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2022-11-01
Gli ultrà del vaccino muti sulla sanità a pezzi
Nino Cartabellotta (imagoeconomica
È quasi isterica la reazione contro la decisione del governo di reintegrare da oggi i sanitari non vaccinati. Sono soprattutto i camici bianchi a scagliarsi contro quella che viene definita una «sanatoria», «un’amnistia anti-scientifica e diseducativa», secondo Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gambe.
«Un colpo di spugna inaccettabile», copyright Walter Ricciardi, ex consigliere dell’ex ministro della Salute Roberto Speranza; «una decisione politica che va contro coloro che si sono vaccinati», si unisce al coro di protesta il microbiologo Andrea Crisanti, neo senatore dem, convinto che sia un grave errore rinunciare a perseguire con la sospensione e la negazione dello stipendio medici e infermieri, che non hanno ceduto al ricatto vaccinale. In tanto schiamazzo, si invoca pure rispetto per i deceduti, come se rimettere in corsia e negli ambulatori professionisti indispensabili sia un insulto alla memoria di chi è stato stroncato dal virus, o da patologie cui il Covid ha dato il colpo fatale. «Non dimentichiamo i 180.000 italiani morti di Covid», ha strepitato il sindaco di Firenze, Dario Nardella. Il ministero della Salute motiva la decisione, sottolineando la «preoccupante carenza di personale medico e sanitario segnalata dai responsabili delle strutture sanitarie e territoriali», che affligge milioni di cittadini, però è meglio ribadire l’integralismo ideologico come ha fatto il giornalista Andrea Vianello, secondo il quale «reintegrare i medici no vax sarebbe offensivo verso il periodo terribile che abbiamo vissuto».
L’attenzione, nei confronti di popolazioni che tanto hanno sofferto per il Covid si sarebbe dovuta tradurre in attenzione alla loro assistenza sanitaria. Guardiamo quanto è successo nella Val Seriana, falcidiata dal Covid 19. Nel gennaio del 2021, i sindaci di Gandellino, Gromo, Valbondione e Valgoglio scrissero all’Agenzia di tutela della salute (Ats) di Bergamo per segnalare «la grave situazione di disagio in cui versa l’Alta Valle Seriana a causa della carenza di medici di base». Dicevano di non comprendere perché «gli abitanti non trovino alcuna attenzione da parte vostra». Nei piccoli Comuni montani c’erano disagi enormi, con anziani che rappresentano la metà della popolazione locale e che «necessitano di particolari tutela, cure e attenzioni», mentre il trasporto locale «è ridotto ai minimi termini».
Un anno dopo, nel gennaio 2022, era il sindaco di Castione della Presolana, Angelo Migliorati, a invocare provvedimenti urgenti in quanto «oltre 3.000 cittadini non hanno un medico di base nel pieno di una pandemia», e mentre tutti sostenevano la «necessità di una forte e radicata medicina territoriale».
Il sindaco fu durissimo: «La politica faccia la sua parte, non pensando solamente all’eccellenza ospedaliera, ma rendendosi conto che abbandonare i cittadini senza assistenza medica di base, vìola i diritti umani e costituzionali alla salute».
Non interessava sapere se i sanitari fossero o meno vaccinati (avrebbero utilizzato mascherine e tutte le cautele necessarie), serviva assistenza medica che non arrivava e che stava avendo conseguenze pesantissime sul territorio. Migliorati lo denunciò con maggior forza ad agosto, minacciando di denuncia penale l’Ats Bergamo se non ripristinava nel giro di 48 ore la Continuità assistenziale diurna nei locali messi a disposizione dal Comune. «I cittadini sono ancora senza medico di famiglia e sono costretti a fare 80 chilometri per una ricetta medica, ma spesso se non riescono a spostarsi, rinunciano a curarsi», dichiarò esasperato.
La conferma arrivava dall’alto numero di decessi, 30, che si era registrato già a luglio, mentre in tutto il 2021 in paese morirono 32 persone. Un possibile raddoppio della mortalità nel 2022, forse ha tra le sue cause un «diritto violato» a curarsi, tuonò il primo cittadino. E per fortuna che una targa, posta nell’ottobre del 2020, dovrebbe ricordare le 22 persone morte per Covid in quattro mesi a Castione. «Per non dimenticarli», è stato inciso sulla pietra. Bel modo di preoccuparsi della salute dei familiari di quelle vittime e dei cittadini tutti, che vissero quell’epidemia, lasciandoli senza medico di base. Magari c’era qualche dottore non vaccinato, pronto a prestare il suo operato, però sarebbe stato considerato un irresponsabile, da tenere sospeso.
E non dimentichiamo gli 8.000 pazienti di Treviglio, Brignano, Caravaggio, Casirate, abbandonati a sé stessi la scorsa estate senza servizio di continuità assistenziale diurno. Situazione analoga a Nembro, dove a inizio pandemia morirono in due mesi 188 persone. Altro che retorico rispetto per le vittime del Covid, gli abitanti di quei luoghi flagellati hanno diritto a una medicina del territorio capillare ed efficiente, che prevenga inutili morti.
Però questo interessa poco, ai talebani del vaccino. Preferiscono caldeggiare doppi richiami, vaccinazioni ai minori e dirsi certi che il virus provocherà altri guai, magari per colpa dei sanitari non vaccinati che sono tornati in corsia.
Prescrizioni dei monoclonali in calo. Inutilizzato il 90% degli antivirali
Acquistati, sottoutilizzati e in scadenza: è il destino degli anticorpi monoclonali e antivirali per il Covid.
Di fronte al potere assoluto conferito ai vaccini dall’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il dato non meraviglia, ma evidenzia ancora una volta non solo uno spreco di centinaia di milioni di euro ma, cosa più grave, la perdita di vite umane che si sarebbero potute (e si potrebbero) evitare, con un cambiamento di rotta. «Da più parti è stato lanciato l’allarme», dice alla Verità Maria Rita Gismondo, direttore del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica dell’Ospedale Sacco di Milano. «Sono in scadenza - continua - ed è un peccato, per farmaci utili, utilissimi. Nel caso degli antivirali, il successo è del 91% dei casi. Per i monoclonali il discorso è diverso, perché non sono sempre somministrabili, hanno un impiego più selettivo, ma sono utili ed efficaci nei casi indicati. Su questi c’è stato uno scarsissimo utilizzo».
Lo dimostrano anche i numeri ufficiali dell’Agenzia del farmaco (Aifa) dell’ultimo monitoraggio settimanale, dal 13 al 19 ottobre. Dopo una fase di aumento, sono tornate a calare le prescrizioni di anticorpi monoclonali anti-Covid nell’ordine del 10%. In 7 giorni si è registrato un calo per le richieste di sotrovimab (Xevudy) di Gsk pari al 9,9%, e di Evusheld di Astrazenca (tixagevimab-cilgavimab) pari al 10,4%. L’unica cosa che aumenta, lievemente, è l’uso di Evusheld in profilassi, pari al +4%. Ma come termine di paragone basta considerare che dal 10 marzo 2021, da quando cioè sono stati autorizzati in via emergenziale nel nostro Paese, sono stati trattati 81.579 italiani e solo per il primo monoclonale disponibile, quello di Eli Lilly, sono state acquistate 150.000 dosi per un totale di un centinaio di milioni di euro.
Gli anticorpi monoclonali «devono essere sempre aggiornati perché sono specifici, se cambia il virus dobbiamo cambiare i monoclonali con cui vogliamo bloccarlo», spiega Gismondo osservando che «è un parere personale» perché «siamo ancora in una fase di analisi, ma gli antivirali potrebbero essere assolutamente sufficienti per combattere la patologia, se impiegati entro i 5 giorni della positività». Un’impresa tutt’altro che facile, come dimostrano i dati di Aifa al 5 ottobre. Le prescrizioni di Paxlovid, l’antivirale di Pfizer fanno + 6,97%. Dall’inizio della sua distribuzione sono stati utilizzati 67.886 trattamenti: le farmacie valgono 39.066 (+9,85%). Il punto è che a tre mesi dalla fine dell’anno, siamo di fronte a un netto sottoutilizzo rispetto alle 600.000 terapie opzionate per il 2022: è praticamente inutilizzato il 90% delle cure per le quali la spesa è certa e la scadenza, con questi ritmi d’impiego, incombente. Segna +2,64% anche Molnupiravir, l’antivirale di Merck che però è distribuito solo in ospedale, di cui son stati erogati 46.631 trattamenti.
Le cause di questa situazione, con sprechi di risorse e di possibili decessi? «Mancanza di informazione e reticenza da parte dei medici, bloccati da vecchie paure e minacce», sintetizza Gismondo. «Il discorso è generale. Tutte le energie sono state messe sui vaccini - sottolinea - quello che non era vaccino era antagonista. Ma le terapie, nelle infezioni sono complementari. I vaccini servivano nella prima fase, nelle persone anziane, con malattie croniche. La gravità del Covid - ricorda l’esperta - è per gli anziani e per i pazienti fragili, come accade in tutte le malattie virali. I vaccini, in quanto tali, non sono armi in alternativa o in opposizione alla terapia». Ora, cure efficaci rischiano di scadere perché «si è puntato solo sul vaccino e si è fatto intendere, in modo subdolo, che chi volesse intraprendere una terapia, fosse una sorta di fuorilegge», conclude.
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I vedovi dei diktat invocano le vittime del virus contro il reintegro dei renitenti. Propaganda becera che tace sulla mancata assistenza nelle zone più colpite. Come la Val Seriana, dove i cittadini sono rimasti senza sostegno medico in piena pandemia. E lo sono ancora.Anticorpi a rischio scadenza. Maria Rita Gismondo: «Vanno aggiornati. Sforzi spesi solo sui sieri».Lo speciale contiene due articoliÈ quasi isterica la reazione contro la decisione del governo di reintegrare da oggi i sanitari non vaccinati. Sono soprattutto i camici bianchi a scagliarsi contro quella che viene definita una «sanatoria», «un’amnistia anti-scientifica e diseducativa», secondo Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gambe.«Un colpo di spugna inaccettabile», copyright Walter Ricciardi, ex consigliere dell’ex ministro della Salute Roberto Speranza; «una decisione politica che va contro coloro che si sono vaccinati», si unisce al coro di protesta il microbiologo Andrea Crisanti, neo senatore dem, convinto che sia un grave errore rinunciare a perseguire con la sospensione e la negazione dello stipendio medici e infermieri, che non hanno ceduto al ricatto vaccinale. In tanto schiamazzo, si invoca pure rispetto per i deceduti, come se rimettere in corsia e negli ambulatori professionisti indispensabili sia un insulto alla memoria di chi è stato stroncato dal virus, o da patologie cui il Covid ha dato il colpo fatale. «Non dimentichiamo i 180.000 italiani morti di Covid», ha strepitato il sindaco di Firenze, Dario Nardella. Il ministero della Salute motiva la decisione, sottolineando la «preoccupante carenza di personale medico e sanitario segnalata dai responsabili delle strutture sanitarie e territoriali», che affligge milioni di cittadini, però è meglio ribadire l’integralismo ideologico come ha fatto il giornalista Andrea Vianello, secondo il quale «reintegrare i medici no vax sarebbe offensivo verso il periodo terribile che abbiamo vissuto». L’attenzione, nei confronti di popolazioni che tanto hanno sofferto per il Covid si sarebbe dovuta tradurre in attenzione alla loro assistenza sanitaria. Guardiamo quanto è successo nella Val Seriana, falcidiata dal Covid 19. Nel gennaio del 2021, i sindaci di Gandellino, Gromo, Valbondione e Valgoglio scrissero all’Agenzia di tutela della salute (Ats) di Bergamo per segnalare «la grave situazione di disagio in cui versa l’Alta Valle Seriana a causa della carenza di medici di base». Dicevano di non comprendere perché «gli abitanti non trovino alcuna attenzione da parte vostra». Nei piccoli Comuni montani c’erano disagi enormi, con anziani che rappresentano la metà della popolazione locale e che «necessitano di particolari tutela, cure e attenzioni», mentre il trasporto locale «è ridotto ai minimi termini». Un anno dopo, nel gennaio 2022, era il sindaco di Castione della Presolana, Angelo Migliorati, a invocare provvedimenti urgenti in quanto «oltre 3.000 cittadini non hanno un medico di base nel pieno di una pandemia», e mentre tutti sostenevano la «necessità di una forte e radicata medicina territoriale». Il sindaco fu durissimo: «La politica faccia la sua parte, non pensando solamente all’eccellenza ospedaliera, ma rendendosi conto che abbandonare i cittadini senza assistenza medica di base, vìola i diritti umani e costituzionali alla salute». Non interessava sapere se i sanitari fossero o meno vaccinati (avrebbero utilizzato mascherine e tutte le cautele necessarie), serviva assistenza medica che non arrivava e che stava avendo conseguenze pesantissime sul territorio. Migliorati lo denunciò con maggior forza ad agosto, minacciando di denuncia penale l’Ats Bergamo se non ripristinava nel giro di 48 ore la Continuità assistenziale diurna nei locali messi a disposizione dal Comune. «I cittadini sono ancora senza medico di famiglia e sono costretti a fare 80 chilometri per una ricetta medica, ma spesso se non riescono a spostarsi, rinunciano a curarsi», dichiarò esasperato. La conferma arrivava dall’alto numero di decessi, 30, che si era registrato già a luglio, mentre in tutto il 2021 in paese morirono 32 persone. Un possibile raddoppio della mortalità nel 2022, forse ha tra le sue cause un «diritto violato» a curarsi, tuonò il primo cittadino. E per fortuna che una targa, posta nell’ottobre del 2020, dovrebbe ricordare le 22 persone morte per Covid in quattro mesi a Castione. «Per non dimenticarli», è stato inciso sulla pietra. Bel modo di preoccuparsi della salute dei familiari di quelle vittime e dei cittadini tutti, che vissero quell’epidemia, lasciandoli senza medico di base. Magari c’era qualche dottore non vaccinato, pronto a prestare il suo operato, però sarebbe stato considerato un irresponsabile, da tenere sospeso. E non dimentichiamo gli 8.000 pazienti di Treviglio, Brignano, Caravaggio, Casirate, abbandonati a sé stessi la scorsa estate senza servizio di continuità assistenziale diurno. Situazione analoga a Nembro, dove a inizio pandemia morirono in due mesi 188 persone. Altro che retorico rispetto per le vittime del Covid, gli abitanti di quei luoghi flagellati hanno diritto a una medicina del territorio capillare ed efficiente, che prevenga inutili morti. Però questo interessa poco, ai talebani del vaccino. Preferiscono caldeggiare doppi richiami, vaccinazioni ai minori e dirsi certi che il virus provocherà altri guai, magari per colpa dei sanitari non vaccinati che sono tornati in corsia.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gli-ultra-del-vaccino-muti-sulla-sanita-a-pezzi-2658576498.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="prescrizioni-dei-monoclonali-in-calo-inutilizzato-il-90-degli-antivirali" data-post-id="2658576498" data-published-at="1667260440" data-use-pagination="False"> Prescrizioni dei monoclonali in calo. Inutilizzato il 90% degli antivirali Acquistati, sottoutilizzati e in scadenza: è il destino degli anticorpi monoclonali e antivirali per il Covid. Di fronte al potere assoluto conferito ai vaccini dall’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il dato non meraviglia, ma evidenzia ancora una volta non solo uno spreco di centinaia di milioni di euro ma, cosa più grave, la perdita di vite umane che si sarebbero potute (e si potrebbero) evitare, con un cambiamento di rotta. «Da più parti è stato lanciato l’allarme», dice alla Verità Maria Rita Gismondo, direttore del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica dell’Ospedale Sacco di Milano. «Sono in scadenza - continua - ed è un peccato, per farmaci utili, utilissimi. Nel caso degli antivirali, il successo è del 91% dei casi. Per i monoclonali il discorso è diverso, perché non sono sempre somministrabili, hanno un impiego più selettivo, ma sono utili ed efficaci nei casi indicati. Su questi c’è stato uno scarsissimo utilizzo». Lo dimostrano anche i numeri ufficiali dell’Agenzia del farmaco (Aifa) dell’ultimo monitoraggio settimanale, dal 13 al 19 ottobre. Dopo una fase di aumento, sono tornate a calare le prescrizioni di anticorpi monoclonali anti-Covid nell’ordine del 10%. In 7 giorni si è registrato un calo per le richieste di sotrovimab (Xevudy) di Gsk pari al 9,9%, e di Evusheld di Astrazenca (tixagevimab-cilgavimab) pari al 10,4%. L’unica cosa che aumenta, lievemente, è l’uso di Evusheld in profilassi, pari al +4%. Ma come termine di paragone basta considerare che dal 10 marzo 2021, da quando cioè sono stati autorizzati in via emergenziale nel nostro Paese, sono stati trattati 81.579 italiani e solo per il primo monoclonale disponibile, quello di Eli Lilly, sono state acquistate 150.000 dosi per un totale di un centinaio di milioni di euro. Gli anticorpi monoclonali «devono essere sempre aggiornati perché sono specifici, se cambia il virus dobbiamo cambiare i monoclonali con cui vogliamo bloccarlo», spiega Gismondo osservando che «è un parere personale» perché «siamo ancora in una fase di analisi, ma gli antivirali potrebbero essere assolutamente sufficienti per combattere la patologia, se impiegati entro i 5 giorni della positività». Un’impresa tutt’altro che facile, come dimostrano i dati di Aifa al 5 ottobre. Le prescrizioni di Paxlovid, l’antivirale di Pfizer fanno + 6,97%. Dall’inizio della sua distribuzione sono stati utilizzati 67.886 trattamenti: le farmacie valgono 39.066 (+9,85%). Il punto è che a tre mesi dalla fine dell’anno, siamo di fronte a un netto sottoutilizzo rispetto alle 600.000 terapie opzionate per il 2022: è praticamente inutilizzato il 90% delle cure per le quali la spesa è certa e la scadenza, con questi ritmi d’impiego, incombente. Segna +2,64% anche Molnupiravir, l’antivirale di Merck che però è distribuito solo in ospedale, di cui son stati erogati 46.631 trattamenti. Le cause di questa situazione, con sprechi di risorse e di possibili decessi? «Mancanza di informazione e reticenza da parte dei medici, bloccati da vecchie paure e minacce», sintetizza Gismondo. «Il discorso è generale. Tutte le energie sono state messe sui vaccini - sottolinea - quello che non era vaccino era antagonista. Ma le terapie, nelle infezioni sono complementari. I vaccini servivano nella prima fase, nelle persone anziane, con malattie croniche. La gravità del Covid - ricorda l’esperta - è per gli anziani e per i pazienti fragili, come accade in tutte le malattie virali. I vaccini, in quanto tali, non sono armi in alternativa o in opposizione alla terapia». Ora, cure efficaci rischiano di scadere perché «si è puntato solo sul vaccino e si è fatto intendere, in modo subdolo, che chi volesse intraprendere una terapia, fosse una sorta di fuorilegge», conclude.
D’altronde, quando la Casa Bianca aveva minacciato la prima volta un intervento militare, era stato addirittura il consigliere della Segreteria di Stato vaticana, padre Giulio Albanese, a descrivere alla Stampa l’«equilibrio quasi perfetto tra cristiani e musulmani» in Nigeria, turbato dal tycoon allo scopo di «consolidare consenso in casa». E allora, come funziona davvero tale fulgido esempio di coesistenza tra confessioni diverse?
Un dato dice tutto: i cristiani rischiano 6 volte e mezzo di più dei musulmani di finire uccisi e cinque volte di più di essere rapiti. Lo si evince dai report dell’Osservatorio per la libertà religiosa in Africa (Orfa). Quelli della Fondazione Porte aperte sono altrettanto sconvolgenti: nel 2025, l’82% degli omicidi e dei rapimenti di fedeli di Gesù nel mondo è risultato concentrato in Nigeria. Nei primi sette mesi dell’anno, hanno perso la vita oltre 7.000 cristiani. È una tendenza ormai consolidata. Tra ottobre 2019 e settembre 2023 - sempre stando alle ricerche Orfa, illustrate anche dal portale Aciafrica - la violenza religiosa, nella nazione affacciata sul Golfo di Guinea, ha provocato la morte di 55.910 persone in 9.970 attentati. I cristiani ammazzati sono stati 16.769, i musulmani 6.235. Di 7.722 vittime civili non si conosceva la religione. Nello stesso periodo, i rapiti cristiani sono stati 21.621. La World watch list, per il 2024, ha contato 3.100 vittime cristiane, oltre a 2.380 sequestrati. La relazione di Aics-Aiuto alla Chiesa che soffre sottolineava che, lo scorso anno, la Nigeria era all’ottavo posto nella ignominiosa classifica del Global terrorism index. «Sebbene anche i musulmani siano vittime delle violenze», precisava il documento, «i cristiani rappresentano il bersaglio di gran lunga prevalente».
Ciò non significa che gli islamici se la spassino, oppure che i jihadisti non approfittino della povertà per attirare miliziani e conseguire obiettivi politici ed economici, tipo il controllo delle risorse naturali. Le sofferenze dei musulmani sono atroci. Per dire: la sera del 21 dicembre, 28 persone, tra cui donne e bambini, sono state catturate nello Stato di Plateau, nel centro del Paese, mentre si recavano a un raduno per la festività maomettana del Mawlid, in cui si onora la nascita del «profeta». Pochi giorni prima, le autorità avevano ottenuto il rilascio di 130 tra studenti e insegnanti di alcune scuole cattoliche.
Un mese fa, intervistato da Agensir, padre Tobias Chikezie Ihejirika, prete somasco nigeriano, di stanza nel Foggiano, era stato chiaro: «I responsabili di questi attacchi sono quasi sempre musulmani». E la classe dirigente, esattamente come lamentato da Trump, non ha profuso grandi sforzi per prevenire i massacri: alcuni criminali, riferiva padre Tobias, sono persino «figure protette all’interno del governo. […] Sarebbe di grande aiuto se le organizzazioni internazionali tracciassero il flusso di denaro destinato alla risoluzione dei conflitti e identificassero coloro che ci speculano su. Questi fondi dovrebbero essere impiegati per risolvere i problemi, non per alimentare la violenza». Solito quadretto dell’ipocrisia occidentale: noi ci laviamo la coscienza spedendo aiuti, il denaro finisce in mani sbagliate e gli innocenti continuano a morire. Bombardare è inutile? Ma anche le strade battute finora si sono rivelate vicoli ciechi.
Stando alle indagini più recenti del Pew research center (2020), il 56,1% della popolazione, specie nel Nord della Nigeria, è islamica, con una nettissima prevalenza di sunniti. I cristiani sono il 43,4%, in maggioranza protestanti (74% del totale dei fedeli, contro il 25% di cattolici e l’1% di altre Chiese, compresa la ortodossa).
L’elenco di omicidi e rapimenti è agghiacciante. E in occasione delle festività, la ferocia aumenta. A Pasqua 2025, in vari attentati, erano stati assassinati 170 cristiani. A giugno, 100 o addirittura 200 sfollati erano stati presi di mira da bande armate; molti di loro erano cristiani. Il Natale più sanguinoso, forse, è stato quello di due anni fa: 200 morti e 500 feriti in una scia di attacchi jihadisti. E poi ci sono i sequestri dei sacerdoti. Gli ultimi, tra novembre e dicembre 2025: padre Emmanuel Ezema, della diocesi di Zaria, nella parte nordoccidentale del Paese; e padre Bobbo Paschal, parroco della chiesa di Santo Stefano, nello Stato di Kaduna, Centro-Nord della Nigeria. Proprio il primo martire della Chiesa è stato invocato ieri dal Papa, affinché «sostenga le comunità che maggiormente soffrono per la loro testimonianza cristiana». Trump? Bene: chi ha idee migliori, che non siano restare a guardare?
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Il ministro degli Esteri della Nigeria Yusuf Maitama Tuggar (Getty Images)
Gli attacchi dell’aviazione statunitense sono stati concordati anche con il governo di Abuja, che ha subito confermato i bombardamenti contro i terroristi. Il presidente della Nigeria, Bola Tinubu, aveva cercato di minimizzare il problema, dopo le accuse di Donald Trump, ma la situazione sul campo resta critica per la minoranza cristiana che ancora non ha abbandonato gli Stati del nord come ha già fatto la maggioranza. Yusuf Maitama Tuggar è un diplomatico di lunga esperienza e da circa un anno e mezzo guida il ministero degli Esteri della Nigeria, dopo essere stato ambasciatore in Germania.
Ministro Tuggar, il governo nigeriano ha dichiarato di essere al corrente dell’attacco degli Stati Uniti.
«Il presidente Tinubu e tutto il suo gabinetto ministeriale, così come i vertici delle forze armate, erano stati preventivamente informati delle operazioni militari statunitense. Si tratta di attacchi chirurgici che hanno ucciso un numero ancora imprecisato di pericolosi terroristi. La Nigeria vuole collaborare con gli Stati Uniti, che è un grande alleato e che come noi vuole distruggere il terrorismo islamico. Gli Stati di Sokoto e Kebbi, al confine con Niger e Benin, vivono una situazione complicata per le continue infiltrazioni di gruppi islamisti provenienti dalle nazioni vicine. Non escludiamo che in futuro potremmo operare ancora insieme su obiettivi militari molto precisi e sempre nell’ambito della lotta al terrorismo internazionale. Una cooperazione che comprende scambio di intelligence, coordinamento strategico e altre forme di supporto, tutto sempre nel rispetto del diritto internazionale e della sovranità nazionale».
Gli Stati Uniti accusano lo Stato islamico di voler sterminare i cristiani nigeriani e il vostro governo di non fare abbastanza per difenderli.
«Utilizzare il termine Stato islamico è una semplificazione, perché si tratta di una galassia molto complessa. Nella nostra nazione non c’è una presenza significativa dell’Isis in quell’area. Nel nord-ovest, abbiamo bande criminali, chiamate localmente banditi, e di recente è arrivato un gruppo chiamato Lakurawa. Si tratta di miliziani che hanno iniziato a riversarsi in Nigeria dal Sahel, ma negli ultimi 18 mesi-due anni si sono stabiliti negli Stati di Sokoto e Kebbi. I capi delle tribù locali hanno fatto un errore permettendo a questo gruppo di insediarsi nelle loro province per utilizzarli per difendersi dalla criminalità comune, ma la situazione è degenerata e adesso sono un pericolo per tutti. I Lakurawa sono un gruppo terroristico, ma smentiamo che siano ufficialmente parte della Provincia dello Stato Islamico del Sahel (Issp), l’ex Provincia dello Stato islamico del Grande Sahara (Isgs). Questo gruppo agisce soprattutto nelle zone occidentali vicino al lago Ciad e le nostre forze armate lo stanno costringendo a lasciare il nostro territorio. Voglio smentire ufficialmente che il governo nigeriano faccia poco per difendere i cristiani. Tutti i cittadini hanno uguali diritti e sono sotto la protezione dello Stato. Questi terroristi uccidono anche musulmani ed animisti, perché sono dei criminali».
Tutta l’Africa centrale e occidentale rischia di essere travolta dal terrorismo islamico e molte nazioni appaiono impotenti.
«La Nigeria ha istituito una serie di corpi speciali per la lotta all’estremismo islamico che agisce sul territorio. La settimana scorsa abbiamo liberato 30 studentesse rapite da una scuola, arrestando gli uomini che le avevano prese. Il governo federale e quello locale stanno anche portando avanti una serie di azioni di reintegro per tutti quelli che abbandonano i gruppi armati. Nel Sahel ci sono province in mano ai terroristi che vogliono occupare anche il nord della Nigeria. Per questo motivo collaboriamo con diversi stati confinanti in operazioni militari congiunte e siamo felici che gli Stati Uniti ci vogliono aiutare, ma sempre nel rispetto delle decisioni del governo di Abuja».
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Laurent Vinatier (Ansa)
Vinatier, 49 anni, a giugno 2024 era stato arrestato dalle forze di sicurezza russe con l’accusa di spionaggio: non si era registrato come «agente straniero» mentre raccoglieva informazioni sulle «attività militari e tecnico-militari» della Russia, che avrebbero potuto essere utilizzate a scapito della sicurezza nazionale. All’epoca il francese, la cui moglie è di origine russa, era consulente dell’Ong svizzera Centro per il dialogo umanitario e aveva stabilito nell’ambito del suo lavoro contatti con politologi, economisti, funzionari ed esperti militari.
A ottobre 2024 era arrivata la condanna «amministrativa» a Vinatier, tre anni di reclusione per la mancata registrazione nell’elenco degli agenti stranieri. La difesa aveva chiesto una multa per l’errore che l’imputato ha riconosciuto di aver commesso «per ignoranza», mentre l’accusa chiedeva 3 anni e 3 mesi. Lo scorso 24 febbraio, questa condanna estremamente severa è stata confermata in appello sulla base della legislazione contro i presunti agenti stranieri.
Nell’agosto 2025, un fascicolo sul sito web del tribunale del distretto di Lefortovo a Mosca ha rivelato che un cittadino francese è accusato di spionaggio. Rischia fino a vent’anni di carcere ai sensi dell’articolo 276 del codice penale russo. «Il caso Vinatier ha ottenuto visibilità solo dopo che il giornalista di TF1 Jérôme Garraud, durante la conferenza stampa annuale del presidente russo Vladimir Putin il 19 dicembre, ha chiesto al capo dello Stato: “Sappiamo che in questo momento c’è molta tensione tra Russia e Francia, ma il nuovo anno si avvicina. La sua famiglia (di Laurent Vinatier, ndr) può sperare in uno scambio o nella grazia presidenziale?”. Il presidente russo ha risposto di non sapere nulla del caso ma ha promesso di indagare», sostiene TopWar.ru sito web russo di notizie e analisi militari. Putin ha aggiunto che «se esiste una possibilità di risolvere positivamente questa questione, se la legge russa lo consente, faremo ogni sforzo per riuscirci».
Il politologo è attualmente detenuto nella prigione di Lefortovo, penitenziario di massima sicurezza. Prima era «in un altro carcere a Mosca e poi per un mese a Donskoy nella regione di Tula, a Sud della capitale», ha riferito la figlia Camille alla rivista Altraeconomia spiegando che il padre «si occupa di diplomazia “secondaria”, ha studiato la geopolitica post-sovietica e negli ultimi anni si è occupato della guerra tra Russia e Ucraina» e che il secondo processo, dopo quello relativo a questioni amministrative è per accuse di spionaggio. Sarebbe vittima delle tensioni tra Mosca e Parigi a causa della guerra in Ucraina.
«Questo arresto e le accuse sono davvero mosse da una scelta politica e avvengono in un contesto specifico di crescenti tensioni tra Francia e Russia […] la chiave di tutto questo sta nella politica, non nella legge», concludeva la figlia, confermando l’ipotesi di uno scambio di prigionieri come possibile chiave di svolta della vicenda Vinatier.
L’avvocato della famiglia, Frederic Belot, ha affermato che sperano nel rilascio entro il Natale ortodosso del 7 gennaio. Uno scambio di prigionieri è possibile, ma vuole essere «estremamente prudente».
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
A confermare il bilaterale, dopo l’indiscrezione lanciata da Axios, è stato lo stesso leader di Kiev: «Abbiamo un programma ampio e l’incontro si terrà questo fine settimana, credo domenica», ha detto ai giornalisti, non escludendo la partecipazione, in collegamento da remoto, dei rappresentanti dei Paesi europei. D’altronde, le conversazioni tra Kiev e la Casa Bianca non si sono fermate nemmeno il giorno di Natale: Zelensky ha avuto una lunga telefonata con l’inviato americano, Steve Witkoff, e con il genero di Trump, Jared Kushner, per approfondire «i formati, gli incontri e le tempistiche» per fermare la guerra. A quel colloquio telefonico sono poi seguiti ulteriori «contatti» tra il capo negoziatore ucraino, Rustem Umerov, e «la parte americana».
Al centro del dialogo con il tycoon ci saranno «alcune sfumature» sulle garanzie di sicurezza, ma soprattutto i nodi irrisolti per arrivare alla pace: il controllo del Donbass e dei territori orientali rivendicati dalla Russia e la gestione della centrale nucleare di Zaporizhzhia. Sul tavolo ci sono dunque le questioni più delicate e il significato del meeting, a detta di Zelensky, è «finalizzare il più possibile» visto anche che alcuni temi «possono essere discussi solo a livello di leader». A rivelare ulteriori dettagli è stato il presidente ucraino in un’intervista telefonica rilasciata ad Axios. Per la prima volta si è detto disposto a indire un referendum sul piano americano qualora Mosca accettasse un cessate il fuoco di 60 giorni. Pare però, secondo un funzionario americano, che la Russia sia disposta a concedere una tregua più breve. Riguardo alle garanzie di sicurezza, Zelensky ha affermato che servono discussioni sulle «questioni tecniche». In particolare, Washington ha proposto un patto di 15 anni che può essere rinnovato, ma secondo il presidente ucraino «il bisogno» sarà «per più di 15 anni». In ogni caso, l’incontro tra i due leader, come riferito da Axios, rifletterebbe «i progressi significativi dei colloqui». Vero è che Trump aveva dato la sua disponibilità solo qualora fosse vicino il raggiungimento di un accordo. Un’ulteriore conferma dei «progressi» emerge dalle parole di Zelensky, che ha dichiarato: «Il piano di 20 punti su cui abbiamo lavorato è pronto al 90%. Il nostro compito è assicurarci che tutto sia pronto al 100%. Non è facile, ma dobbiamo avvicinarci al risultato desiderato con ogni incontro, con ogni conversazione». Un membro della delegazione ucraina, Sergiy Kyslytsya, ha rivelato al Financial Times che le posizioni della Casa Bianca e di Kiev sarebbero piuttosto vicine. Ed è dunque arrivato «il momento» che i due presidenti «benedicano, modifichino e calibrino, se necessario» il piano di pace.
In vista dell’incontro in Florida, Zelensky ha già iniziato a consultarsi con i partner. Ieri pomeriggio ha avuto «un’ottima conversazione» con il primo ministro canadese, Mark Carney, per aggiornarlo «sullo stato di avanzamento» del «lavoro diplomatico» ucraino «con gli Stati Uniti». Zelensky ha poi aggiunto: «Nei prossimi giorni si potrà ottenere molto sia a livello bilaterale fra Ucraina e Stati Uniti, sia con i nostri partner della coalizione dei Volenterosi». Anche il segretario generale della Nato, Mark Rutte, è stato consultato dal presidente ucraino per discutere «degli sforzi congiunti per garantire la sicurezza» e «coordinare le posizioni» prima dei colloqui con il tycoon. La maratona telefonica del leader di Kiev ha incluso anche il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, e il primo ministro danese, Mette Frederiksen.
Nel frattempo, proseguono i contatti anche tra il Cremlino e la Casa Bianca. A rivelarlo è stato il portavoce russo, Dmitry Peskov: «Dopo che Kirill Dmitriev ha riferito al presidente sui risultati del suo viaggio in America e sui suoi contatti con gli americani, queste informazioni sono state analizzate e, su indicazione del presidente Putin, si sono già verificati contatti tra i rappresentanti delle amministrazioni russa e statunitense». A guidare le conversazioni telefoniche, da parte di Mosca, è stato il consigliere presidenziale russo, Yuri Ushakov. Riguardo alle questioni territoriali, secondo la rivista russa Kommersant, Putin, durante una riunione con gli imprenditori avvenuta la vigilia di Natale, ha dichiarato che potrebbe essere disposto a rinunciare a parte del territorio ucraino controllato dai soldati di Mosca, ma non è disposto a fare marcia indietro sul Donbass. Lo zar, nel meeting, ha affrontato anche la gestione della centrale nucleare di Zaporizhzhia. E, stando a quanto rivelato da Kommersant, Putin ha comunicato che non prevede la partecipazione ucraina, ma solamente una gestione congiunta con gli Stati Uniti con cui sono in corso le trattative. Sul piano di pace, il viceministro degli Esteri russo, Sergei Ryabkov, è tornato a sbilanciarsi. Nel talk show 60 minuti, trasmesso dalla tv russa Rossija-1, ha affermato che il piano di pace rivisto dall’Ucraina è «radicalmente diverso dai 27 punti» su cui ha lavorato Mosca. E pur annunciando che la fine della guerra è «vicina», Ryabkov ha accusato l’Ucraina e l’Europa di aver «raddoppiato gli sforzi» per «affossare» l’accordo di pace.
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