2023-04-08
L’egemonia culturale da combattere è la cancellazione delle differenze
Francesco Giubilei (Imagoeconomica)
La sinistra, che dal Dopoguerra sbandiera la supremazia morale e intellettuale, s’è piegata all’ideologia woke. La quale, sui social e nelle classi, sconfessa l’esistenza delle diversità, anche sessuali. Negando la realtà.Si sta facendo un gran parlare, negli ultimi giorni, attorno al concetto di «egemonia». Al centro dell’animata discussione c’è la possibilità che il governo di destra provi a imporre una nuova «egemonia culturale», che dovrebbe dunque essere alternativa a quella esercitata fino a oggi dalla sinistra. Sull’argomento si sono confrontati scrittori, giornalisti, artisti e storici nel corso degli Stati generali della cultura nazionale organizzati a Roma da Francesco Giubilei, fondatore di Nazione futura e consulente del ministro Gennaro Sangiuliano (che ha partecipato al convegno). Un evento piuttosto interessante che è stato accolto ovviamente bene dalla destra e in maniera ambivalente dalla sinistra. Il fronte progressista ha mostrato un atteggiamento che conosciamo bene, una sorta di oscillazione fra la sufficienza e l’allarmismo. C’è chi - per riflesso condizionato - ha voluto deridere i «fasci ignoranti che provano a darsi un tono» e chi invece ha sostenuto che si dovrebbe aver timore del «kulturkampf» destrorso. Entrambe queste reazioni originano dalla superiorità antropologica che la sinistra italica da sempre si attribuisce: essa reputa che qualunque pensiero diverso dal suo sia stupido e impresentabile. Di conseguenza, ritiene semplicemente intollerabile che qualcuno estraneo alla sua area di influenza possa occupare un ruolo di rilievo in una istituzione o, come si usa dire, azienda culturale. Il progressista non si capacita che una poltrona disponibile sia affidata a qualcuno «fuori dal giro», per lui è del tutto inconcepibile, una sorta di violazione dell’ordine naturale del mondo. Ecco: se si vuole dare vita a una riflessione seria sulla egemonia occorre tenere ben presente quest’ultima evidenza, che è rivelatrice. A ben vedere, infatti, la sinistra, dal Dopoguerra in avanti ha praticato una specie di egemonia burocratica, occupando tutti i posti di potere disponibili: scuola, università, musei, teatri, Comuni, televisione, giornali, enti di ogni ordine e grado. Tale occupazione, fino a qualche decennio fa, si traduceva automaticamente in egemonia culturale, poiché erano queste istituzioni a svolgere l’azione teorizzata da Antonio Gramsci, e cioè «diffondere criticamente verità già scoperte, “socializzarle” per così dire, e per tanto farle diventare basi di azioni vitali, elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale», così da condurre «una massa di uomini a pensare coerentemente e in modo unitario il reale». Oggi, però, questo meccanismo non funziona più. Gli intellettuali organici contano pochissimo, le istituzioni culturali non riescono a influenzare più di tanto la percezione del presente. A egemonizzare la cultura sono le piattaforme: Netflix, Amazon, Disney, Youtube e i vari social network. Questi nuovi attori non veicolano una cultura «di sinistra» o comunista. Piuttosto spingono l’ideologia liberal o woke, forma terminale del progressismo e del liberalismo. Fatto curioso: questa ideologia ha sfruttato per affermarsi proprio il concetto di egemonia di Gramsci, ma in senso distruttivo. Tutta l’impalcatura dei gender studies o delle teorie critiche sulla razza si basa proprio sull’esistenza di una egemonia bianca o eterosessuale che gli intellettuali e gli attivisti devono decostruire per giungere a nuove sintesi che non siano «eteropatriarcali» o razziste. È l’antico principio alchemico del solve et coagula trasportato in politica. Queste malattie senili del progressismo stanno tentando di dissolvere le culture nazionali, ma prima hanno distrutto le grandi ideologie novecentesche, socialismo e comunismo compresi. La sinistra non si è imposta: è stata travolta dal nuovo pensiero e vi si è completamente sottomessa. Lo veicola perché occupa i posti di potere, ma ne è serva sciocca. Non può ribellarsi ai venti che soffiano dall’Atlantico, recepisce il dibattito statunitense e lo scimmiotta: si è concessa soltanto una pennellata italica mettendo l’antifascismo al servizio della decostruzione del genere e dell’antirazzismo. Non parla più dei lavoratori, ma delle minoranze etniche e dei gruppi Lgbt (e dire che ci sarebbero lavoratori anche tra i gay e le lesbiche, che non esauriscono certo la propria identità nell’orientamento sessuale). Ed eccoci al punto. L’egemonia culturale da contrastare oggi non è quella «di sinistra». È piuttosto una cappa, per citare Marcello Veneziani, transnazionale e transideologica. O semplicemente trans. È il totalitarismo soft che impone gli asterischi e la cancellazione della differenza sessuale (dannosa pure per i gay), è l’intolleranza diffusa che propaganda la medicalizzazione e il culto della tecnica. Tutto ciò incontra una opposizione - piuttosto tenue e viziata, a dire il vero - anche in ambienti post comunisti e moderati, i quali vanno coinvolti se si vuole costruire un fronte comune del buon senso e salvarsi dalla minaccia imminente per l’intera cultura europea, a prescindere dalle famiglie politiche. Come ha detto Pietrangelo Buttafuoco, l’unica nuova egemonia possibile deve essere quella della libertà di pensiero. Che non si deve tradurre in una sorta di «vietato vietare», ma nella difesa di pochi e semplici concetti condivisi (ad esempio l’esistenza delle differenze sessuali, culturali, politiche, religiose). Il principio guida dovrebbe essere chiaro e ampio: prima la realtà. Perché oggi a essere a rischio non è la sopravvivenza della destra, ma l’esistenza della stessa realtà, assediata da costruzioni artificiali che, come il socialismo scientifico di un tempo, pretendono di costruire l’uomo nuovo e intanto fanno sparire gli uomini. Tutti quanti.
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