2022-08-16
Anche gli hacker sbagliano. Quando la gang Lockbit ha colpito un hotel invece di una farmacia
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Non c'è stato solo il caso dell'Agenzia delle entrate, la gang si era già resa nota per un altro errore il 10 aprile scorso, quando fu pubblicato un avviso riportando che era in possesso di 202 file della Farmacia Statuto. Peccato che invece fosse stato colpito il gruppo Statuto.Sono tra i gruppi criminali più temuti nel mondo. Ma anche alla cybergang russa Lockbit a volte capita di sbagliare. Lo si è visto alla fine di luglio, quando c’è stato un furto di danni ai danni dell’agenzia delle entrate. Per più di 24 ore non si è capito se il sistema della nostra agenzia fosse stato bucato o meno. Lockbit ha confermato di aver bucato i server e di aver prelevato 100 giga di file. Mentre Sogei, la società del Mef che gestisce parte dei server delle istituzioni più importanti nel nostro Paese, ha smentito, scrivendo in un comunicato come «dalle prime analisi effettuate non risultano essersi verificati attacchi cyber né essere stati sottratti dati dalle piattaforme ed infrastrutture tecnologiche dell’Amministrazione Finanziaria. Dagli accertamenti tecnici svolti Sogei esclude pertanto che si possa essere verificato un attacco informatico al sito dell’Agenzia delle Entrate. Resta in ogni caso attiva la collaborazione con l’Agenzia per la Cybersicurezza nazionale e la Polizia Postale al fine di dare il massimo supporto alle indagini in corso». A quanto pare Sogei aveva ragione. Perché a essere attaccato alla fine è stato lo studio Studio Teruzzi Commercialisti Gesis Srl, uno studio professionale di commercialisti del Nord Italia. È stata la stessa Gesis a chiarirlo in una nota: «In merito agli articoli pubblicati questa settimana su alcuni media in relazione ad un presunto tentativo di ricatto hacker all’Agenzia delle Entrate, da parte nostra al momento possiamo osservare quanto segue. I dati pubblicati in detti articoli, da quanto ci risulta, non provengono da server dell’Agenzia delle Entrate ma da un nostro server che è stato oggetto di un recente tentativo di intrusione hacker finalizzato alla criptazione dei nostri file ed esfiltrazione di dati, con relativa richiesta di riscatto». Ma Lockbit si era già resa nota per un altro errore il 10 aprile scorso, quando i criminali informatici hanno pubblicato un avviso riportando che era in possesso di 202 file della Farmacia Statuto, storica farmacia sita nel rione Esquilino di Roma. Questi documenti sarebbero stati pubblicati dopo 3 giorni, il 13 aprile, avviando il consueto “countdown” per ottenere il riscatto. A segnalarlo alla farmacia è stato Il team di Red Hot Cyber che ha informato il proprietario della Farmacia, il dottor Pierluciano Pucci, dicendogli che la sua farmacia era stata presa di mira da una banda cyber criminale. «Gli abbiamo anche spiegato che normalmente la gang procede alla cifratura dei dati dei server e delle postazioni di lavoro, rendendoli inutilizzabili, chiedendo poi un riscatto per poterli sbloccare. Abbiamo consigliato Pucci di sporgere denuncia alla Polizia Postale, cosa che ha fatto immediatamente. Subito dopo, Pierluciano Pucci ci ha messo in contatto con l’azienda che gestisce il server web della farmacia, ma dalle analisi svolte non c’era nessuna traccia del malware e della cifratura dei dati. Nel mentre anche la Polizia Postale si è messa in moto immediatamente per comprendere l’accaduto», si legge sul sito. Ma il gruppo si è subito accorto che qualcosa non funzionava. «Non c’era alcun sistema bloccato o malfunzionamento nelle infrastrutture it dell’azienda e soprattutto nessuno aveva lasciato file all’interno dei server o inviato mail per una ipotetica richiesta di riscatto». Poi sono stati pubblicati i dati. E a quel punto il proprietario si è accorto che Lockbit aveva sbagliato bersaglio. Invece della farmacia Statuto era stato colpito “Gruppo Statuto”, una holding che ha Hotel di lusso e aziende su tutto il territorio italiano. Del resto, anche nel caso dell’agenzia delle entrata, la continua ripetizione del nome “Gesis” nelle cartelle pubblicate dalla cyber gang aveva fatto pensare che ci fosse un errore. Il tentativo degli hacker, si legge nella nota dello studio di commercialisti, «ha avuto esito negativo, in quanto i nostri sistemi di backup e di antintrusione hanno evitato qualsiasi perdita di dati e limitato l’esfiltrazione di dati ad una minima parte, in corso di accertamento, di quelli presenti nei nostri server. In particolare sarebbe stato esfiltrato circa il 7% dei dati. Di questa parte, circa il 90% riguarderebbe database di vecchie versioni di programmi gestionali e quindi inutilizzabili”. La nota prosegue: «Non ci sono state conseguenze significative sulle attività nostre e dei nostri clienti. Sono state informate le parti direttamente interessate, incluse le competenti autorità». Spiega il ceo di Swascan Pierguido Iezzi. Che «Lockbit si è sicuramente affermato come uno dei principali threat actors nel panorama delle minacce cyber del 2022. La sua natura decentralizzata e altamente efficiente gli ha permesso di affermarsi rapidamente, superando anche altri nomi noti in questo campo come la gang filo-Cremlino Conti». Lockbit è nata nel 2019 ed è una delle gang di ransomware più attive, rappresentando quasi la metà di tutti gli attacchi di ransomware nel 2022 a livello globale, con più di 400 vittime apertamente menzionate dai criminali all’interno del loro sito. «Il fatto che la gang sia desiderosa di affermarsi con queste dichiarazioni – ha concluso Iezzi – è un segnale inequivocabile della loro forza. Dietro una certa spavalderia, dettata principalmente dalla scomparsa di Conti, c’è la consapevolezza di Lockbit di potersi affermare come leader nel settore del Ransomware. Swascan stessa, in un report di imminente rilascio, ha rilevato come nel secondo trimestre 2022, il gruppo cybercriminale abbia messo a segno 214 attacchi e come, in generale, gli incidenti ransomware rilevati siano cresciuti del 29.9% rispetto al primo trimestre dello stesso anno».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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