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2022-12-13
Giovedì torna su Sky MasterChef Italia
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Gli chef stellati Bruno Barbieri, Antonino Cannavacciuolo e Giorgio Locatelli (Ansa)
MasterChef Italia è ripartito con la formula di sempre, e una stessa antifona ne ha accompagnato la conferenza stampa, le parole chiave degli anni scorsi sono state riproposte. «Talento», «asticella», «sorpresa», «inclusione».
Tutto ciò che è stato detto nelle undici edizioni passate è stato ripetuto. I giudici, com’è prassi, hanno reiterato ogni concetto con la straordinarietà propria delle cose nuove. Hanno giurato di non aver mai visto tanta bravura. Di aver faticato nel selezionare i concorrenti. Hanno sgranato gli occhi. Finto, verrebbe da dire. Ma la finzione, o recitazione o come si voglia chiamare la capacità di suonare una stessa musica per ascoltarla poi con lo stupore della prima volta, nel caso di MasterChef Italia è cosa facile da perdonare. Il talent show, il primo ad aver fatto della cucina un blasone, regalando ai cuochi quella popolarità che pareva essere appannaggio dei calciatori, non ha bisogno di grandi stravolgimenti. Non ha bisogno di rivoluzionare il proprio meccanismo. È perfetto così, coperta di Linus con cui aspettare il Natale. E la ragione, in parte (in larga parte), risiede nella giuria.
MasterChef Italia, di ritorno su Sky alle 21.15 di giovedì 15 dicembre, non deve vendere niente: nessun talento, nessuna canzone, nemmeno i libri di ricette con cui fa ricco il suo premio finale. È un programma atipico, l’unico talent show a non avere il focus nei concorrenti. Si basa su altro, sul richiamo certo della buona cucina, sull’invidia con cui spesso si osserva chi sa fare, sulla triade formata da Bruno Barbieri, Antonino Cannavacciuolo e Giorgio Locatelli, la più fortunata che lo show abbia mai avuto. Non c’è Joe Bastianich che possa competere, né Carlo Cracco a far rimpiangere i bei tempi andati. Barbieri, Cannavacciuolo e Locatelli si muovono fra i fornelli di Sky con la più genuina spontaneità, con una grazia e un ritmo che nessun autore, a tavolino, sarebbe capace di inventare. Hanno fra loro un’alchimia palpabile, quel cameratismo che si associa alle amicizie maschili. Si divertono e divertono e guardarli condurre, persone prima che personaggi, è la vera e più pura attrattiva di MasterChef Italia. Il suo bello, quel quid speciale che rende inutile l’esigenza di grandi stravolgimenti nel gioco. Perciò, è da perdonarsi la finzione o capacità recitativa o come lo si voglia chiamare quello stupore di cui sopra. MasterChef Italia, oggi alla dodicesima edizione, ha la sacralità delle liturgie. E, come ogni liturgia, nella ripetizione dell’identico sa generare conforto. Attesa, pure. Perché i giudici non sono gli unici veterani dello show, le sue uniche punte di diamante. Iginio Massari, con il mignolo in grado di misurare la corretta temperatura del cioccolato temperato, è diventato parte del rito. E lo si attende con ansia il momento magico in cui comparirà dalla porta, gettando nel panico gli sventurati concorrenti. Ci si aspetta di vederlo e, anche quest’anno, insieme a chef stellati vari ed eventuali – Davide Scabin, Mauro Colagreco, Jeremy Chan, Enrico Crippa, Giancarlo Perbellini –, lo si vedrà. Ci sarà Massari e ci sarà, con lui, la stessa, confortante atmosfera di sempre: quel non-so-che rarissimo che per MasterChef rende vero e valido il detto secondo cui a essere importante non è la meta, ma il viaggio.
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Il talent show giunto alla dodicesima edizione, in onda dal 15 dicembre alle 21:15, riparte dalla triade formata da Bruno Barbieri, Antonino Cannavacciuolo e Giorgio Locatelli e con la formula di sempre: il richiamo certo della buona cucina e la più genuina spontaneità tra i fornelli.MasterChef Italia è ripartito con la formula di sempre, e una stessa antifona ne ha accompagnato la conferenza stampa, le parole chiave degli anni scorsi sono state riproposte. «Talento», «asticella», «sorpresa», «inclusione».Tutto ciò che è stato detto nelle undici edizioni passate è stato ripetuto. I giudici, com’è prassi, hanno reiterato ogni concetto con la straordinarietà propria delle cose nuove. Hanno giurato di non aver mai visto tanta bravura. Di aver faticato nel selezionare i concorrenti. Hanno sgranato gli occhi. Finto, verrebbe da dire. Ma la finzione, o recitazione o come si voglia chiamare la capacità di suonare una stessa musica per ascoltarla poi con lo stupore della prima volta, nel caso di MasterChef Italia è cosa facile da perdonare. Il talent show, il primo ad aver fatto della cucina un blasone, regalando ai cuochi quella popolarità che pareva essere appannaggio dei calciatori, non ha bisogno di grandi stravolgimenti. Non ha bisogno di rivoluzionare il proprio meccanismo. È perfetto così, coperta di Linus con cui aspettare il Natale. E la ragione, in parte (in larga parte), risiede nella giuria. MasterChef Italia, di ritorno su Sky alle 21.15 di giovedì 15 dicembre, non deve vendere niente: nessun talento, nessuna canzone, nemmeno i libri di ricette con cui fa ricco il suo premio finale. È un programma atipico, l’unico talent show a non avere il focus nei concorrenti. Si basa su altro, sul richiamo certo della buona cucina, sull’invidia con cui spesso si osserva chi sa fare, sulla triade formata da Bruno Barbieri, Antonino Cannavacciuolo e Giorgio Locatelli, la più fortunata che lo show abbia mai avuto. Non c’è Joe Bastianich che possa competere, né Carlo Cracco a far rimpiangere i bei tempi andati. Barbieri, Cannavacciuolo e Locatelli si muovono fra i fornelli di Sky con la più genuina spontaneità, con una grazia e un ritmo che nessun autore, a tavolino, sarebbe capace di inventare. Hanno fra loro un’alchimia palpabile, quel cameratismo che si associa alle amicizie maschili. Si divertono e divertono e guardarli condurre, persone prima che personaggi, è la vera e più pura attrattiva di MasterChef Italia. Il suo bello, quel quid speciale che rende inutile l’esigenza di grandi stravolgimenti nel gioco. Perciò, è da perdonarsi la finzione o capacità recitativa o come lo si voglia chiamare quello stupore di cui sopra. MasterChef Italia, oggi alla dodicesima edizione, ha la sacralità delle liturgie. E, come ogni liturgia, nella ripetizione dell’identico sa generare conforto. Attesa, pure. Perché i giudici non sono gli unici veterani dello show, le sue uniche punte di diamante. Iginio Massari, con il mignolo in grado di misurare la corretta temperatura del cioccolato temperato, è diventato parte del rito. E lo si attende con ansia il momento magico in cui comparirà dalla porta, gettando nel panico gli sventurati concorrenti. Ci si aspetta di vederlo e, anche quest’anno, insieme a chef stellati vari ed eventuali – Davide Scabin, Mauro Colagreco, Jeremy Chan, Enrico Crippa, Giancarlo Perbellini –, lo si vedrà. Ci sarà Massari e ci sarà, con lui, la stessa, confortante atmosfera di sempre: quel non-so-che rarissimo che per MasterChef rende vero e valido il detto secondo cui a essere importante non è la meta, ma il viaggio.
Meloni ha poi lanciato un altro attacco all’opposizione a proposito di Abu Mazen, presidente della Palestina: «La sua bella presenza qui ad Atreju fa giustizia delle accuse vergognose di complicità in genocidio che una sinistra imbarazzante ci ha rivolto per mesi». E ancora contro la sinistra: «La buona notizia è che ogni volta che loro parlano male di qualcosa va benissimo. Cioè parlano male di Atreju ed è l’edizione migliore di sempre, parlano male del governo, il governo sale nei sondaggi, hanno tentato di boicottare una casa editrice, è diventata famosissima. Cioè si portano da soli una sfiga che manco quando capita la carta della Pagoda al Mercante in fiera, visto che siamo in clima natalizio. E allora grazie a tutti quelli che hanno fatto le macumbe». L’altra stilettata ironica a proposito del premio dell’Unesco che riconosce la cucina italiana come bene immateriale dell’umanità: «A sinistra non è andato bene manco questo. Loro non sono riusciti a gioire per un riconoscimento che non è al governo ma alle nostre mamme e nonne, alle nostre filiere, alla nostra tradizione, alla nostra identità. Hanno rosicato così tanto che è una settimana che mangiano tutti dal kebabbaro. Veramente roba da matti». Ricordando l’unità della coalizione, Meloni ha sottolineato che questa destra «non è un incidente della storia» rivendicando le iniziative adottate in tre anni di esecutivo. Il premier ha poi toccato i temi di attualità e a proposito dell’equità fiscale rivendicata dall’opposizione ha scandito: «Non accettiamo lezioni da chi fa il comunista con il ceto medio e il turbo capitalista a favore dei potenti. Oggi il Pd si indigna perché gli Elkann vogliono vendere il gruppo Gedi e non ci sarebbero garanzie per i lavoratori però quando chiudevano gli stabilimenti di Stellantis ed erano gli operai a perdere il posto di lavoro, tutti muti. Anche Landini sul tema fischiettava». Non sono mancati i riferimenti ai temi caldi del centrodestra: immigrazione, riforma della giustizia, guerra in Ucraina ed Ue con il disimpegno di Trump e il Green Deal.
Sul palco anche i due vicepremier. «La mia non vuole essere solo una presenza formale, ma una presenza per riconfermare un impegno che tutti noi abbiamo preso nel 1994» ha detto il leader di Fi Antonio Tajani. «Ma gli accordi di alleanze fatte soprattutto di lealtà e impegno, devono essere rinnovati ogni giorno. La ragione di esistere di questa coalizione è fare l’interesse di ciascuno dei 60 milioni di cittadini italiani. E lo possiamo fare garantendo, grazie all’unità di questa coalizione, stabilità politica a questo Paese». Per il leader leghista Matteo Salvini “c’è innanzitutto l’orgoglio di esserci dopo tanti anni. Ci provano in tutti i modi a far litigare me e Giorgia. Ma amici giornalisti, mettetevi l’anima in pace: non ci riuscirete mai». Poi il ministro dei Trasporti ha assicurato che farà «di tutto» per avviare i lavori per il Ponte sullo Stretto, ha rilanciato sull’innalzamento del tetto del contante e sull’impegno anti maranza e infine ricordato come il governo stia facendo un buon lavoro nella tassazione delle banche.
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C'è un'invenzione che si deve agli aviatori, anzi, a un minuto personaggio brasiliano stanco di dover cercare l'orologio nel suo taschino mentre pilotava l'aeroplano.
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Se a causa degli scandali, il supporto alla resistenza ucraina mostra vistose crepe, con più della metà degli italiani che non è intenzionata a sostenere militarmente le truppe che cercano di respingere l’armata russa, non è che i soldati che da quasi quattro anni combattono sembrano poi pensarla in modo molto diverso. Sul Corriere della Sera ieri è stata pubblicata un’immagine in cui si vedono militari in divisa sfatti dalla fatica. Tuttavia, a colpire non è la stanchezza dei soldati, ma la loro età. Si capisce chiaramente che non si tratta di giovani bensì di anziani, considerando che comunque l’età media dei militari è superiore ai 40 anni. Uomini esausti, ma soprattutto anagraficamente lontani da un’immagine di agilità e forza. Intendiamoci, a volte gli anni portano esperienza e competenza, soprattutto al fronte, dove serve sangue freddo per non rischiare la pelle. Ma non è questo il punto: non si tratta di pensionare i militari più vecchi, ma di reclutare i giovani e questo è un problema che la fotografia pubblicata sul quotidiano di via Solferino ben rappresenta. Il giornale, infatti, ci informa che 235.000 militari non si sono presentati ai loro reparti e quasi 54.000 sono già stati ufficialmente dichiarati disertori. In pratica, un soldato su quattro del milione mobilitato pare non avere alcuna intenzione di imbracciare un fucile. Per quanto le guerre moderne si combattano con l’Intelligenza artificiale, con i satelliti e i droni, poi alla fine la differenza la fanno sempre gli uomini. A Pokrovsk, la città che da un anno resiste agli assalti delle truppe russe, impedendo agli uomini di Putin di dilagare nel Donbass, se non ci fossero reparti coraggiosi che continuano a respingere gli invasori, Mosca avrebbe già visto sventolare la sua bandiera sui tetti delle poche costruzioni rimaste in piedi dopo mesi di bombardamenti devastanti.
Il tema delle diserzioni, della fuga all’estero di centinaia di migliaia di giovani che non vogliono morire sotto le bombe, è tale che in Polonia e Germania, ma anche in altri Paesi confinanti, si sta facendo pressione per impedire l’arrivo di ulteriori fuggiaschi. Se si guarda al numero di chi non ha intenzione di combattere si capisce perché è necessario raggiungere una tregua. Quanto ancora potrà resistere l’Ucraina in queste condizioni? A marzo comincerà il quinto anno di guerra. Un conflitto che rischia di non avere precedenti, per numero di morti e per la devastazione. E soprattutto uno scontro che minaccia di trascinare in un buco nero l’intera Europa, che invece di cogliere il pericolo sembra scommettere ancora sulle armi piuttosto che sulla tregua. C’è chi continua a invocare una pace giusta, ma la pace giusta appartiene alle aspirazioni, non alla realtà.
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Non è detto che non accada. Intanto siete già riusciti a risvegliare dal lungo sonno il sottosegretario Alberto Barachini, che non è poco, anche se forse non basta di fronte alla grande battaglia, che avete lanciato, per salvare il «pensiero critico». Il punto è chiaro: un conto è se viene venduto un altro giornale, magari persino di destra, che allora ben gli sta; un conto è se viene venduto il quotidiano che andava in via Veneto e dettava la linea alla sinistra. Allora qui non sono soltanto in gioco posti di lavoro e copie in edicola. Macché: sono in gioco le «garanzie democratiche fondamentali per l’intero Paese» e soprattutto «la sopravvivenza stessa di un pensiero critico». Non si discute, insomma, del futuro di Repubblica, si discute del futuro della repubblica, come è noto è fondata sul lavoro di Eugenio Scalfari.
Del resto come potremmo fare, cari colleghi, senza quel pensiero critico che in questi anni abbiamo imparato ad ammirare sulle vostre colonne? Come faremo senza le inchieste di Repubblica per denunciare lo smantellamento dell’industria automobilistica italiana ad opera degli editori Elkann? Come faremo senza le dure interviste al segretario Cgil Maurizio Landini che attacca, per questo, la ex Fiat in modo spietato? Come faremo senza gli scoop sulle inchieste relative all’evasione fiscale di casa Agnelli? Il fatto che tutto ciò non ci sia mai stato è un piccolo dettaglio che nulla toglie al vostro pensiero critico. E che dire del Covid? Lì il pensiero critico di Repubblica è emerso in modo chiarissimo trasformando Burioni in messia e il green pass in Vangelo. E sulla guerra? Pensiero critico lampante, nella sua versione verde militare e, ovviamente, con elmetto d’ordinanza. Ora ci domandiamo: come potrà tutto questo pensiero critico, così avverso al mainstream, sopravvivere all’orda greca?
Lo so che si tratta solo di un cambio di proprietà, non di una chiusura. Ma noi siamo preoccupati lo stesso: per mesi abbiamo letto sulle vostre colonne che c’era il rischio di deriva autoritaria nel nostro Paese, il fascismo meloniano incombente, la libertà di stampa minacciata dal governo antidemocratico. E adesso, invece, scopriamo che il governo antidemocratico è l’ancora di salvezza per salvare baracca e Barachini? E scopriamo che il vero nemico arriva dalla Grecia? Più che mai urge pensiero critico, cari colleghi. E, magari, un po’ meno di boria.
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