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2023-07-22
La grande balla dell’estate da record gonfiata dai gradi misurati «al suolo»
- Le temperature di questi giorni non sono affatto una novità, anzi in passato si toccarono picchi più elevati. Ma per terrorizzare le persone si pubblicizzano le rilevazioni prese sul terreno, maggiori di quelle classiche.
- Se non cominciamo a sostituire il petrolio la nostra civiltà crollerà. Puntare sulle rinnovabili è un’illusione.
Lo speciale contiene due articoli.
«Tempesta di caldo». «Bolla di fuoco». Non sono i titoli dei nuovi film di Steven Spielberg, ma quelli di alcuni giornali di questi giorni, che hanno scoperto… l’acqua calda: d’estate fa caldo e si suda. Il problema è che oggi come oggi, pur di dimostrare che il clima sta cambiando, la catastrofe incombe, il pianeta sta evaporando, quella che è l’assoluta normalità viene spacciata per emergenza mondiale. Considerazione da negazionisti del clima? Minimizzazione da beceri servi del condizionatore a palla? No: abbiamo semplicemente dato un’occhiata alle temperature di questi giorni in alcune delle principali città italiane, e ci siamo messi a cercare se nel mese di luglio degli anni scorsi, anche andando molto indietro nel tempo, il caldo era effettivamente meno intenso. Risultato? La bolla si è rivelata una balla, come chiunque può agevolmente verificare semplicemente visionando il sito internet ilmeteo.it e spulciando le temperature medie.
Partiamo da Milano: l’altro ieri, 16 luglio, la temperatura media è stata di 29 gradi. Fa caldo, all’ombra della Madonnina? Certo, ma come sempre, se non di meno. Qualche esempio: Il 30 luglio 2020 la temperatura media a Milano era di 30 gradi, così come il 26 luglio 2019, il 28 luglio 2013, il 25 luglio 2006. Il 22 luglio 1995, pensate un po’, la temperatura media a Milano toccò i 31 gradi: altro che bolla di fuoco! Il piccolo dettaglio è che 28 anni fa, stando ai dati, faceva pure più caldo di oggi, ma visto che non c’erano i talebani del clima di oggi, la gente cercava di rinfrescarsi e campava più tranquilla.
Che dire di Venezia? L’altro ieri tra i canali la temperatura media è stata di 28 gradi. Tempesta di caldo! Macché: il 30 e 31 luglio del 2020, la temperatura media a Venezia fu di 29 gradi, così come il 24 e 25 luglio 2019. Il 31 luglio 2018 si registrarono 30 gradi; il 12, 13 e 14 luglio 2010, 29 gradi; il 15 luglio 2010, 29 gradi. Il 16 luglio 2010, 13 anni fa, la temperatura media a Venezia fu di 31 gradi e il giorno dopo di 30: se fosse stata in città, Greta Thunberg, che all’epoca aveva sette anni, si sarebbe tuffata in acqua dalla gondola per sfuggire alla tempesta di caldo. Andando ancora indietro nel tempo a Venezia il 19 e 20 luglio 2000 si registrarono 29 gradi, così come il 24 luglio 1998 e 20 luglio 1983.
È estate e fa caldo pure a Bologna, dove lo scorso 15 luglio la temperatura media è stata di 27 gradi. Caronte sta per distruggerci tutti? È giunta l’ora dell’ultima lasagna? Niente di tutto questo: il 7 luglio 2021 c’erano gli stessi 27 gradi, il 20 luglio 2021 ben 29 gradi, il 21 luglio 2021 28 gradi, il 30 e 31 luglio 2021 29 gradi. Il 7 luglio 2017, a Bologna, la temperatura media fu di 30 gradi, e non dite assolutamente ai climastrofisti che il 2 luglio 2012, ben 11 anni fa, il capoluogo dell’Emilia-Romagna fece registrare una temperatura media di 31 gradi. Il 19 e 20 luglio 2012 a Bologna si registrarono 29 gradi; il 27 luglio 2012, 30 gradi; il 28 luglio 2012, ancora 31 gradi; il 29 e 30 luglio 2005, 30 gradi; il 23 e 24 luglio 1998, 30 gradi; il 22, 23 e 24 luglio 1988, 29 gradi; il 19 luglio 1983, 29 gradi; il 26, 27 e 28 luglio 1983, per tre giorni di fila, a Bologna la temperatura media fu di 31 gradi, ma Greta non era ancora nata e le famiglie non seppero mai di essere finite in una tempesta infernale: pensarono facesse caldo.
A Roma pure fa caldo, incredibile a dirsi: l’altro ieri la temperatura media è stata di 30 gradi, esattamente come quella del 30 luglio 2020, del 15, 16 e 17 luglio 2015, del 13 luglio 2011 e pure del 28 luglio 1983, ben 40 anni fa.
Che calore, che calore, comme coce ’o sole, come cantava Pino Daniele, anche a Napoli: lo scorso 15 luglio, temperatura media di 28 gradi. La fine del mondo è vicina? Allora lo era ancora di più il 2 e 3 luglio 2022, con 30 gradi; il 4,5 e 6 luglio 2022 a 29 gradi; il 31 luglio 2018 con 30 gradi. Dieci anni fa il 27, 28, 29, 30 e 31 luglio 2013 all’ombra del Vesuvio si registrarono 29 gradi; tornando più indietro, il 25, 26 e 27 luglio 1995 ci furono 29 gradi di temperatura media: le famiglie non sapevano che l’apocalisse era vicina, si fecero un bagnetto rinfrescante a Mergellina e se ne tornarono a casa.
Altra moda di questi giorni è parlare di temperatura della superficie terrestre, che guarda un po’ tu è più alta di quella registrata in maniera classica: pur di creare allarmismi tutto fa brodo (ovviamente bollente). Simpatico il siparietto di ieri mattina ad Agorà Estate, su Rai 3: il presentatore Lorenzo Lo Basso, come ha notato Davide Scifo su Twitter, inizia sobriamente la puntata: «Buongiorno da Agorà Estate», esclama, «in questa giornata che potrebbe essere la più calda del secolo!». Qualche minuto dopo Lo Basso chiede al capitano del servizio meteorologico dell’Aeronautica militare, Stefania De Angelis:« È veramente eccezionale questa ondata di calore?»; ma il capitano lo delude: «È effettivamente un’onda di calore», risponde la De Angelis, «con temperature molto alte, ne abbiamo avute tante in passato, e questa è una classica onda di calore». Per Lo Basso, una doccia fredda.
Il greggio finirà, l’unica alternativa è l’atomo
Una realtà che non possiamo negare è che la nostra Terra è tonda e finita e non piatta e infinita, e le risorse che essa ci offre sono necessariamente finite. Generalmente, la produzione di qualunque risorsa finita e che si consuma con l’uso comincia da zero, aumenta fino ad un massimo (o magari, con alcune oscillazioni, fino a più di un massimo), per poi diminuire fino ad un inesorabile ritorno allo zero: il processo di riduzione è indotto dalla diminuzione della risorsa e dal fatto che la pena del processo di produzione aumenta fino a superare il beneficio di avere il prodotto. Cioè – è bene qui sottolineare – per esaurimento intendiamo non necessariamente la effettiva scomparsa della risorsa quanto, piuttosto, la circostanza che, per una ragione o per un’altra, non risulta più conveniente produrla.
In particolare, petrolio, gas e carbone, che oggi costituiscono la fonte per oltre l’85% del nostro fabbisogno energetico, sono destinati a esaurirsi: ci sarà un momento quando di essi l’umanità non si servirà più, o perché li avremo saputi rimpiazzare prima del loro esaurimento o perché si saranno effettivamente esauriti nel senso detto, cioè perché, per una qualche ragione non sarà più conveniente estrarre e lavorare il petrolio, il gas o il carbone rimasti.
La data importante, tuttavia, non è quella di esaurimento di queste risorse, ma è la data in cui si raggiungerà il picco di massima produzione con, da allora in poi, una domanda superiore alla produzione. Non vogliamo neanche immaginare cosa accadrà nel mondo quando la domanda di petrolio sarà insopportabilmente superiore alla offerta. Possiamo però esplorare la possibilità di mitigare la differenza tra domanda e offerta.
Nel 1956, il geofisico Marion King Hubbert pubblicava una ingegnosa analisi matematica ove rappresentava la velocità di produzione del petrolio, in funzione del tempo, con una curva a campana semplificata, cioè con un solo picco massimo che porta oggi il suo nome. Hubbert comunicò ad un mondo incredulo che il picco di produzione americana del petrolio si sarebbe verificato tra il 1966 e il 1971, senza che nessuno gli desse retta. Il picco si verificò nel 1970. Da quella data la produzione americana di petrolio cadeva in inesorabile declino che tale rimase per oltre 30 anni. Nel 1999 fu ripetuta l’analisi di Hubbert su 42 Paesi produttori di petrolio rappresentanti il 98% della produzione mondiale, e il picco di Hubbert mondiale veniva predetto verificarsi nel 2005.
Senonché, l’uso di giacimenti non convenzionali ha ridato aìre alla produzione di petrolio sia negli Usa che nel mondo. La circostanza dà ad alcuni l’illusione che le previsioni «à la Hubbert» siano sciocchezze catastrofiste e che non si verificherà alcun picco. Ma è questa la vera sciocchezza e la vera illusione, perché essa implicherebbe risorse infinite, il che è impossibile vista la finitezza del nostro pianeta. Ad ogni buon conto, al momento sembra che già dal 2018 siamo seduti su un altro picco. Che sia questo un altro picco oppure «il» picco, poco conta: l’esistenza del giorno di quel picco ultimo è ineluttabile. Esso dovrebbe darci l’occasione di guardare in faccia la realtà: la produzione di petrolio sta inesorabilmente declinando; lentamente, ora che siamo a cavallo del picco, ma sempre più velocemente a partire dal prossimo futuro. Il declino è inevitabile e il picnic finirà.
Agli ostinati ottimisti si potrebbe legittimamente obiettare, innanzitutto, che un picco è già passato dal 1980. Se infatti si considera, in funzione del tempo, più che la produzione annua assoluta di petrolio, il rapporto tra la produzione annua e la popolazione della Terra, si osserva un picco nel 1980, e da allora quel rapporto è in costante diminuzione.
Insomma, è dal 1980 che la Terra «produce» esseri umani con maggiore velocità di quanto non produca petrolio.
Una seconda osservazione è che se siamo, oggi, sul picco di Hubbert del petrolio o, peggio, se esso è stato superato, il mondo è in grave ritardo rispetto alle azioni da intraprendere per mitigare gli effetti della diminuzione di produzione del petrolio; se invece il picco avverrà fra qualche decennio, allora il mondo ha l’occasione di agire ed evitare alla prossima generazione la scomoda posizione in cui ci troveremmo noi, oggi, qualora fosse vera la prima circostanza. In ogni caso, il picco di Hubbert del petrolio sarà indubbiamente una data storica e solennemente ricordata, dalle generazioni future, come l’apice della civiltà del petrolio, la cui ascesa, splendore e declino avranno nella curva di Hubbert il suo simbolo più significativo, come le Piramidi, l’Acropoli di Atene e il Colosseo sono i simboli delle civiltà egizia, greca e romana.
La nostra civiltà, però, più che del petrolio, è la civiltà della disponibilità di energia abbondante e a buon mercato. E l’esaurimento del petrolio (o, in generale, dei combustibili fossili) non necessariamente significherà la fine della nostra civiltà se solo sapremo quei combustibili fossili sostituire. A questo proposito, devo dare una notizia buona e una cattiva.
La buona notizia è che avremmo, già da oggi, la possibilità di operare quella sostituzione in modo da minimizzare le sofferenze conseguenti alla minore disponibilità di combustibili fossili. La cattiva notizia è che il mondo non s’è ancora sbarazzato dell’ideologia ambientalista. Questa, armata della più assoluta ignoranza non solo scientifica ma anche di aritmetica elementare, induce a coltivare illusioni che, se perseguite, non solo accelereranno la morte di questa nostra civiltà, ma provocheranno quella di miliardi di esseri umani.
L’imperativo categorico, allora sarebbe: ignorare gli ambientalisti e agire in fretta nel settore energetico. A chi non si rendesse conto della gravità del problema, gli basti pensare che l’80% dei costi in agricoltura sono direttamente o indirettamente legati ai costi di combustibile e, pertanto, la moderna agricoltura può definirsi come la trasformazione di petrolio in cibo: niente petrolio, niente cibo. Agire nel modo sbagliato, quindi, ci può essere fatale.
Per fortuna non siamo condannati né a subire passivamente le conseguenze dell’ineluttabile esaurimento del petrolio, né ad affossarci coltivando le illusioni con cui ci abbagliano gli ambientalisti. Cioè non esiste solo la via delle farlocche tecnologie eolica e fotovoltaica che ci condurrà dritti dritti nel baratro. Esiste anche una reale via d’uscita: quella del nucleare da fissione, una tecnologia matura, sicura, economica, e che si serve di una fonte abbondante e disponibile per millenni.
Le temperature di questi giorni non sono affatto una novità, anzi in passato si toccarono picchi più elevati. Ma per terrorizzare le persone si pubblicizzano le rilevazioni prese sul terreno, maggiori di quelle classiche.Se non cominciamo a sostituire il petrolio la nostra civiltà crollerà. Puntare sulle rinnovabili è un’illusione.Lo speciale contiene due articoli.«Tempesta di caldo». «Bolla di fuoco». Non sono i titoli dei nuovi film di Steven Spielberg, ma quelli di alcuni giornali di questi giorni, che hanno scoperto… l’acqua calda: d’estate fa caldo e si suda. Il problema è che oggi come oggi, pur di dimostrare che il clima sta cambiando, la catastrofe incombe, il pianeta sta evaporando, quella che è l’assoluta normalità viene spacciata per emergenza mondiale. Considerazione da negazionisti del clima? Minimizzazione da beceri servi del condizionatore a palla? No: abbiamo semplicemente dato un’occhiata alle temperature di questi giorni in alcune delle principali città italiane, e ci siamo messi a cercare se nel mese di luglio degli anni scorsi, anche andando molto indietro nel tempo, il caldo era effettivamente meno intenso. Risultato? La bolla si è rivelata una balla, come chiunque può agevolmente verificare semplicemente visionando il sito internet ilmeteo.it e spulciando le temperature medie. Partiamo da Milano: l’altro ieri, 16 luglio, la temperatura media è stata di 29 gradi. Fa caldo, all’ombra della Madonnina? Certo, ma come sempre, se non di meno. Qualche esempio: Il 30 luglio 2020 la temperatura media a Milano era di 30 gradi, così come il 26 luglio 2019, il 28 luglio 2013, il 25 luglio 2006. Il 22 luglio 1995, pensate un po’, la temperatura media a Milano toccò i 31 gradi: altro che bolla di fuoco! Il piccolo dettaglio è che 28 anni fa, stando ai dati, faceva pure più caldo di oggi, ma visto che non c’erano i talebani del clima di oggi, la gente cercava di rinfrescarsi e campava più tranquilla.Che dire di Venezia? L’altro ieri tra i canali la temperatura media è stata di 28 gradi. Tempesta di caldo! Macché: il 30 e 31 luglio del 2020, la temperatura media a Venezia fu di 29 gradi, così come il 24 e 25 luglio 2019. Il 31 luglio 2018 si registrarono 30 gradi; il 12, 13 e 14 luglio 2010, 29 gradi; il 15 luglio 2010, 29 gradi. Il 16 luglio 2010, 13 anni fa, la temperatura media a Venezia fu di 31 gradi e il giorno dopo di 30: se fosse stata in città, Greta Thunberg, che all’epoca aveva sette anni, si sarebbe tuffata in acqua dalla gondola per sfuggire alla tempesta di caldo. Andando ancora indietro nel tempo a Venezia il 19 e 20 luglio 2000 si registrarono 29 gradi, così come il 24 luglio 1998 e 20 luglio 1983.È estate e fa caldo pure a Bologna, dove lo scorso 15 luglio la temperatura media è stata di 27 gradi. Caronte sta per distruggerci tutti? È giunta l’ora dell’ultima lasagna? Niente di tutto questo: il 7 luglio 2021 c’erano gli stessi 27 gradi, il 20 luglio 2021 ben 29 gradi, il 21 luglio 2021 28 gradi, il 30 e 31 luglio 2021 29 gradi. Il 7 luglio 2017, a Bologna, la temperatura media fu di 30 gradi, e non dite assolutamente ai climastrofisti che il 2 luglio 2012, ben 11 anni fa, il capoluogo dell’Emilia-Romagna fece registrare una temperatura media di 31 gradi. Il 19 e 20 luglio 2012 a Bologna si registrarono 29 gradi; il 27 luglio 2012, 30 gradi; il 28 luglio 2012, ancora 31 gradi; il 29 e 30 luglio 2005, 30 gradi; il 23 e 24 luglio 1998, 30 gradi; il 22, 23 e 24 luglio 1988, 29 gradi; il 19 luglio 1983, 29 gradi; il 26, 27 e 28 luglio 1983, per tre giorni di fila, a Bologna la temperatura media fu di 31 gradi, ma Greta non era ancora nata e le famiglie non seppero mai di essere finite in una tempesta infernale: pensarono facesse caldo.A Roma pure fa caldo, incredibile a dirsi: l’altro ieri la temperatura media è stata di 30 gradi, esattamente come quella del 30 luglio 2020, del 15, 16 e 17 luglio 2015, del 13 luglio 2011 e pure del 28 luglio 1983, ben 40 anni fa. Che calore, che calore, comme coce ’o sole, come cantava Pino Daniele, anche a Napoli: lo scorso 15 luglio, temperatura media di 28 gradi. La fine del mondo è vicina? Allora lo era ancora di più il 2 e 3 luglio 2022, con 30 gradi; il 4,5 e 6 luglio 2022 a 29 gradi; il 31 luglio 2018 con 30 gradi. Dieci anni fa il 27, 28, 29, 30 e 31 luglio 2013 all’ombra del Vesuvio si registrarono 29 gradi; tornando più indietro, il 25, 26 e 27 luglio 1995 ci furono 29 gradi di temperatura media: le famiglie non sapevano che l’apocalisse era vicina, si fecero un bagnetto rinfrescante a Mergellina e se ne tornarono a casa. Altra moda di questi giorni è parlare di temperatura della superficie terrestre, che guarda un po’ tu è più alta di quella registrata in maniera classica: pur di creare allarmismi tutto fa brodo (ovviamente bollente). Simpatico il siparietto di ieri mattina ad Agorà Estate, su Rai 3: il presentatore Lorenzo Lo Basso, come ha notato Davide Scifo su Twitter, inizia sobriamente la puntata: «Buongiorno da Agorà Estate», esclama, «in questa giornata che potrebbe essere la più calda del secolo!». Qualche minuto dopo Lo Basso chiede al capitano del servizio meteorologico dell’Aeronautica militare, Stefania De Angelis:« È veramente eccezionale questa ondata di calore?»; ma il capitano lo delude: «È effettivamente un’onda di calore», risponde la De Angelis, «con temperature molto alte, ne abbiamo avute tante in passato, e questa è una classica onda di calore». Per Lo Basso, una doccia fredda.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/grande-balla-caldo-record-2662325045.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-greggio-finira-lunica-alternativa-e-latomo" data-post-id="2662325045" data-published-at="1689651664" data-use-pagination="False"> Il greggio finirà, l’unica alternativa è l’atomo Una realtà che non possiamo negare è che la nostra Terra è tonda e finita e non piatta e infinita, e le risorse che essa ci offre sono necessariamente finite. 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In particolare, petrolio, gas e carbone, che oggi costituiscono la fonte per oltre l’85% del nostro fabbisogno energetico, sono destinati a esaurirsi: ci sarà un momento quando di essi l’umanità non si servirà più, o perché li avremo saputi rimpiazzare prima del loro esaurimento o perché si saranno effettivamente esauriti nel senso detto, cioè perché, per una qualche ragione non sarà più conveniente estrarre e lavorare il petrolio, il gas o il carbone rimasti. La data importante, tuttavia, non è quella di esaurimento di queste risorse, ma è la data in cui si raggiungerà il picco di massima produzione con, da allora in poi, una domanda superiore alla produzione. Non vogliamo neanche immaginare cosa accadrà nel mondo quando la domanda di petrolio sarà insopportabilmente superiore alla offerta. Possiamo però esplorare la possibilità di mitigare la differenza tra domanda e offerta. Nel 1956, il geofisico Marion King Hubbert pubblicava una ingegnosa analisi matematica ove rappresentava la velocità di produzione del petrolio, in funzione del tempo, con una curva a campana semplificata, cioè con un solo picco massimo che porta oggi il suo nome. Hubbert comunicò ad un mondo incredulo che il picco di produzione americana del petrolio si sarebbe verificato tra il 1966 e il 1971, senza che nessuno gli desse retta. Il picco si verificò nel 1970. Da quella data la produzione americana di petrolio cadeva in inesorabile declino che tale rimase per oltre 30 anni. Nel 1999 fu ripetuta l’analisi di Hubbert su 42 Paesi produttori di petrolio rappresentanti il 98% della produzione mondiale, e il picco di Hubbert mondiale veniva predetto verificarsi nel 2005. Senonché, l’uso di giacimenti non convenzionali ha ridato aìre alla produzione di petrolio sia negli Usa che nel mondo. La circostanza dà ad alcuni l’illusione che le previsioni «à la Hubbert» siano sciocchezze catastrofiste e che non si verificherà alcun picco. Ma è questa la vera sciocchezza e la vera illusione, perché essa implicherebbe risorse infinite, il che è impossibile vista la finitezza del nostro pianeta. Ad ogni buon conto, al momento sembra che già dal 2018 siamo seduti su un altro picco. Che sia questo un altro picco oppure «il» picco, poco conta: l’esistenza del giorno di quel picco ultimo è ineluttabile. Esso dovrebbe darci l’occasione di guardare in faccia la realtà: la produzione di petrolio sta inesorabilmente declinando; lentamente, ora che siamo a cavallo del picco, ma sempre più velocemente a partire dal prossimo futuro. Il declino è inevitabile e il picnic finirà. Agli ostinati ottimisti si potrebbe legittimamente obiettare, innanzitutto, che un picco è già passato dal 1980. Se infatti si considera, in funzione del tempo, più che la produzione annua assoluta di petrolio, il rapporto tra la produzione annua e la popolazione della Terra, si osserva un picco nel 1980, e da allora quel rapporto è in costante diminuzione. Insomma, è dal 1980 che la Terra «produce» esseri umani con maggiore velocità di quanto non produca petrolio. Una seconda osservazione è che se siamo, oggi, sul picco di Hubbert del petrolio o, peggio, se esso è stato superato, il mondo è in grave ritardo rispetto alle azioni da intraprendere per mitigare gli effetti della diminuzione di produzione del petrolio; se invece il picco avverrà fra qualche decennio, allora il mondo ha l’occasione di agire ed evitare alla prossima generazione la scomoda posizione in cui ci troveremmo noi, oggi, qualora fosse vera la prima circostanza. In ogni caso, il picco di Hubbert del petrolio sarà indubbiamente una data storica e solennemente ricordata, dalle generazioni future, come l’apice della civiltà del petrolio, la cui ascesa, splendore e declino avranno nella curva di Hubbert il suo simbolo più significativo, come le Piramidi, l’Acropoli di Atene e il Colosseo sono i simboli delle civiltà egizia, greca e romana. La nostra civiltà, però, più che del petrolio, è la civiltà della disponibilità di energia abbondante e a buon mercato. E l’esaurimento del petrolio (o, in generale, dei combustibili fossili) non necessariamente significherà la fine della nostra civiltà se solo sapremo quei combustibili fossili sostituire. A questo proposito, devo dare una notizia buona e una cattiva. La buona notizia è che avremmo, già da oggi, la possibilità di operare quella sostituzione in modo da minimizzare le sofferenze conseguenti alla minore disponibilità di combustibili fossili. La cattiva notizia è che il mondo non s’è ancora sbarazzato dell’ideologia ambientalista. Questa, armata della più assoluta ignoranza non solo scientifica ma anche di aritmetica elementare, induce a coltivare illusioni che, se perseguite, non solo accelereranno la morte di questa nostra civiltà, ma provocheranno quella di miliardi di esseri umani. L’imperativo categorico, allora sarebbe: ignorare gli ambientalisti e agire in fretta nel settore energetico. A chi non si rendesse conto della gravità del problema, gli basti pensare che l’80% dei costi in agricoltura sono direttamente o indirettamente legati ai costi di combustibile e, pertanto, la moderna agricoltura può definirsi come la trasformazione di petrolio in cibo: niente petrolio, niente cibo. Agire nel modo sbagliato, quindi, ci può essere fatale. Per fortuna non siamo condannati né a subire passivamente le conseguenze dell’ineluttabile esaurimento del petrolio, né ad affossarci coltivando le illusioni con cui ci abbagliano gli ambientalisti. Cioè non esiste solo la via delle farlocche tecnologie eolica e fotovoltaica che ci condurrà dritti dritti nel baratro. Esiste anche una reale via d’uscita: quella del nucleare da fissione, una tecnologia matura, sicura, economica, e che si serve di una fonte abbondante e disponibile per millenni.
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Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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