
Paola De Micheli, da imprenditrice, vanta il crac milionario di una ditta di conserve e i democratici la spingono per ben due ministeri. Ma sono coerenti: piazzarono Valeria Fedeli, senza laurea, all'Istruzione.Che cosa hai fatto nella vita? «Presiedevo una cooperativa». Di che cosa si occupava? «Pomodori». Allora potresti prendere il ministero dell'Agricoltura. «Buona idea». Ma com'è finita quella cooperativa? «È fallita». Allora potresti andare anche allo Sviluppo economico. Dev'essere andato più o meno così, nelle segrete stanze del Pd, il colloquio con cui si è scelto di puntare su Paola De Micheli come uno degli elementi di spicco del nuovo governo giallo e rossopomodoro. Il quale governo non è ancora nato, forse non nascerà, ma ci regala già emozioni indicibili. Candidare la presidente di una coop fallita allo Sviluppo economico, infatti, è un po' come candidare lo sterminatore di gerani a ministro dell'Ambiente o lo stafilococco aureo a ministro della Sanità. Siamo a livelli di barzelletta.Il fatto va raccontato. Correva l'anno 1998, e Paola De Micheli, dopo alcune esperienze professionali importanti, quali quella di impiegata nell'associazione «Gli eletti dell'Ulivo per Piacenza», diventò presidente e consigliere delegato della Agridoro di Pontenure (Piacenza). La società cooperativa si occupava, per l'appunto, di trasformare e vendere pomodori. Non andrò benissimo: cinque anni dopo, infatti, la coop fu dichiarata fallita e posta in liquidazione coatta. Nell'ultimo bilancio aveva accumulato un debito di 7.265.457 euro. Non è mica impresa da poco accumulare 7 milioni di debiti a colpi di pomodoro. Ma Paoletta ci riuscì alla grande. Tanto che, per la prima volta forse, si può dire che la politica, rubando braccia all'agricoltura, non ha fatto particolari danni. Anzi. Per l'agricoltura è stato un sollievo. Per il resto dell'Italia un po' meno. Ma tant'è.E pensare che la aspirante ministro ci teneva tanto a quei pomodori. «Quella coop era lo scopo della mia vita», confessò a Bruno Vespa, in una serata al sapor di conserva. Aggiungendo: «Ci tengo ai valori». Senza specificare però se in quei valori fossero compresi pure i 7 milioni di debiti. E senza spiegare come mai nel conservare pomodori non sia mostrata allora così brava come poi si è mostrata nel conservare poltrone: da presidente della cooperativa, infatti, la De Micheli prese pure una multa (2.000 euro) per aver lasciato 188 fusti di pomodori pieni di vermi e dall'odore nauseabondo accanto ai prodotti destinati al mercato. «Violazione della legge igienica». Di qui si capisce l'imbarazzo del totoministri: meglio mandarla all'Agricoltura, in virtù della sua esperienza sui pomodori nauseabondi, o allo Sviluppo economico, in virtù della sua esperienza di fallimenti? Quando si hanno così tanti talenti è difficile scegliere quale privilegiare. E Paola di talenti ne ha avuti sempre tanti. Nata a Piacenza, dopo aver preso la maturità classica nel 1992 al liceo Gioia, ha scelto infatti astutamente di iscriversi a una facoltà non proprio impossibile, Scienze Politiche. Ebbene: è riuscita a laurearsi nel 2001. Nove anni per terminare gli studi in Scienze politiche? Non è forse una dimostrazione di abilità straordinaria? C'è da rimanere stupiti che, nell'attuale totoministri, non si pensi a lei anche per la Pubblica istruzione. Se anziché metterci solo nove anni per laurearsi ce ne avesse messi 12, sono sicuro che un pensierino ce l'avrebbero fatto. Anche se a dire il vero lì il Pd preferisce piazzare chi una laurea non ce l'ha proprio.Per il resto il curriculum dell'eterna candidata, alla voce «esperienze professionali», non è particolarmente ricco. Non si registra null'altro di particolarmente importante, a parte l'Ulivo e la coop. Un impiego in un'agenzia, un altro alla Global Chef, un altro al Consorzio Cooperative Conserve Italia (ridagli col pomodoro). E tre mesi di «consulenza a Urumqi» in Cina. Non si sa consulente di che cosa. Ci auguriamo per i cinesi non per l'agricoltura. Molto più interessante, invece, il curriculum politico della De Micheli. Membro della Direzione provinciale della Dc, diventa poi responsabile dei Giovani Popolari, entra nella Margherita e di qui nel Pd, dove si lega subito al carro del suo conterraneo Pierluigi Bersani. Quando Bersani cade, dopo il 2013, Paoletta scopre improvvisamente il suo amore per Enrico Letta. Un amore che così forte che, quando Matteo Renzi a suon di «stai sereno» lo caccia da Palazzo Chigi, lei scoppia a piangere a dirotto. Una carriera interrotta? Macché, non la conoscete: il tempo di asciugarsi le lacrime e diventa sottosegretario all'economia del governo Renzi e quando cade Renzi si fa confermare da Paolo Gentiloni sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Quando poi Nicola Zingaretti diventa segretario del partito, ecco dimenticata la fase bersaniana, quella lettiana, quella renziana e quella gentiloniana, le scatta subito la molla zingarettiana, tanto da guadagnarsi la nomina a vicesegretario, e ora la candidatura a ministro. Che ci volete fare? Tutti la vogliono al fianco, tutti ne apprezzano le doti, alcune delle quali molto evidenti, per la verità. E lei ricambia dando a ogni suo mentore almeno una sicurezza. Quello che lei, prima o poi, gli volterà le spalle.Eppure Paoletta l'arrampicatrice in tacco 12, continua a piacere un sacco. Sempre in tv, sempre agghindata come si deve. Lo sguardo un po' malizioso. Di recente anche i giornalisti sovranisti anti Pd, come Alessandro Giuli, hanno cominciato a tessere le sue lodi esagerate («sa esprimere concetti con capacità seduttive felliniane, è il vero segretario del Pd»). E lei, ambiziosa com'è, non ha nessuna intenzione di fermarsi, ma continua a coltivare (roba da Agricoltura) la sua ascesa inarrestabile (roba da Sviluppo economico), accumulando cariche di ogni tipo, dalla presidenza della Lega Volley alla poltrona di Commissario per la ricostruzione del terremoto del Centro Italia. Quest'ultima l'ha tenuta per oltre un anno, dal settembre 2017 all'ottobre 2018, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti, purtroppo. Macerie mai rimosse, ritardi devastanti, popolazioni abbandonate. E strade mai ricostruite. Ma non ditelo troppo forte se no qualcuno la propone anche per il ministero delle Infrastrutture. «Cosa hai ricostruito da commissario?». Niente. «Allora poi andare alle Infrastrutture». E se poi mi tirano i pomodori come a Toninelli? «Tranquilla, ci puoi sempre fare una cooperativa». E se fallisce come l'altra? «Allora sei proprio fatta per lo Sviluppo economico». Nel tentativo, ovviamente, di far fallire l'intero Paese. Impresa per cui, c'è da scommettere, la candideranno direttamente al Quirinale.
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Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
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Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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