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2021-04-24
Ricordiamo l'anniversario del genocidio armeno e le vittime della guerra con l'Azerbaigian
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Il 24 aprile 1915 è considerata - a livello convenzionale - la data di inizio del genocidio: quel giorno, la cosiddetta «domenica rossa», si verificarono infatti gli arresti e le deportazioni di numerosi notabili e intellettuali armeni.
«Nei 106 anni dal genocidio armeno, la comunità internazionale ha costruito basi e strutture istituzionali per riunire le nazioni per lavorare contro la discriminazione, l'esclusione, la violazione persistente dei diritti umani e delle libertà con la promessa di un 'mai più'», ha dichiarato l'ambasciatrice della Repubblica d'Armenia in Italia, Tsovinar Hambardzumyan. «Come nazione sopravvissuta al genocidio», ha proseguito, «l'Armenia ha avviato un processo per aumentare il livello della cooperazione internazionale, sforzi internazionali per rafforzare il concetto di prevenzione contro le atrocità di massa attraverso l'avvio di risoluzioni tematiche sulla prevenzione del genocidio».
Per celebrare la commemorazione, l'Armenian General Benevolent Union (Agbu) di Milano organizzerà oggi, alle 12, un flashmob della durata di un'ora in piazza Duomo (angolo via Marconi). «Noi Armeni di Milano, discendenti diretti delle vittime di quel barbaro crimine contro l'umanità, non ci stancheremo mai di urlare al mondo intero l'ingiustizia subita dal nostro popolo. La Turchia moderna continua sfacciatamente ad essere complice dell'Impero Ottomano, sprezzante del diritto internazionale e certa che lo sguardo distratto dell'Occidente continuerà ad essere indulgente: dobbiamo alzare la voce affinché ciò non accada più da nessuna parte del mondo», si legge in un comunicato dell'Agbu di Milano. L'evento sarà seguito da una preghiera organizzata dalla Chiesa Armena Apostolica di Milano in piazza Sant'Ambrogio alle 16.
La Turchia si è finora seccamente rifiutata di ammettere il genocidio, sostenendo che non vi siano state uccisioni sistematiche e mettendo in dubbio il numero delle vittime. Inoltre, Ankara afferma che le deportazioni armene fossero dettate da ragioni legate alla sicurezza nazionale. Sono tuttavia numerose le nazioni che, nel corso del tempo, hanno identificato quelle atrocità come un genocidio. Nel 2015, Papa Francesco, riprendendo la posizione che fu già di Giovanni Paolo II, lo definì «il primo genocidio del XX secolo». «Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi», dichiarò. Una posizione che suscitò la forte irritazione del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Nel 2019, il Congresso degli Stati Uniti ha, dal canto suo, approvato (a schiacciante maggioranza) delle risoluzioni per riconoscere il genocidio, innescando - anche in quel caso - le dure reazioni di Ankara. Attualmente sono trenta i Paesi ad aver riconosciuto il genocidio, tra cui Italia, Francia, Germania, Russia e gran parte del Sudamerica. Anche il Parlamento europeo, nel 2015, ha effettuato il riconoscimento.
Sembrerebbe inoltre che un'importante svolta stia arrivando anche dalla Casa Bianca. Alcuni giorni fa, un gruppo bipartisan di deputati statunitensi ha inviato una lettera a Joe Biden, esortandolo a riconoscere formalmente il genocidio: secondo quanto riferito da New York Times, Wall Street Journal e The Guardian, è probabile che l'attuale presidente americano scelga di prendere apertamente e formalmente posizione in tal senso proprio nella giornata di oggi. Si tratterebbe di un riconoscimento ufficiale da parte di un presidente in carica, anche se alcuni predecessori avevano già assunto delle posizioni piuttosto dure: Ronald Reagan, in un discorso del 1981, aveva fatto esplicito riferimento al «genocidio degli armeni», mentre Donald Trump aveva parlato nel 2019 di «una delle peggiori atrocità di massa del XX secolo». In tutto questo, il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha già lanciato un avvertimento all'amministrazione Biden, sottolineando che un eventuale riconoscimento danneggerebbe le relazioni tra Washington e Ankara. Una voce critica, sulla questione, si è levata anche dall'ambasciata dell'Azerbaigian negli Stati Uniti.
Frattanto, come riportato dalla Catholic News Agency, la Conferenza episcopale statunitense si è già espressa con chiarezza, in un comunicato emesso lunedì scorso. «Il 24 aprile è il giorno della memoria del genocidio armeno, che segna l'inizio nel 1915 di una campagna che ha provocato la morte di ben 1,2 milioni di cristiani armeni - vittime di sparatorie di massa, marce della morte in campi lontani, torture, aggressioni, fame e malattie».
La commemorazione di quest'anno risulterà in un certo senso particolare, perché avviene a pochi mesi dal recente conflitto in Nagorno-Karabakh, dove - lo scorso autunno - l'Azerbaigian è riuscito a portare avanti un deciso avanzamento territoriale ai danni degli armeni, anche grazie al fondamentale appoggio fornito dalla Turchia: una Turchia che, oltre ad arginare Erevan dal punto di vista geopolitico, mira a rafforzare la propria influenza sul Caucaso meridionale e sull'Asia centrale. Una Turchia che sta, tra l'altro, rinsaldando sempre più i propri legami con Baku. È esattamente in questo contesto che gli armeni nel Nagorno-Karabakh stanno da mesi denunciando forme di danneggiamento e rimozione del proprio patrimonio culturale nella regione ad opera delle forze azere.
Il reportage sulle famiglie colpite dalla guerra in Artsakh
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Al di là delle turbolenze geopolitiche che sta provocando, il recente conflitto del Nagorno-Karabakh ha anche avuto un peso drammatico su numerose famiglie armene. Famiglie che si sono ritrovate attanagliate dalla guerra e che, in molti casi, hanno visto morire alcuni dei propri cari. Di questo specifico problema si è occupata la segretaria del Consiglio dell'Unione degli Armeni d'Italia e Presidente di Agbu Milano, <strong>Gayané </strong><strong>Khodaveerdi</strong>, che si è recentemente recata sul posto per parlare e aiutare le famiglie in lutto. Intervistata da <em>La Verit</em><em>à</em>, ha spiegato nel dettaglio la situazione e la propria attività di ricerca.
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«Mi sono recata in Armenia», ha dichiarato, «sia per motivi personali che umanitari. Mi era stato dato il compito di trovare il modo migliore per aiutare le famiglie colpite dalla guerra in Artsakh (Nagorno Karabakh) con i fondi raccolti con l'associazione Unione degli Armeni d'Italia. Per trovare le famiglie in condizioni più bisognose mi sono rivolta ad una psicologa armena, appartenente alla diaspora londinese, che trent'anni fa ha aperto il primo centro di psicologia in Armenia. Questa professionista, nonostante sia attualmente in pensione, svolge un lavoro di volontariato in assistenza alle famiglie colpite dalla guerra che hanno subito un lutto o che hanno famigliari gravemente feriti». «Questa donna dall'incredibile energia», ha proseguito, «mi ha fornito una lista di famiglie da aiutare, attualmente assistite psicologicamente da lei e dal suo team. Ho individuato le famiglie che si trovavano nelle situazioni più difficili. Ho visitato queste famiglie nell'arco di varie giornate, dato che ogni visita implicava un grande sforzo emotivo vista la gravità della situazione, e oltretutto le famiglie che ho visitato non vivevano tutte nella stessa zona. Ho voluto dare a ogni testimonianza il suo giusto tempo dato che la mia volontà era quella di ascoltare i racconti drammatici nella maniera più rispettosa e profonda possibile».
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Un vissuto che, secondo <strong>Gayané Khodaveerdi</strong>, «si è rivelato particolarmente doloroso e toccante. È stata un'esperienza molto drammatica», ha raccontato a <em>La Verit</em><em>à</em>, «perché entrando nella storia di ciascuna famiglia si riesce a vivere sulla propria pelle la tragicità di ogni storia. La maggior parte dei caduti è costituita da ragazzi giovanissimi, privi di barba, costretti a combattere in questa guerra atroce senza aver neanche iniziato l'università. Ogni testimonianza era profondamente toccante : alcune madri, pur nel dolore, riuscivano a esternare fierezza per il contributo eroico dei loro figli, altre erano invece completamente devastate e prive di lucidità», ha aggiunto.
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In tutto questo, non va poi trascurato lo spinoso problema dei prigionieri armeni attualmente in mano degli azeri. Una situazione particolarmente controversa. «Purtroppo», ha dichiarato la segretaria del Consiglio dell'Unione degli Armeni in Italia, «i prigionieri sono ancora circa duecento. L'Azerbaigian non li vuole rilasciare , malgrado i numerosi interventi di istituzioni internazionali. Nonostante gli svariati appelli e le innumerevoli manifestazioni degli armeni della diaspora, la situazione è rimasta invariata. Tanti di questi prigionieri sono stati catturati anche dopo la fine della guerra». La tesi degli azeri è che questi prigionieri siano collegati ad attività terroristiche. In tal senso, l'ambasciatore dell'Azerbaigian in Italia, <strong>Mammad Ahmadzada</strong>, ha recentemente dichiarato: «Il governo dell'Armenia ha tentato di confondere il contesto in cui sono stati effettuati nuovi arresti. Dopo la fine del conflitto, l'Armenia ha inviato nel territorio dell'Azerbaigian un gruppo di sabotaggio con l'obiettivo di commettere atti di terrorismo. Tale gruppo si è reso colpevole dell'uccisione di civili e militari azerbaigiani. I membri di tale gruppo sono stati catturati e sono attualmente detenuti in Azerbaigian». Una posizione, questa, che è tuttavia stata nettamente respinta dalle autorità armene. «L'accusa di terrorismo è assolutamente infondata. La parte armena non è mai stata associata ad alcun atto terroristico. Anzi, sono stati gli azeri ad aver utilizzato terroristi jihadisti all'interno del loro esercito durante la guerra . La parte armena non ha alcun legame con il terrorismo. E' un'accusa priva di fondamenta», ha detto a <em>La Verit</em><em>à</em>.
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La segretaria del Consiglio dell'Unione degli Armeni d'Italia si è poi concentrata sulla questione del patrimonio culturale armeno in Nagorno-Karabakh. «Purtroppo, per quanto riguarda il patrimonio culturale e religioso, stanno continuando a voler cancellare ogni traccia armena dalle zone che adesso sono in mano azera. Come è stato già testimoniato dalla Bbc con fotografie e filmati che non lasciano spazio a dubbi», ha aggiunto, «si è già verificata la totale sparizione di una chiesa e il grave danneggiamento di monumenti avvenuto dopo la fine della guerra. Da parte azera viene detto che questi edifici sono scomparsi durante il conflitto, ma le immagini raccolte dai giornalisti provano assolutamente il contrario». Recentemente <em>Radio Free Europe</em> ha pubblicato un articolo in cui si esprime preoccupazione per la sorte della chiesa medievale di Vankasar vicino alla quale le immagini satellitari raccolte da Caucasus Heritage Watch hanno identificato attività sospette. «L'ultima fase del genocidio è la negazione dell'esistenza stessa della popolazione armena su quei territori e quindi la distruzione di ogni loro traccia, senza curarsi del valore storico e culturale dei monumenti», ha concluso.
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Infine, <strong>Gayané Khodaveerdi</strong> ha formulato una considerazione geopolitica, sottolineando lo stretto legame che unisce l'Armenia alla Russia. «L'appoggio della Russia è sempre stato storicamente fondamentale per l'Armenia, questo è un dato di fatto», ha affermato. «L'Armenia ha bisogno dell'appoggio della Russia , di quello della vicina Europa e in generale della comunità internazionale, che dovrebbero apertamente intervenire per sancire la violazione delle norme internazionali riguardanti i prigionieri armeni e la distruzione del patrimonio culturale armeno», ha concluso.
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Si commemora oggi l'insieme delle deportazioni e delle uccisioni, compiute tra il 1915 e il 1916, dall'Impero Ottomano ai danni della popolazione armena: si tratta di tragici eventi che sono scaturiti nel contesto della Prima guerra mondiale e che hanno portato, secondo le stime, a oltre un milione di morti.Il reportage sulle famiglie colpite dalla guerra in Artsakh della segretaria del Consiglio dell'Unione degli Armeni d'Italia, Gayané Khodaveerdi: «La maggior parte dei caduti è costituita da ragazzi giovanissimi, privi di barba, costretti a combattere in questa guerra atroce senza aver neanche iniziato l'università».Lo speciale contiene due articoli e una fotogallery.Il 24 aprile 1915 è considerata - a livello convenzionale - la data di inizio del genocidio: quel giorno, la cosiddetta «domenica rossa», si verificarono infatti gli arresti e le deportazioni di numerosi notabili e intellettuali armeni. «Nei 106 anni dal genocidio armeno, la comunità internazionale ha costruito basi e strutture istituzionali per riunire le nazioni per lavorare contro la discriminazione, l'esclusione, la violazione persistente dei diritti umani e delle libertà con la promessa di un 'mai più'», ha dichiarato l'ambasciatrice della Repubblica d'Armenia in Italia, Tsovinar Hambardzumyan. «Come nazione sopravvissuta al genocidio», ha proseguito, «l'Armenia ha avviato un processo per aumentare il livello della cooperazione internazionale, sforzi internazionali per rafforzare il concetto di prevenzione contro le atrocità di massa attraverso l'avvio di risoluzioni tematiche sulla prevenzione del genocidio».Per celebrare la commemorazione, l'Armenian General Benevolent Union (Agbu) di Milano organizzerà oggi, alle 12, un flashmob della durata di un'ora in piazza Duomo (angolo via Marconi). «Noi Armeni di Milano, discendenti diretti delle vittime di quel barbaro crimine contro l'umanità, non ci stancheremo mai di urlare al mondo intero l'ingiustizia subita dal nostro popolo. La Turchia moderna continua sfacciatamente ad essere complice dell'Impero Ottomano, sprezzante del diritto internazionale e certa che lo sguardo distratto dell'Occidente continuerà ad essere indulgente: dobbiamo alzare la voce affinché ciò non accada più da nessuna parte del mondo», si legge in un comunicato dell'Agbu di Milano. L'evento sarà seguito da una preghiera organizzata dalla Chiesa Armena Apostolica di Milano in piazza Sant'Ambrogio alle 16. La Turchia si è finora seccamente rifiutata di ammettere il genocidio, sostenendo che non vi siano state uccisioni sistematiche e mettendo in dubbio il numero delle vittime. Inoltre, Ankara afferma che le deportazioni armene fossero dettate da ragioni legate alla sicurezza nazionale. Sono tuttavia numerose le nazioni che, nel corso del tempo, hanno identificato quelle atrocità come un genocidio. Nel 2015, Papa Francesco, riprendendo la posizione che fu già di Giovanni Paolo II, lo definì «il primo genocidio del XX secolo». «Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi», dichiarò. Una posizione che suscitò la forte irritazione del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Nel 2019, il Congresso degli Stati Uniti ha, dal canto suo, approvato (a schiacciante maggioranza) delle risoluzioni per riconoscere il genocidio, innescando - anche in quel caso - le dure reazioni di Ankara. Attualmente sono trenta i Paesi ad aver riconosciuto il genocidio, tra cui Italia, Francia, Germania, Russia e gran parte del Sudamerica. Anche il Parlamento europeo, nel 2015, ha effettuato il riconoscimento. Sembrerebbe inoltre che un'importante svolta stia arrivando anche dalla Casa Bianca. Alcuni giorni fa, un gruppo bipartisan di deputati statunitensi ha inviato una lettera a Joe Biden, esortandolo a riconoscere formalmente il genocidio: secondo quanto riferito da New York Times, Wall Street Journal e The Guardian, è probabile che l'attuale presidente americano scelga di prendere apertamente e formalmente posizione in tal senso proprio nella giornata di oggi. Si tratterebbe di un riconoscimento ufficiale da parte di un presidente in carica, anche se alcuni predecessori avevano già assunto delle posizioni piuttosto dure: Ronald Reagan, in un discorso del 1981, aveva fatto esplicito riferimento al «genocidio degli armeni», mentre Donald Trump aveva parlato nel 2019 di «una delle peggiori atrocità di massa del XX secolo». In tutto questo, il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha già lanciato un avvertimento all'amministrazione Biden, sottolineando che un eventuale riconoscimento danneggerebbe le relazioni tra Washington e Ankara. Una voce critica, sulla questione, si è levata anche dall'ambasciata dell'Azerbaigian negli Stati Uniti.Frattanto, come riportato dalla Catholic News Agency, la Conferenza episcopale statunitense si è già espressa con chiarezza, in un comunicato emesso lunedì scorso. «Il 24 aprile è il giorno della memoria del genocidio armeno, che segna l'inizio nel 1915 di una campagna che ha provocato la morte di ben 1,2 milioni di cristiani armeni - vittime di sparatorie di massa, marce della morte in campi lontani, torture, aggressioni, fame e malattie».La commemorazione di quest'anno risulterà in un certo senso particolare, perché avviene a pochi mesi dal recente conflitto in Nagorno-Karabakh, dove - lo scorso autunno - l'Azerbaigian è riuscito a portare avanti un deciso avanzamento territoriale ai danni degli armeni, anche grazie al fondamentale appoggio fornito dalla Turchia: una Turchia che, oltre ad arginare Erevan dal punto di vista geopolitico, mira a rafforzare la propria influenza sul Caucaso meridionale e sull'Asia centrale. Una Turchia che sta, tra l'altro, rinsaldando sempre più i propri legami con Baku. È esattamente in questo contesto che gli armeni nel Nagorno-Karabakh stanno da mesi denunciando forme di danneggiamento e rimozione del proprio patrimonio culturale nella regione ad opera delle forze azere.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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