2025-03-11
I Benetton rovinati da feste e avidità. I flop di Luciano, l’ambiguità del figlio
Esce oggi il nuovo libro di Mario Giordano, che ripercorre la crisi delle dinastie italiane. Tra queste pure la famiglia trevigiana, che banchettava a Cortina subito dopo il crollo per incuria del Morandi: 43 morti.sopra. Ma purtroppo resta sempre l’impressione che quella pietra sia, letteralmente, tombale. Ogni volta che parla, infatti, tornano alla mente quelle quarantatré lapidi. E le lapidi non riescono a far dimenticare lo strazio. Al contrario, lo rinnovano. Ogni volta. Sempre di più.Agosto 2018. Il ponte Morandi è crollato da poche ore. Quarantatré morti. Quarantatré persone uccise dai lavori non fatti. Dalle manutenzioni saltate. Dai risparmi forzati. Dai controlli mancati. E loro, i Benetton, che quel pezzo di autostrada l’avevano avuto in gentile concessione dallo Stato, loro che avevano spremuto la gallina dalle uova d’oro fino all’ultimo pedaggio, loro che si erano riempiti le tasche con tariffe esose e raffiche di aumenti, senza mai preoccuparsi dello stato di conservazione di un bene pubblico affidato alle loro mani, non trovano di meglio, quella sera, di fronte a quarantatré morti, che festeggiare. Festeggiano sui cadaveri. Festeggiano sulla tragedia. Prima un ricevimento serale nella loro villa di Cortina. Poi, il giorno dopo, una grigliata sul prato, risotto e branzino al forno, catering affidato al rinomato ristorante Da Celeste. «La famiglia è morta quel giorno» commentarono i manager del gruppo, intercettati qualche tempo dopo. «La famiglia l’hanno ammazzata le due feste di Cortina».I quattro fratelli che fondarono il gruppo Benetton (Luciano, Giuliana, Gilberto e Carlo) erano orfani. Poveri. Affamati. Determinati. E sono sempre stati molto uniti. I loro eredi (quindici cugini) sono ricchi, viziati, svagati. E divisi. L’unica cosa che li tiene davvero insieme sono i soldi. Ne vogliono tanti. Ne vogliono sempre di più. […] Quando, mesi dopo il crollo del ponte Morandi, qualcuno fa notare che l’Italia ce l’ha con loro, replicano stizziti: «Mica abbiamo fatto niente...» («No, dico, vi siete solo arricchiti» risponderanno i manager). E quando a Treviso si scoprono buchi di bilancio e si organizzano piani per la riduzione dei dipendenti, loro si trincerano dietro nuove alchimie contabili per non rinunciare ai piccoli e grandi privilegi cui sono abituati. Sono fatti così. Per dirla ancora con le parole del manager Gianni Mion, che li conosce meglio di tutti: «Non capiscono un cazzo. Sono indegni. Vogliono solo i soldi. E pensano ai cazzi loro». Quella dei Benetton è la dynasty dei paradossi. Hanno costruito un impero sulla comunicazione, e poi di fronte a quarantatré morti non hanno saputo dire una parola.Hanno lanciato messaggi di fratellanza a tutto il pianeta, e poi di fronte alle difficoltà hanno iniziato a scannarsi in famiglia. Si sono presentati al mondo come maestri di solidarietà, e poi si sono rivelati i re della meschinità. In una delle intercettazioni inedite, mai pubblicate finora, i manager dell’azienda deplorano il fatto che la grande preoccupazione dei rampolli di famiglia, pochi mesi dopo il crollo del ponte, fosse quella di non cambiare palestra. «Li ho mandati in un’altra e si sono lamentati» confidano. Si capisce: quello che conta sono aerobica e spinning. Mica quarantatré famiglie distrutte. Nei primi giorni del gennaio 2020 i medesimi manager cercano di organizzare una riunione fra gli eredi Benetton per affrontare le conseguenze della tragedia. Solo due dei quindici danno un cenno di vita. Uno dice: «Prima del 9-10 non posso» (vacanze lunghe, si capisce). E l’altro: «Non pensavo fosse tutto ’sto casino». Non pensava, ecco. Ci sono quarantatré morti, ma lui non pensava.La famiglia è morta così. Perché non pensava. […] Ma se la famiglia Benetton è morta, anche la fabbrica Benetton non si sente tanto bene. Infatti l’azienda dei maglioni, attorno a cui l’impero è stato costruito, è diventata ormai una briciolina. Un dettaglio. Un residuo marginale. Rappresenta meno del 2 per cento del fatturato totale del gruppo, […] da dieci anni accumula solo perdite su perdite, buchi su buchi, bilanci in rosso su bilanci in rosso: 91 milioni nel 2014, 46 nel 2015, 81 nel 2016, 181 nel 2017, 115 nel 2018, 138 nel 2019, 281 nel 2020, 112 nel 2021, 81 nel 2022 e 235 nel 2023. In totale: un miliardo e 361 milioni bruciati in dieci anni. […]Il 25 maggio 2024 Luciano Benetton lascia l’azienda. È lui stesso ad annunciarlo con una clamorosa intervista a Corriere della Sera. Nei conti dell’azienda, dice, c’è «un buco drammatico». Parla di circa 100 milioni. In realtà sono più del doppio. Ma lui non se n’è nemmeno accorto. Dà la colpa a un manager, senza neppure nominarlo: lo chiama genericamente «l’uomo che viene dalla montagna». Dice che assumere quel manager è stato un errore, se la prende con il consulente che gliel’ha suggerito. Dunque, colpa del manager e colpa del consulente. Come se lui, Luciano, presidente e fondatore, non contasse nulla. Come se fosse lì di passaggio. Eppure, fino al giorno prima, si presentava come il dominus assoluto. Il capo di tutto. Il salvatore della patria. L’unico in grado di risollevare le sorti dell’azienda. […]Mai s’è vista nella storia dell’imprenditoria italiana un’uscita di scena più umiliante e sgangherata. Me lo conferma una persona che conosce benissimo i Benetton. Mi racconta tutti i retroscena umani e aziendali. Poi gli chiedo a bruciapelo come sia possibile rilasciare un’intervista del genere. Lui scuote la testa. Si capisce che ne soffre. Non se ne capacita. E sbotta: «Luciano ha ottantanove anni. Ha diritto di essere rimbambito, non ti pare?». Gianni Mion, che della famiglia Benetton è stato per quarant’anni il Richelieu, l’uomo che li ha accompagnati in tutta la crescita e la trasformazione, è ancora più feroce: in un’intercettazione (20 febbraio 2020) definisce Luciano (allora ottantacinquenne) come «rincoglionito». E poi lo sfotte fra le risate del suo interlocutore: «Ha parlato per un’ora del fatto che lui sta mettendo a posto la Benetton. Lui è molto ottimista. Sta risanando». Giù risate. «Che vuoi fare?» E giù altre risate.[…] E ridevano pure del suo rapporto con il fotografo Oliviero Toscani («quel fesso che lo strumentalizza perché non ha più idee»). Toscani, scomparso nel gennaio 2025, è stato fino all’ultimo vicino a Luciano: nel febbraio 2020 lo aveva anche convinto a mettersi in posa per uno scatto con i giovani del movimento politico delle Sardine. Tutti insieme, allegri, sul prato di Treviso, alla faccia dei morti del ponte e dei buchi di bilancio. «Che cazzata mostruosa, mio Dio» commentarono i manager. […] Luciano Benetton non si è mai fidato di nessuno. Se non di sé stesso. Eppure nel 2005 aveva già scelto l’erede. Era proprio lui, il figlio prediletto, Alessandro il predestinato. «Sarà il capo dell’impero, ma prima si dovrà fare le ossa» disse. Alessandro aveva già quarant’anni. E molti si chiesero: davvero a quarant’anni c’è ancora bisogno di farsi le ossa? Nel frattempo Luciano ci ripensò: «Credo che sia un errore imporre l’erede» si corresse. E così, da allora, sono passati altri vent’anni. Con l’erede designato sempre tenuto fuori dalla porta. Prescelto ma mai scelto. Fino a quel 25 maggio 2024. […] Nel luglio 2024, poche settimane dopo l’intervista al Corriere in cui Luciano annunciava il suo ritiro, la Benetton ha dichiarato 375 esuberi. 375 su 1300 dipendenti. Così è cominciata l’era dei tagli, proprio mentre il fondatore tagliava la corda. […]«Benetton, nuovo patto: più poteri ad Alessandro, debutta in azienda la terza generazione». Il titolo del Sole 24 Ore del 28 giugno 2024 non lascia dubbi. E il testo dell’articolo ancor meno. Alessandro è davvero il nuovo padrone assoluto dell’impero di Treviso. […] Dei quindici eredi di seconda generazione, Alessandro è probabilmente il più capace. Forse il più intraprendente. Di sicuro il più attento all’immagine. Quando parla del ponte Morandi, per esempio, nelle interviste celebrative del Corriere della Sera, fa di tutto per mostrarsi sensibile, delicato, animato da nobili principi. In realtà le intercettazioni della procura di Genova dimostrano che dopo la tragedia lui si preoccupava soprattutto di una cosa: dei soldi. Dei quattrini. Dei dividendi da distribuire. «Nel sistema che abbiamo disegnato i dividendi come minimo sono obbligatori» diceva. Obbligatori, niente meno. In un’altra telefonata li definiva addirittura «sacri». Obbligatori e sacri, come le penitenze del venerdì santo. Ecco quello che conta: i dividendi. I soldi da distribuire. Altro che i valori dei padri fondatori.La verità è che esistono due Alessandro: quello pubblico e quello privato. Quello che si mostra ai giornali e quello che si mostra ai suoi collaboratori. Quello che vive nelle interviste e quello che vive nella realtà. Basta sentire i manager del gruppo: quando parlano di lui dietro le quinte, riflettono un’immagine di Alessandro assai diversa da quella che siamo abituati a vedere sulle copertine delle riviste patinate. «Pensa di essere il migliore, ma non lo è» dicono. E poi: «È vittima della sete di pubblicità». «Va in giro a sfigheggiare». «È un paraculo». «Fa solo casino». Tutte frasi regolarmente registrate, agli atti della procura di Genova. C’è chi aggiunge: «Alessandro pensa di convincere tutti con la comunicazione».In effetti: Alessandro Benetton pensa di convincere tutti con la comunicazione. E molti li convince davvero. Infatti si è costruito un’immagine quasi perfetta. Appare come un imprenditore di successo, amante dell’eleganza, del bon ton, delle cose belle. Quasi un maestro di stile.Ha un sacco di amici importanti sempre pronti a riverirlo. […] È il predestinato. Quello cui nonna Rosa profetizzò, quand’era ancora un bambino, la guida dell’impero: «Penso proprio che un giorno il timone sarà tuo». Ma basta sollevare un po’ la coltre patinata per scoprire un Alessandro tutto diverso rispetto alla narrazione. […]Un Alessandro «paraculo», che «fa solo casino», «vittima della sete di pubblicità». Da un’intercettazione rimasta finora inedita, risulta che Gilberto Benetton, fratello di Luciano, fondatore dell’azienda, nonché guida finanziaria del gruppo fino al momento della sua scomparsa nell’ottobre 2018, avrebbe fatto una raccomandazione in punto di morte: «Non fate Alessandro presidente».Dicono così i manager. Dicono che Gilberto avrebbe raccomandato proprio questo: «Non fate Alessandro presidente». Evidentemente non lo hanno ascoltato. E così oggi c’è un «paraculo» solo al comando.