2019-10-05
Gli 007 di Gentiloni trattarono col boss libico
Avvenire pubblica le foto di un incontro avvenuto nel 2017, al Cara di Mineo, tra autorità di Tripoli ed emissari del governo del Pd. Uno dei nordafricani presenti è uno scafista accusato anche dall'Onu di essere un trafficante, torturatore e assassino di immigrati.«Mafia Libia, mafia Libia». Un minibus turistico si ferma al Cara di Mineo e fa scendere almeno sei delegati libici che entrano nella sala conferenze per un summit ufficiale con emissari del governo italiano. È l'11 maggio 2017, il governo di Paolo Gentiloni è sotto scacco per l'invasione dei migranti irregolari e il ministro dell'Interno, Marco Minniti, viene definito «reazionario» dalla sinistra europeista dell'accoglienza. Tutti con le spalle al muro, mentre Matteo Salvini comincia ad alzare la voce sulla sgangherata e deficitaria gestione dei flussi migratori. Secondo la ricostruzione della stampa internazionale (il governo di allora ha sempre smentito), l'incontro nel discusso e poi chiuso campo profughi catanese ha un'importanza vitale: serve a convincere i libici a bloccare le partenze e a far comprendere alle autorità il modello italiano per trasferirlo sulle loro sponde e risolvere il problema. Ad aspettare i delegati nordafricani ci sono rappresentanti delle istituzioni e uomini dei servizi segreti. Un migrante arrivato da pochi giorni si avvicina incuriosito al gruppo in cammino. E nell'incrociare con lo sguardo un uomo scuro di pelle, con la barba folta e la mano destra con tre sole dita, grida: «Mafia Libia, mafia Libia». Ha visto il diavolo, il negriero, ha riconosciuto fra i delegati che trattano con le autorità italiane Abd Al Rahman Al Milad, conosciuto come Bija, additato dall'Onu come criminale, comandante degli scafisti travestito da guardacoste, titolare di un poliedrico business con i soldi dell'Occidente: trafficante di uomini, contrabbandiere, capo dei contractor locali a difesa dei centri petroliferi nella Libia in fiamme. Una slot machine con fucile mitragliatore che sfrutta la disperazione siede al tavolo delle trattative. C'era anche lui nella delegazione, a confermarlo è una fotografia del summit pubblicata ieri sul quotidiano Avvenire, che l'ha sapientemente corredata con un reportage dal titolo «Trattativa segreta» di Nello Scavo, giornalista vecchio stampo, di quelli che consumano le suole ai confini del mondo piuttosto che i polpastrelli ai confini del web. Il suo è uno scoop in piena regola; Bija all'incontro con il governo italiano (impossibile che al Cara Mineo non sapessero chi stavano invitando a parlare) non è solo la conseguenza imprudente di un pasticcio internazionale, è uno scandalo diplomatico in piena regola. È la conferma della superficialità e della doppia morale di quell'esecutivo ereditato da Matteo Renzi dopo la sconfitta nel referendum costituzionale.Presentato come «uno dei comandanti della guardia costiera della Libia», quel giorno di maggio 2017 Bija è seduto fra due connazionali, un uomo e una donna, e parla solo per interposta persona. Alla fine i libici sembrano interessati alla proposta di trasferire gli hotspot a casa loro soprattutto perché l'Italia dovrebbe finanziare la realizzazione di strutture in tutto il paese, con prevedibili guadagni. Alla fine l'uomo con tre dita (due falangi le aveva perse per lo scoppio di una granata durante la rivolta anti Gheddafi) torna sul pulmino con gli altri e rientra a Zawiyah, in Tripolitania, dove gestisce fiorenti affari col traffico di uomini. Invece di finire in una prigione italiana, è libero di ricominciare dopo essere stato trattato da interlocutore ufficiale, quindi legittimato. Tutto ciò nonostante l'Onu l'avesse messo nel mirino da anni con accuse pesantissime: trafficante di uomini, signore della guerra nella regione di Zawiyah, padrone della vita e della morte nei campi di prigionia, sospettato di aver fatto affogare persone e affondare barconi. In un report delle Nazioni Unite riportato nello scoop di Avvenire si dice che lui «è direttamente coinvolto nell'affondamento di imbarcazioni di migranti utilizzando armi da fuoco». In un video del Times di Londra viene ripreso mentre frusta alcuni migranti soccorsi in mare. Un campione del mondo di violazione dei diritti umani elevato a interlocutore del nostro Paese: Gentiloni e Minniti non hanno niente da dire? Va registrato un dato strategico: proprio dall'agosto 2017 i flussi dalla Libia cominciano a diminuire rispetto al 2015 e al 2016. Le domande sulla presenza di Bija in Italia sono tante, riassumibili per comodità. Chi gli ha dato il lasciapassare per entrare nel nostro Paese? Chi ha deciso che fosse un interlocutore accreditato del governo italiano? Chi ha coperto la sua presenza indisturbata in Italia? Ha forse ricevuto denaro dal nostro Paese per proseguire nei suoi sporchi traffici? Ce n'è abbastanza per aprire un dossier, per chiamarlo Libiagate e per chiedere una commissione d'inchiesta. Per ora va registrato un certo disinteresse mediatico, Gentiloni e Minniti tacciono, la notizia non compare sui siti dei grandi giornali (è già venerdì sera) e viene dribblata sapientemente dai Tg. Questo non le impedisce di bucare la cortina fumogena del politicamente corretto e creare imbarazzo nell'esecutivo. Matteo Orfini (Pd) tuona: «Una vergogna che rende ancora più urgente l'istituzione di una commissione d'inchiesta». Nicola Fratoianni, leader dell'ala movimentista e filo Ong della sinistra governativa, twitta: «Ora chiudere la pagina vergognosa degli accordi con la Libia e con la cosiddetta guardia costiera di quel Paese. Ora commissione d'inchiesta parlamentare». L'imperativo è dettato dall'indignazione, ma la richiesta è ipocrita: per provare a ottenere la commissione d'inchiesta basterebbe fare una telefonata a Giuseppe Conte, premier del loro governo. Il corto circuito della trattativa Stato-mafia (libica) è tutto interno a chi dal primo giorno preferisce scendere a patti con chiunque piuttosto che guardare in faccia alla realtà. Nell'ambito di un'inchiesta sui torturatori camuffati da migranti nell'hotspot di Messina, qualche giorno fa le procure di Agrigento e Palermo hanno raccolto le testimonianze di alcune vittime. «A decidere chi imbarcare sui gommoni era un uomo libico» spiega più di un immigrato «forse di nome Bingi, al quale mancavano due falangi della mano destra. Era violento e armato, tutti avevamo timore di lui». Tranquilli, fino a prova contraria è un amico.