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2021-04-24
Ricordiamo l'anniversario del genocidio armeno e le vittime della guerra con l'Azerbaigian
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Il 24 aprile 1915 è considerata - a livello convenzionale - la data di inizio del genocidio: quel giorno, la cosiddetta «domenica rossa», si verificarono infatti gli arresti e le deportazioni di numerosi notabili e intellettuali armeni.
«Nei 106 anni dal genocidio armeno, la comunità internazionale ha costruito basi e strutture istituzionali per riunire le nazioni per lavorare contro la discriminazione, l'esclusione, la violazione persistente dei diritti umani e delle libertà con la promessa di un 'mai più'», ha dichiarato l'ambasciatrice della Repubblica d'Armenia in Italia, Tsovinar Hambardzumyan. «Come nazione sopravvissuta al genocidio», ha proseguito, «l'Armenia ha avviato un processo per aumentare il livello della cooperazione internazionale, sforzi internazionali per rafforzare il concetto di prevenzione contro le atrocità di massa attraverso l'avvio di risoluzioni tematiche sulla prevenzione del genocidio».
Per celebrare la commemorazione, l'Armenian General Benevolent Union (Agbu) di Milano organizzerà oggi, alle 12, un flashmob della durata di un'ora in piazza Duomo (angolo via Marconi). «Noi Armeni di Milano, discendenti diretti delle vittime di quel barbaro crimine contro l'umanità, non ci stancheremo mai di urlare al mondo intero l'ingiustizia subita dal nostro popolo. La Turchia moderna continua sfacciatamente ad essere complice dell'Impero Ottomano, sprezzante del diritto internazionale e certa che lo sguardo distratto dell'Occidente continuerà ad essere indulgente: dobbiamo alzare la voce affinché ciò non accada più da nessuna parte del mondo», si legge in un comunicato dell'Agbu di Milano. L'evento sarà seguito da una preghiera organizzata dalla Chiesa Armena Apostolica di Milano in piazza Sant'Ambrogio alle 16.
La Turchia si è finora seccamente rifiutata di ammettere il genocidio, sostenendo che non vi siano state uccisioni sistematiche e mettendo in dubbio il numero delle vittime. Inoltre, Ankara afferma che le deportazioni armene fossero dettate da ragioni legate alla sicurezza nazionale. Sono tuttavia numerose le nazioni che, nel corso del tempo, hanno identificato quelle atrocità come un genocidio. Nel 2015, Papa Francesco, riprendendo la posizione che fu già di Giovanni Paolo II, lo definì «il primo genocidio del XX secolo». «Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi», dichiarò. Una posizione che suscitò la forte irritazione del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Nel 2019, il Congresso degli Stati Uniti ha, dal canto suo, approvato (a schiacciante maggioranza) delle risoluzioni per riconoscere il genocidio, innescando - anche in quel caso - le dure reazioni di Ankara. Attualmente sono trenta i Paesi ad aver riconosciuto il genocidio, tra cui Italia, Francia, Germania, Russia e gran parte del Sudamerica. Anche il Parlamento europeo, nel 2015, ha effettuato il riconoscimento.
Sembrerebbe inoltre che un'importante svolta stia arrivando anche dalla Casa Bianca. Alcuni giorni fa, un gruppo bipartisan di deputati statunitensi ha inviato una lettera a Joe Biden, esortandolo a riconoscere formalmente il genocidio: secondo quanto riferito da New York Times, Wall Street Journal e The Guardian, è probabile che l'attuale presidente americano scelga di prendere apertamente e formalmente posizione in tal senso proprio nella giornata di oggi. Si tratterebbe di un riconoscimento ufficiale da parte di un presidente in carica, anche se alcuni predecessori avevano già assunto delle posizioni piuttosto dure: Ronald Reagan, in un discorso del 1981, aveva fatto esplicito riferimento al «genocidio degli armeni», mentre Donald Trump aveva parlato nel 2019 di «una delle peggiori atrocità di massa del XX secolo». In tutto questo, il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha già lanciato un avvertimento all'amministrazione Biden, sottolineando che un eventuale riconoscimento danneggerebbe le relazioni tra Washington e Ankara. Una voce critica, sulla questione, si è levata anche dall'ambasciata dell'Azerbaigian negli Stati Uniti.
Frattanto, come riportato dalla Catholic News Agency, la Conferenza episcopale statunitense si è già espressa con chiarezza, in un comunicato emesso lunedì scorso. «Il 24 aprile è il giorno della memoria del genocidio armeno, che segna l'inizio nel 1915 di una campagna che ha provocato la morte di ben 1,2 milioni di cristiani armeni - vittime di sparatorie di massa, marce della morte in campi lontani, torture, aggressioni, fame e malattie».
La commemorazione di quest'anno risulterà in un certo senso particolare, perché avviene a pochi mesi dal recente conflitto in Nagorno-Karabakh, dove - lo scorso autunno - l'Azerbaigian è riuscito a portare avanti un deciso avanzamento territoriale ai danni degli armeni, anche grazie al fondamentale appoggio fornito dalla Turchia: una Turchia che, oltre ad arginare Erevan dal punto di vista geopolitico, mira a rafforzare la propria influenza sul Caucaso meridionale e sull'Asia centrale. Una Turchia che sta, tra l'altro, rinsaldando sempre più i propri legami con Baku. È esattamente in questo contesto che gli armeni nel Nagorno-Karabakh stanno da mesi denunciando forme di danneggiamento e rimozione del proprio patrimonio culturale nella regione ad opera delle forze azere.
Il reportage sulle famiglie colpite dalla guerra in Artsakh
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Al di là delle turbolenze geopolitiche che sta provocando, il recente conflitto del Nagorno-Karabakh ha anche avuto un peso drammatico su numerose famiglie armene. Famiglie che si sono ritrovate attanagliate dalla guerra e che, in molti casi, hanno visto morire alcuni dei propri cari. Di questo specifico problema si è occupata la segretaria del Consiglio dell'Unione degli Armeni d'Italia e Presidente di Agbu Milano, <strong>Gayané </strong><strong>Khodaveerdi</strong>, che si è recentemente recata sul posto per parlare e aiutare le famiglie in lutto. Intervistata da <em>La Verit</em><em>à</em>, ha spiegato nel dettaglio la situazione e la propria attività di ricerca.
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«Mi sono recata in Armenia», ha dichiarato, «sia per motivi personali che umanitari. Mi era stato dato il compito di trovare il modo migliore per aiutare le famiglie colpite dalla guerra in Artsakh (Nagorno Karabakh) con i fondi raccolti con l'associazione Unione degli Armeni d'Italia. Per trovare le famiglie in condizioni più bisognose mi sono rivolta ad una psicologa armena, appartenente alla diaspora londinese, che trent'anni fa ha aperto il primo centro di psicologia in Armenia. Questa professionista, nonostante sia attualmente in pensione, svolge un lavoro di volontariato in assistenza alle famiglie colpite dalla guerra che hanno subito un lutto o che hanno famigliari gravemente feriti». «Questa donna dall'incredibile energia», ha proseguito, «mi ha fornito una lista di famiglie da aiutare, attualmente assistite psicologicamente da lei e dal suo team. Ho individuato le famiglie che si trovavano nelle situazioni più difficili. Ho visitato queste famiglie nell'arco di varie giornate, dato che ogni visita implicava un grande sforzo emotivo vista la gravità della situazione, e oltretutto le famiglie che ho visitato non vivevano tutte nella stessa zona. Ho voluto dare a ogni testimonianza il suo giusto tempo dato che la mia volontà era quella di ascoltare i racconti drammatici nella maniera più rispettosa e profonda possibile».
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Un vissuto che, secondo <strong>Gayané Khodaveerdi</strong>, «si è rivelato particolarmente doloroso e toccante. È stata un'esperienza molto drammatica», ha raccontato a <em>La Verit</em><em>à</em>, «perché entrando nella storia di ciascuna famiglia si riesce a vivere sulla propria pelle la tragicità di ogni storia. La maggior parte dei caduti è costituita da ragazzi giovanissimi, privi di barba, costretti a combattere in questa guerra atroce senza aver neanche iniziato l'università. Ogni testimonianza era profondamente toccante : alcune madri, pur nel dolore, riuscivano a esternare fierezza per il contributo eroico dei loro figli, altre erano invece completamente devastate e prive di lucidità», ha aggiunto.
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In tutto questo, non va poi trascurato lo spinoso problema dei prigionieri armeni attualmente in mano degli azeri. Una situazione particolarmente controversa. «Purtroppo», ha dichiarato la segretaria del Consiglio dell'Unione degli Armeni in Italia, «i prigionieri sono ancora circa duecento. L'Azerbaigian non li vuole rilasciare , malgrado i numerosi interventi di istituzioni internazionali. Nonostante gli svariati appelli e le innumerevoli manifestazioni degli armeni della diaspora, la situazione è rimasta invariata. Tanti di questi prigionieri sono stati catturati anche dopo la fine della guerra». La tesi degli azeri è che questi prigionieri siano collegati ad attività terroristiche. In tal senso, l'ambasciatore dell'Azerbaigian in Italia, <strong>Mammad Ahmadzada</strong>, ha recentemente dichiarato: «Il governo dell'Armenia ha tentato di confondere il contesto in cui sono stati effettuati nuovi arresti. Dopo la fine del conflitto, l'Armenia ha inviato nel territorio dell'Azerbaigian un gruppo di sabotaggio con l'obiettivo di commettere atti di terrorismo. Tale gruppo si è reso colpevole dell'uccisione di civili e militari azerbaigiani. I membri di tale gruppo sono stati catturati e sono attualmente detenuti in Azerbaigian». Una posizione, questa, che è tuttavia stata nettamente respinta dalle autorità armene. «L'accusa di terrorismo è assolutamente infondata. La parte armena non è mai stata associata ad alcun atto terroristico. Anzi, sono stati gli azeri ad aver utilizzato terroristi jihadisti all'interno del loro esercito durante la guerra . La parte armena non ha alcun legame con il terrorismo. E' un'accusa priva di fondamenta», ha detto a <em>La Verit</em><em>à</em>.
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La segretaria del Consiglio dell'Unione degli Armeni d'Italia si è poi concentrata sulla questione del patrimonio culturale armeno in Nagorno-Karabakh. «Purtroppo, per quanto riguarda il patrimonio culturale e religioso, stanno continuando a voler cancellare ogni traccia armena dalle zone che adesso sono in mano azera. Come è stato già testimoniato dalla Bbc con fotografie e filmati che non lasciano spazio a dubbi», ha aggiunto, «si è già verificata la totale sparizione di una chiesa e il grave danneggiamento di monumenti avvenuto dopo la fine della guerra. Da parte azera viene detto che questi edifici sono scomparsi durante il conflitto, ma le immagini raccolte dai giornalisti provano assolutamente il contrario». Recentemente <em>Radio Free Europe</em> ha pubblicato un articolo in cui si esprime preoccupazione per la sorte della chiesa medievale di Vankasar vicino alla quale le immagini satellitari raccolte da Caucasus Heritage Watch hanno identificato attività sospette. «L'ultima fase del genocidio è la negazione dell'esistenza stessa della popolazione armena su quei territori e quindi la distruzione di ogni loro traccia, senza curarsi del valore storico e culturale dei monumenti», ha concluso.
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Infine, <strong>Gayané Khodaveerdi</strong> ha formulato una considerazione geopolitica, sottolineando lo stretto legame che unisce l'Armenia alla Russia. «L'appoggio della Russia è sempre stato storicamente fondamentale per l'Armenia, questo è un dato di fatto», ha affermato. «L'Armenia ha bisogno dell'appoggio della Russia , di quello della vicina Europa e in generale della comunità internazionale, che dovrebbero apertamente intervenire per sancire la violazione delle norme internazionali riguardanti i prigionieri armeni e la distruzione del patrimonio culturale armeno», ha concluso.
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Si commemora oggi l'insieme delle deportazioni e delle uccisioni, compiute tra il 1915 e il 1916, dall'Impero Ottomano ai danni della popolazione armena: si tratta di tragici eventi che sono scaturiti nel contesto della Prima guerra mondiale e che hanno portato, secondo le stime, a oltre un milione di morti.Il reportage sulle famiglie colpite dalla guerra in Artsakh della segretaria del Consiglio dell'Unione degli Armeni d'Italia, Gayané Khodaveerdi: «La maggior parte dei caduti è costituita da ragazzi giovanissimi, privi di barba, costretti a combattere in questa guerra atroce senza aver neanche iniziato l'università».Lo speciale contiene due articoli e una fotogallery.Il 24 aprile 1915 è considerata - a livello convenzionale - la data di inizio del genocidio: quel giorno, la cosiddetta «domenica rossa», si verificarono infatti gli arresti e le deportazioni di numerosi notabili e intellettuali armeni. «Nei 106 anni dal genocidio armeno, la comunità internazionale ha costruito basi e strutture istituzionali per riunire le nazioni per lavorare contro la discriminazione, l'esclusione, la violazione persistente dei diritti umani e delle libertà con la promessa di un 'mai più'», ha dichiarato l'ambasciatrice della Repubblica d'Armenia in Italia, Tsovinar Hambardzumyan. «Come nazione sopravvissuta al genocidio», ha proseguito, «l'Armenia ha avviato un processo per aumentare il livello della cooperazione internazionale, sforzi internazionali per rafforzare il concetto di prevenzione contro le atrocità di massa attraverso l'avvio di risoluzioni tematiche sulla prevenzione del genocidio».Per celebrare la commemorazione, l'Armenian General Benevolent Union (Agbu) di Milano organizzerà oggi, alle 12, un flashmob della durata di un'ora in piazza Duomo (angolo via Marconi). «Noi Armeni di Milano, discendenti diretti delle vittime di quel barbaro crimine contro l'umanità, non ci stancheremo mai di urlare al mondo intero l'ingiustizia subita dal nostro popolo. La Turchia moderna continua sfacciatamente ad essere complice dell'Impero Ottomano, sprezzante del diritto internazionale e certa che lo sguardo distratto dell'Occidente continuerà ad essere indulgente: dobbiamo alzare la voce affinché ciò non accada più da nessuna parte del mondo», si legge in un comunicato dell'Agbu di Milano. L'evento sarà seguito da una preghiera organizzata dalla Chiesa Armena Apostolica di Milano in piazza Sant'Ambrogio alle 16. La Turchia si è finora seccamente rifiutata di ammettere il genocidio, sostenendo che non vi siano state uccisioni sistematiche e mettendo in dubbio il numero delle vittime. Inoltre, Ankara afferma che le deportazioni armene fossero dettate da ragioni legate alla sicurezza nazionale. Sono tuttavia numerose le nazioni che, nel corso del tempo, hanno identificato quelle atrocità come un genocidio. Nel 2015, Papa Francesco, riprendendo la posizione che fu già di Giovanni Paolo II, lo definì «il primo genocidio del XX secolo». «Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi», dichiarò. Una posizione che suscitò la forte irritazione del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Nel 2019, il Congresso degli Stati Uniti ha, dal canto suo, approvato (a schiacciante maggioranza) delle risoluzioni per riconoscere il genocidio, innescando - anche in quel caso - le dure reazioni di Ankara. Attualmente sono trenta i Paesi ad aver riconosciuto il genocidio, tra cui Italia, Francia, Germania, Russia e gran parte del Sudamerica. Anche il Parlamento europeo, nel 2015, ha effettuato il riconoscimento. Sembrerebbe inoltre che un'importante svolta stia arrivando anche dalla Casa Bianca. Alcuni giorni fa, un gruppo bipartisan di deputati statunitensi ha inviato una lettera a Joe Biden, esortandolo a riconoscere formalmente il genocidio: secondo quanto riferito da New York Times, Wall Street Journal e The Guardian, è probabile che l'attuale presidente americano scelga di prendere apertamente e formalmente posizione in tal senso proprio nella giornata di oggi. Si tratterebbe di un riconoscimento ufficiale da parte di un presidente in carica, anche se alcuni predecessori avevano già assunto delle posizioni piuttosto dure: Ronald Reagan, in un discorso del 1981, aveva fatto esplicito riferimento al «genocidio degli armeni», mentre Donald Trump aveva parlato nel 2019 di «una delle peggiori atrocità di massa del XX secolo». In tutto questo, il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha già lanciato un avvertimento all'amministrazione Biden, sottolineando che un eventuale riconoscimento danneggerebbe le relazioni tra Washington e Ankara. Una voce critica, sulla questione, si è levata anche dall'ambasciata dell'Azerbaigian negli Stati Uniti.Frattanto, come riportato dalla Catholic News Agency, la Conferenza episcopale statunitense si è già espressa con chiarezza, in un comunicato emesso lunedì scorso. «Il 24 aprile è il giorno della memoria del genocidio armeno, che segna l'inizio nel 1915 di una campagna che ha provocato la morte di ben 1,2 milioni di cristiani armeni - vittime di sparatorie di massa, marce della morte in campi lontani, torture, aggressioni, fame e malattie».La commemorazione di quest'anno risulterà in un certo senso particolare, perché avviene a pochi mesi dal recente conflitto in Nagorno-Karabakh, dove - lo scorso autunno - l'Azerbaigian è riuscito a portare avanti un deciso avanzamento territoriale ai danni degli armeni, anche grazie al fondamentale appoggio fornito dalla Turchia: una Turchia che, oltre ad arginare Erevan dal punto di vista geopolitico, mira a rafforzare la propria influenza sul Caucaso meridionale e sull'Asia centrale. Una Turchia che sta, tra l'altro, rinsaldando sempre più i propri legami con Baku. È esattamente in questo contesto che gli armeni nel Nagorno-Karabakh stanno da mesi denunciando forme di danneggiamento e rimozione del proprio patrimonio culturale nella regione ad opera delle forze azere.
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Meloni ha poi lanciato un altro attacco all’opposizione a proposito di Abu Mazen, presidente della Palestina: «La sua bella presenza qui ad Atreju fa giustizia delle accuse vergognose di complicità in genocidio che una sinistra imbarazzante ci ha rivolto per mesi». E ancora contro la sinistra: «La buona notizia è che ogni volta che loro parlano male di qualcosa va benissimo. Cioè parlano male di Atreju ed è l’edizione migliore di sempre, parlano male del governo, il governo sale nei sondaggi, hanno tentato di boicottare una casa editrice, è diventata famosissima. Cioè si portano da soli una sfiga che manco quando capita la carta della Pagoda al Mercante in fiera, visto che siamo in clima natalizio. E allora grazie a tutti quelli che hanno fatto le macumbe». L’altra stilettata ironica a proposito del premio dell’Unesco che riconosce la cucina italiana come bene immateriale dell’umanità: «A sinistra non è andato bene manco questo. Loro non sono riusciti a gioire per un riconoscimento che non è al governo ma alle nostre mamme e nonne, alle nostre filiere, alla nostra tradizione, alla nostra identità. Hanno rosicato così tanto che è una settimana che mangiano tutti dal kebabbaro. Veramente roba da matti». Ricordando l’unità della coalizione, Meloni ha sottolineato che questa destra «non è un incidente della storia» rivendicando le iniziative adottate in tre anni di esecutivo. Il premier ha poi toccato i temi di attualità e a proposito dell’equità fiscale rivendicata dall’opposizione ha scandito: «Non accettiamo lezioni da chi fa il comunista con il ceto medio e il turbo capitalista a favore dei potenti. Oggi il Pd si indigna perché gli Elkann vogliono vendere il gruppo Gedi e non ci sarebbero garanzie per i lavoratori però quando chiudevano gli stabilimenti di Stellantis ed erano gli operai a perdere il posto di lavoro, tutti muti. Anche Landini sul tema fischiettava». Non sono mancati i riferimenti ai temi caldi del centrodestra: immigrazione, riforma della giustizia, guerra in Ucraina ed Ue con il disimpegno di Trump e il Green Deal.
Sul palco anche i due vicepremier. «La mia non vuole essere solo una presenza formale, ma una presenza per riconfermare un impegno che tutti noi abbiamo preso nel 1994» ha detto il leader di Fi Antonio Tajani. «Ma gli accordi di alleanze fatte soprattutto di lealtà e impegno, devono essere rinnovati ogni giorno. La ragione di esistere di questa coalizione è fare l’interesse di ciascuno dei 60 milioni di cittadini italiani. E lo possiamo fare garantendo, grazie all’unità di questa coalizione, stabilità politica a questo Paese». Per il leader leghista Matteo Salvini “c’è innanzitutto l’orgoglio di esserci dopo tanti anni. Ci provano in tutti i modi a far litigare me e Giorgia. Ma amici giornalisti, mettetevi l’anima in pace: non ci riuscirete mai». Poi il ministro dei Trasporti ha assicurato che farà «di tutto» per avviare i lavori per il Ponte sullo Stretto, ha rilanciato sull’innalzamento del tetto del contante e sull’impegno anti maranza e infine ricordato come il governo stia facendo un buon lavoro nella tassazione delle banche.
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C'è un'invenzione che si deve agli aviatori, anzi, a un minuto personaggio brasiliano stanco di dover cercare l'orologio nel suo taschino mentre pilotava l'aeroplano.
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Se a causa degli scandali, il supporto alla resistenza ucraina mostra vistose crepe, con più della metà degli italiani che non è intenzionata a sostenere militarmente le truppe che cercano di respingere l’armata russa, non è che i soldati che da quasi quattro anni combattono sembrano poi pensarla in modo molto diverso. Sul Corriere della Sera ieri è stata pubblicata un’immagine in cui si vedono militari in divisa sfatti dalla fatica. Tuttavia, a colpire non è la stanchezza dei soldati, ma la loro età. Si capisce chiaramente che non si tratta di giovani bensì di anziani, considerando che comunque l’età media dei militari è superiore ai 40 anni. Uomini esausti, ma soprattutto anagraficamente lontani da un’immagine di agilità e forza. Intendiamoci, a volte gli anni portano esperienza e competenza, soprattutto al fronte, dove serve sangue freddo per non rischiare la pelle. Ma non è questo il punto: non si tratta di pensionare i militari più vecchi, ma di reclutare i giovani e questo è un problema che la fotografia pubblicata sul quotidiano di via Solferino ben rappresenta. Il giornale, infatti, ci informa che 235.000 militari non si sono presentati ai loro reparti e quasi 54.000 sono già stati ufficialmente dichiarati disertori. In pratica, un soldato su quattro del milione mobilitato pare non avere alcuna intenzione di imbracciare un fucile. Per quanto le guerre moderne si combattano con l’Intelligenza artificiale, con i satelliti e i droni, poi alla fine la differenza la fanno sempre gli uomini. A Pokrovsk, la città che da un anno resiste agli assalti delle truppe russe, impedendo agli uomini di Putin di dilagare nel Donbass, se non ci fossero reparti coraggiosi che continuano a respingere gli invasori, Mosca avrebbe già visto sventolare la sua bandiera sui tetti delle poche costruzioni rimaste in piedi dopo mesi di bombardamenti devastanti.
Il tema delle diserzioni, della fuga all’estero di centinaia di migliaia di giovani che non vogliono morire sotto le bombe, è tale che in Polonia e Germania, ma anche in altri Paesi confinanti, si sta facendo pressione per impedire l’arrivo di ulteriori fuggiaschi. Se si guarda al numero di chi non ha intenzione di combattere si capisce perché è necessario raggiungere una tregua. Quanto ancora potrà resistere l’Ucraina in queste condizioni? A marzo comincerà il quinto anno di guerra. Un conflitto che rischia di non avere precedenti, per numero di morti e per la devastazione. E soprattutto uno scontro che minaccia di trascinare in un buco nero l’intera Europa, che invece di cogliere il pericolo sembra scommettere ancora sulle armi piuttosto che sulla tregua. C’è chi continua a invocare una pace giusta, ma la pace giusta appartiene alle aspirazioni, non alla realtà.
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