie Sanders, il secondo risulta leggermente più moderato, per quanto non estraneo all’universo liberal. Che Castro non sia poi così sgradito all’establishment democratico lo dimostra il fatto che, alle primarie del 2016, si schierò a fianco di Hillary Clinton, laddove la Gabbard scelse - con un certo coraggio - di sostenere Sanders, quando ancora tutti lo davano come un outsider balzano senza speranze.Al momento la sinistra dem sembra comunque l’area più agguerrita e - soprattutto - quella pronta a sfornare il maggior numero di candidati in una campagna elettorale che si accinge ad essere una delle più affollate (e rissose) della Storia americana. E anche per questo le alte sfere dell’Asinello stanno sempre più aspettando il passo avanti di una figura ben precisa: quella di Joe Biden. Che l’ex vicepresidente di Obama nutra delle ambizioni presidenziali, non è certo un mistero. Sono mesi che lascia intendere di volersi candidare e - soprattutto negli ultimi tempi - ha intensificato i suoi attacchi contro il presidente americano, Donald Trump. Inoltre, al di là dell’estabilshment democratico, non sono pochi coloro che guardano a Biden come l’unica speranza per sconfiggere il magnate newyorchese. Soprattutto in Europa l’ex vicepresidente viene infatti presentato come una persona seria, affidabile, preparata e razionale: una figura in grado di mettere un freno al caos trumpista e ricostruire così un ordine internazionale di stampo più tradizionale. Eppure, a ben vedere, in questa interpretazione forse c’è qualcosa che non va.Per carità, nessuno mette in discussione la sua preparazione: del resto, è stato senatore del Delaware per trentasei anni e vicepresidente per otto. No, nessuno dubita della sua esperienza politica. La titubanza nasce in realtà da altre considerazioni. Innanzitutto, non dobbiamo dimenticare che Biden sia già stato sconfitto alle primarie democratiche del 1988 e del 2008: segno di come, forse, non possa dirsi una figura troppo brillante nel condurre questa tipologia di campagna elettorale. In secondo luogo, avrà anche esperienza ma come vicepresidente non si è rivelato troppo incisivo. Certo: è noto che i vicepresidenti americani spesso svolgano poco più che funzioni di rappresentanza. Ma è pur vero che la Storia ha spesso dimostrato il contrario: si pensi soltanto a personaggi come George H. W. Bush o Dick Cheney: personaggi magari controversi ma non certo incolori. In terzo luogo, non trascuriamo che Biden ha il suo feudo elettorale in Delaware: uno Stato che dispone di appena tre voti elettorali (esattamente come l’Alaska).Cionostante, al di là di queste considerazioni, ci sono anche ragioni più strutturali e profonde che mettono in forse il successo di una eventuale discesa in campo di Biden. In primis, la sua linea politica: una linea politica molto tradizionale e vicina all’establishment di Washington, che propone un sostanziale ritorno alle vecchie logiche della Guerra fredda. Non a caso, negli ultimi mesi, l’ex vicepresidente ha più volte accusato Trump di essere troppo arrendevole nei confronti del presidente russo, Vladimir Putin. Addirittura, secondo Biden, il Cremlino starebbe cercando di attuare interferenze politiche in gran parte dei Paesi occidentali: un anno fa, sostenne per esempio che Mosca avesse aiutato in Italia la Lega e il Movimento 5 Stelle. Una linea sostanzialmente manichea, interventista e aggressiva che tuttavia, come mostrano le vittorie di Obama nel 2008 e Trump nel 2016, non sembra più incontrare il favore di gran parte dell’elettorato americano.Infine, non va trascurato un ulteriore elemento: la consuetudine quarantennale che Biden intrattiene con l’establishment di Washington potrebbe rivelarsi un boomerang, in un contesto elettorale - quello americano - sempre più pervaso da sentimenti anti-sistema. Un tallone d’Achille che l’ex vicepresidente potrebbe scontare non solo in un eventuale scontro diretto contro Trump. Ma anche durante la competizione per la nomination democratica. La sinistra dell’Asinello è sempre più caratterizzata da posizioni di ostilità nei confronti delle alte sfere di Washington. E lo stesso endorsement dato da Biden a Hillary nel 2016 potrebbe avere delle serie ripercussioni per lui in questa nuova tornata elettorale. Figure come la Warren o la Gabbard, per intenderci, stanno facendo della lotta al vecchio potere clintoniano un vessillo delle proprie battaglie politiche e parlamentari. Ecco che allora, qualora si candidasse, Biden rischierebbe di fare la fine che fu di Hillary due anni fa: essere additato come una cariatide della politica, attaccata alla poltrona e incapace di incarnare un senso di effettiva novità programmatica. Certo: rispetto all’ex first lady sarà magari meno antipatico e ha sicuramente meno scheletri nell’armadio. Ma difficilmente basterebbe questo a salvarlo. Quello che molti - soprattutto in Europa - faticano a capire è che un’eventuale discesa in campo di Biden renderebbe l’Asinello nuovamente ostaggio dei poteri che lo hanno già portato al collasso.Perché alla fine è proprio questo il dramma del Partito democratico americano: restare avvinghiato a un passato moribondo, ritrovandosi preda di papaveri senza seguito popolare. Una sfilza di ricchi e potenti falliti di successo, che va da Al Gore a John Kerry a Hillary Clinton per arrivare, infine, probabilmente proprio allo stesso Biden.