2022-09-22
Sui Benetton i giornali fanno i cani da cuccia
Qualche giorno fa mi chiedevo perché i giornali italiani avessero deliberatamente ignorato le notizie che riguardano la strage del ponte Morandi. In assoluta solitudine, domenica abbiamo pubblicato il verbale d’interrogatorio di colui che forse è stato il più stretto collaboratore della famiglia Benetton. n esso il manager confessava ai pm di Genova di aver saputo delle criticità del viadotto sul Polcevera molto prima che crollasse. In una riunione di alti dirigenti del gruppo, infatti, aveva appreso di un difetto di costruzione che avrebbe potuto far cascare l’infrastruttura, e alla sua domanda sulla sicurezza si era sentito rispondere che era autocertificata. L’espressione usata da Gianni Mion, questo il nome dell’uomo che per oltre trent’anni è stato il braccio destro di Luciano Benetton e dei suoi fratelli, per esprimere il suo sentimento dopo quella rivelazione non lascia spazio a dubbi sulle condizioni del Morandi, perché il dirigente ha rivelato ai magistrati di essere uscito terrorizzato dall’incontro. Che un manager ammetta di aver saputo della possibilità che si verificasse un disastro otto anni prima che questo accadesse non capita tutti i giorni. E non accade neppure quotidianamente che un ponte venga giù portandosi via la vita di 43 persone. Ma soprattutto, non accade mai, se non nei Paesi sudamericani (con tutto il rispetto nei confronti dei Paesi sudamericani) che un’azienda che ha avuto in concessione un bene dello Stato, invece di essere controllata da quello Stato che è proprietario dell’opera, faccia da sé i controlli e certifichi la sicurezza di un ponte anche quando questa non è garantita. Vi chiedete perché vi abbia riepilogato ciò che abbiamo scritto domenica e commentato lunedì? La risposta è semplice. Dopo lo scoop della Verità, mi aspettavo che qualche altro giornale decidesse di approfondire la questione, ritornando sulla confessione di Mion. Magari per ascoltare i manager che parteciparono alla riunione citata dall’ex amministratore delegato della cassaforte di Ponzano Veneto. Oppure per intervistare qualche esponente della famiglia di Treviso. Invece niente, silenzio. Nonostante le rivelazioni esplosive, nessun collega ha sentito il bisogno di dedicare un articolo alla questione. E dire che di spazio i quotidiani ne hanno molto, al punto che spesso si occupano di faccende di secondaria importanza, come la veletta della contessa tal dei tali ai funerali della regina Elisabetta o le ultime dichiarazioni dell’amico fraterno di Francesco Totti in merito al divorzio da Ilary Blasi. Sì, nello zibaldone quotidiano c’è posto per qualsiasi notizia, ma non per quella di un manager che ammette di aver saputo con otto anni di anticipo che il ponte Morandi sarebbe potuto crollare. Curioso, no? A che cosa sarà dovuto questo totale disinteresse? La domanda mi è rimasta in testa per un po’, ma ieri finalmente ho visto apparire sulla Stampa di Torino, quotidiano che per altro è venduto anche in Liguria, un’intervista ad Alessandro Benetton. «Oh, ci siamo», mi sono detto: qualcuno ha deciso di porre qualche domanda. E così mi sono avventurato nella lettura dell’articolo. «Capelli ricci un poco arruffati, sneakers, pantalone beige, camicia e giacca di jeans, il capo del gruppo Benetton, figlio del fondatore Luciano e presidente della holding di famiglia, analizza il movimento dall’osservatorio privilegiato di una realtà da 9,8 miliardi». L’occasione è un incontro con gli studenti del dipartimento di economia dell’università di Torino. Si parla di futuro del Paese, del governo Draghi e dei rapporti con la Ue, di energia e di dinamiche geopolitiche, ma di parlare del processo e dell’inchiesta di Genova l’erede non ha voglia. Al massimo un passaggio per dire che in Atlantia, la finanziaria che controllava Autostrade, deteneva «appena» il 30 per cento e in consiglio di amministrazione c’era «solo» un esponente della famiglia. E le dichiarazioni di Mion? L’autocertificazione sulla sicurezza? I dubbi dei pm sulla riduzione dei costi di manutenzione? Dal «capo del gruppo» nessuna risposta, anche perché nell’articolo non c’è traccia di alcuna domanda. Già risultava strano che nessuno avesse ripreso il verbale dell’ex amministratore delegato della cassaforte di famiglia, ma ancor più incredibile pare l’intervista che sorvola su tutto, in particolare sulle frasi agghiaccianti di Mion. È vero che, come dice Alessandro Benetton, «bisogna dare spazio a nuovi punti di vista», ma perdere il punto di vista principale è peggio. E questo sarebbe il famoso giornalismo d’inchiesta, quello che non guarda in faccia nessuno e non ha timore di porre domande scomode? Il cane da guardia del potere? Al massimo è un cane da cuccia.