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2019-01-14
I dem vogliono togliere dal frigo Biden contro Trump. Ma rischia la fine della Clinton
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Ansa
Al momento la sinistra dem sembra comunque l’area più agguerrita e - soprattutto - quella pronta a sfornare il maggior numero di candidati in una campagna elettorale che si accinge ad essere una delle più affollate (e rissose) della Storia americana. E anche per questo le alte sfere dell’Asinello stanno sempre più aspettando il passo avanti di una figura ben precisa: quella di Joe Biden. Che l’ex vicepresidente di Obama nutra delle ambizioni presidenziali, non è certo un mistero. Sono mesi che lascia intendere di volersi candidare e - soprattutto negli ultimi tempi - ha intensificato i suoi attacchi contro il presidente americano, Donald Trump. Inoltre, al di là dell’estabilshment democratico, non sono pochi coloro che guardano a Biden come l’unica speranza per sconfiggere il magnate newyorchese. Soprattutto in Europa l’ex vicepresidente viene infatti presentato come una persona seria, affidabile, preparata e razionale: una figura in grado di mettere un freno al caos trumpista e ricostruire così un ordine internazionale di stampo più tradizionale. Eppure, a ben vedere, in questa interpretazione forse c’è qualcosa che non va.
Per carità, nessuno mette in discussione la sua preparazione: del resto, è stato senatore del Delaware per trentasei anni e vicepresidente per otto. No, nessuno dubita della sua esperienza politica. La titubanza nasce in realtà da altre considerazioni. Innanzitutto, non dobbiamo dimenticare che Biden sia già stato sconfitto alle primarie democratiche del 1988 e del 2008: segno di come, forse, non possa dirsi una figura troppo brillante nel condurre questa tipologia di campagna elettorale. In secondo luogo, avrà anche esperienza ma come vicepresidente non si è rivelato troppo incisivo. Certo: è noto che i vicepresidenti americani spesso svolgano poco più che funzioni di rappresentanza. Ma è pur vero che la Storia ha spesso dimostrato il contrario: si pensi soltanto a personaggi come George H. W. Bush o Dick Cheney: personaggi magari controversi ma non certo incolori. In terzo luogo, non trascuriamo che Biden ha il suo feudo elettorale in Delaware: uno Stato che dispone di appena tre voti elettorali (esattamente come l’Alaska).
Cionostante, al di là di queste considerazioni, ci sono anche ragioni più strutturali e profonde che mettono in forse il successo di una eventuale discesa in campo di Biden. In primis, la sua linea politica: una linea politica molto tradizionale e vicina all’establishment di Washington, che propone un sostanziale ritorno alle vecchie logiche della Guerra fredda. Non a caso, negli ultimi mesi, l’ex vicepresidente ha più volte accusato Trump di essere troppo arrendevole nei confronti del presidente russo, Vladimir Putin. Addirittura, secondo Biden, il Cremlino starebbe cercando di attuare interferenze politiche in gran parte dei Paesi occidentali: un anno fa, sostenne per esempio che Mosca avesse aiutato in Italia la Lega e il Movimento 5 Stelle. Una linea sostanzialmente manichea, interventista e aggressiva che tuttavia, come mostrano le vittorie di Obama nel 2008 e Trump nel 2016, non sembra più incontrare il favore di gran parte dell’elettorato americano.
Infine, non va trascurato un ulteriore elemento: la consuetudine quarantennale che Biden intrattiene con l’establishment di Washington potrebbe rivelarsi un boomerang, in un contesto elettorale - quello americano - sempre più pervaso da sentimenti anti-sistema. Un tallone d’Achille che l’ex vicepresidente potrebbe scontare non solo in un eventuale scontro diretto contro Trump. Ma anche durante la competizione per la nomination democratica. La sinistra dell’Asinello è sempre più caratterizzata da posizioni di ostilità nei confronti delle alte sfere di Washington. E lo stesso endorsement dato da Biden a Hillary nel 2016 potrebbe avere delle serie ripercussioni per lui in questa nuova tornata elettorale. Figure come la Warren o la Gabbard, per intenderci, stanno facendo della lotta al vecchio potere clintoniano un vessillo delle proprie battaglie politiche e parlamentari. Ecco che allora, qualora si candidasse, Biden rischierebbe di fare la fine che fu di Hillary due anni fa: essere additato come una cariatide della politica, attaccata alla poltrona e incapace di incarnare un senso di effettiva novità programmatica. Certo: rispetto all’ex first lady sarà magari meno antipatico e ha sicuramente meno scheletri nell’armadio. Ma difficilmente basterebbe questo a salvarlo. Quello che molti - soprattutto in Europa - faticano a capire è che un’eventuale discesa in campo di Biden renderebbe l’Asinello nuovamente ostaggio dei poteri che lo hanno già portato al collasso.
Perché alla fine è proprio questo il dramma del Partito democratico americano: restare avvinghiato a un passato moribondo, ritrovandosi preda di papaveri senza seguito popolare. Una sfilza di ricchi e potenti falliti di successo, che va da Al Gore a John Kerry a Hillary Clinton per arrivare, infine, probabilmente proprio allo stesso Biden.
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La campagna elettorale per le primarie democratiche si avvia ad entrare nel vivo. Lo scorso 31 dicembre, la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, ha annunciato la creazione di un comitato esplorativo in vista di una sua prossima discesa in campo. Il tutto, mentre negli ultimi due giorni si sono fatti avanti la deputata delle Hawaii, Tulsi Gabbard, e l’ex ministro dello Sviluppo urbano, Julian Castro: se la prima appare molto spostata a sinistra e tendenzialmente vicina alle posizioni politiche del senatore socialista Bernie Sanders, il secondo risulta leggermente più moderato, per quanto non estraneo all’universo liberal. Che Castro non sia poi così sgradito all’establishment democratico lo dimostra il fatto che, alle primarie del 2016, si schierò a fianco di Hillary Clinton, laddove la Gabbard scelse - con un certo coraggio - di sostenere Sanders, quando ancora tutti lo davano come un outsider balzano senza speranze.Al momento la sinistra dem sembra comunque l’area più agguerrita e - soprattutto - quella pronta a sfornare il maggior numero di candidati in una campagna elettorale che si accinge ad essere una delle più affollate (e rissose) della Storia americana. E anche per questo le alte sfere dell’Asinello stanno sempre più aspettando il passo avanti di una figura ben precisa: quella di Joe Biden. Che l’ex vicepresidente di Obama nutra delle ambizioni presidenziali, non è certo un mistero. Sono mesi che lascia intendere di volersi candidare e - soprattutto negli ultimi tempi - ha intensificato i suoi attacchi contro il presidente americano, Donald Trump. Inoltre, al di là dell’estabilshment democratico, non sono pochi coloro che guardano a Biden come l’unica speranza per sconfiggere il magnate newyorchese. Soprattutto in Europa l’ex vicepresidente viene infatti presentato come una persona seria, affidabile, preparata e razionale: una figura in grado di mettere un freno al caos trumpista e ricostruire così un ordine internazionale di stampo più tradizionale. Eppure, a ben vedere, in questa interpretazione forse c’è qualcosa che non va.Per carità, nessuno mette in discussione la sua preparazione: del resto, è stato senatore del Delaware per trentasei anni e vicepresidente per otto. No, nessuno dubita della sua esperienza politica. La titubanza nasce in realtà da altre considerazioni. Innanzitutto, non dobbiamo dimenticare che Biden sia già stato sconfitto alle primarie democratiche del 1988 e del 2008: segno di come, forse, non possa dirsi una figura troppo brillante nel condurre questa tipologia di campagna elettorale. In secondo luogo, avrà anche esperienza ma come vicepresidente non si è rivelato troppo incisivo. Certo: è noto che i vicepresidenti americani spesso svolgano poco più che funzioni di rappresentanza. Ma è pur vero che la Storia ha spesso dimostrato il contrario: si pensi soltanto a personaggi come George H. W. Bush o Dick Cheney: personaggi magari controversi ma non certo incolori. In terzo luogo, non trascuriamo che Biden ha il suo feudo elettorale in Delaware: uno Stato che dispone di appena tre voti elettorali (esattamente come l’Alaska).Cionostante, al di là di queste considerazioni, ci sono anche ragioni più strutturali e profonde che mettono in forse il successo di una eventuale discesa in campo di Biden. In primis, la sua linea politica: una linea politica molto tradizionale e vicina all’establishment di Washington, che propone un sostanziale ritorno alle vecchie logiche della Guerra fredda. Non a caso, negli ultimi mesi, l’ex vicepresidente ha più volte accusato Trump di essere troppo arrendevole nei confronti del presidente russo, Vladimir Putin. Addirittura, secondo Biden, il Cremlino starebbe cercando di attuare interferenze politiche in gran parte dei Paesi occidentali: un anno fa, sostenne per esempio che Mosca avesse aiutato in Italia la Lega e il Movimento 5 Stelle. Una linea sostanzialmente manichea, interventista e aggressiva che tuttavia, come mostrano le vittorie di Obama nel 2008 e Trump nel 2016, non sembra più incontrare il favore di gran parte dell’elettorato americano.Infine, non va trascurato un ulteriore elemento: la consuetudine quarantennale che Biden intrattiene con l’establishment di Washington potrebbe rivelarsi un boomerang, in un contesto elettorale - quello americano - sempre più pervaso da sentimenti anti-sistema. Un tallone d’Achille che l’ex vicepresidente potrebbe scontare non solo in un eventuale scontro diretto contro Trump. Ma anche durante la competizione per la nomination democratica. La sinistra dell’Asinello è sempre più caratterizzata da posizioni di ostilità nei confronti delle alte sfere di Washington. E lo stesso endorsement dato da Biden a Hillary nel 2016 potrebbe avere delle serie ripercussioni per lui in questa nuova tornata elettorale. Figure come la Warren o la Gabbard, per intenderci, stanno facendo della lotta al vecchio potere clintoniano un vessillo delle proprie battaglie politiche e parlamentari. Ecco che allora, qualora si candidasse, Biden rischierebbe di fare la fine che fu di Hillary due anni fa: essere additato come una cariatide della politica, attaccata alla poltrona e incapace di incarnare un senso di effettiva novità programmatica. Certo: rispetto all’ex first lady sarà magari meno antipatico e ha sicuramente meno scheletri nell’armadio. Ma difficilmente basterebbe questo a salvarlo. Quello che molti - soprattutto in Europa - faticano a capire è che un’eventuale discesa in campo di Biden renderebbe l’Asinello nuovamente ostaggio dei poteri che lo hanno già portato al collasso.Perché alla fine è proprio questo il dramma del Partito democratico americano: restare avvinghiato a un passato moribondo, ritrovandosi preda di papaveri senza seguito popolare. Una sfilza di ricchi e potenti falliti di successo, che va da Al Gore a John Kerry a Hillary Clinton per arrivare, infine, probabilmente proprio allo stesso Biden.
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Secondo un’analisi della Fondazione Eni Enrico Mattei, la decarbonizzazione dell’auto europea stenta: le vendite elettriche sono ferme al 14%, le batterie e le infrastrutture sono arretrate. E mentre Germania e Italia spingono per una maggiore flessibilità, la Commissione europea valuta la revisione normativa.
La decarbonizzazione dell’automobile europea si trova a un bivio. Lo evidenzia un’analisi della Fondazione Eni Enrico Mattei, in un articolo dal titolo Revisione o avvitamento per la decarbonizzazione dell’automobile, che mette in luce le difficoltà del cosiddetto «pacchetto automotive» della Commissione europea e la possibile revisione anticipata del Regolamento Ue 2023/851, che prevede lo stop alle immatricolazioni di auto a combustione interna dal 2035.
Originariamente prevista per il 2026, la revisione del bando è stata anticipata dalle pressioni dell’industria, dal rallentamento del mercato delle auto elettriche e dai mutati equilibri politici in Europa. Germania e Italia, insieme ad altri Stati membri con una forte industria automobilistica, chiedono maggiore flessibilità per conciliare gli obiettivi ambientali con la realtà produttiva.
Il quadro che emerge è complesso. La domanda di veicoli elettrici cresce più lentamente del previsto, la produzione europea di batterie fatica a decollare, le infrastrutture di ricarica restano insufficienti e la concorrenza dei produttori extra-Ue, in particolare cinesi, si fa sempre più pressante. Nel frattempo, il parco auto europeo continua a invecchiare e la riduzione delle emissioni di CO₂ procede a ritmi inferiori alle aspettative.
I dati confermano il divario tra ambizioni e realtà. Nel 2024, meno del 14% delle nuove immatricolazioni nell’Ue a 27 è stata elettrica, mentre il mercato resta dominato dai motori tradizionali. L’utilizzo dell’energia elettrica nel settore dei trasporti stradali, pur in crescita, resta inferiore all’1%, rendendo molto sfidante l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050.
Secondo la Fondazione Eni Enrico Mattei, non è possibile ignorare l’andamento del mercato e le preferenze dei consumatori. Per ridurre le emissioni occorre che le nuove auto elettriche sostituiscano quelle endotermiche già in circolazione, cosa che al momento non sta avvenendo in Italia, seconda solo alla Germania per numero di veicoli.
«Ai 224 milioni di autovetture circolanti nel 2015 nell’Ue, negli ultimi nove anni se ne sono aggiunti oltre 29 milioni con motore a scoppio e poco più di 6 milioni elettriche. Valori che pongono interrogativi sulla strategia della sostituzione del parco circolante e sull’eventuale ruolo di biocarburanti e altre soluzioni», sottolinea Antonio Sileo, Programme Director del Programma Sustainable Mobility della Fondazione. «È necessario un confronto per valutare l’efficacia delle politiche europee e capire se l’Unione punti a una revisione pragmatica della strategia o a un ulteriore avvitamento normativo», conclude Sileo.
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Ecco #DimmiLaVerità del 15 novembre 2025. Con il senatore di Fdi Etel Sigismondi commentiamo l'edizione dei record di Atreju.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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