2024-07-28
«La genialità di mio marito rivive nel denim»
Nel riquadro la presidente del marchio Jacob Cohën, Jennifer Tommasi Bardelle (www.jacobcohen.com)
La presidente e direttrice creativa di Jacob Cohën: «Mio suocero fondò l’azienda, ma fu Nicola a trasformarla in sinonimo di stile col jeans di lusso, che diventò uno status symbol. Alla base ci sono alta sartoria made in Italy e oltre 100 ore di lavorazione per capo».Nel podcast Coraggio da vendere, tracce di imprese per immaginare il futuro (Gruppo Publiscoop), vengono definiti, lui, «ribellione geniale» e lei, «l’eleganza determinata». Definizioni che calzano a pennello quando si parla di Nicola Bardelle e sua moglie Jennifer Tommasi Bardelle. Insieme hanno scritto la storia, almeno da un certo punto in poi, di un marchio come Jacob Cohën. «Il marchio è nato nel 1985 nel periodo d’oro della moda italiana, in quel momento magico in cui qualsiasi idea diventava petrolio», racconta Jennifer Tommasi Bardelle alla Verità. «Mio suocero, Tato Bardelle, che a quell’epoca rappresentava un marchio come Americanino, decise, tra le tante cose che metteva insieme, perfino una fabbrica di tortellini, di fare un jeans di lusso con accessori di lusso». Poi tutto cambia: dopo qualche anno Tato Bardelle mette il marchio in soffitta, e Nicola, che con forza e coraggio ridà vita alla Jacob Cohën, perde la vita in un incidente stradale nel 2012. Oggi, Jennifer Tommasi Bardelle, presidente e direttrice creativa di Jacob Cohën, affiancata dall’amministratore delegato Luca Roda, descrive la maison, trasformata in sinonimo di stile dalla creatività di Nicola Bardelle, nella sua fase di grande trasformazione e rilancio dell’azienda. «Ho deciso di prendere in mano il rilancio creativo di Jacob Cohën guardando al futuro e facendo qualcosa di nuovo, come avrebbe fatto lo stesso Nicola che con la sua creatività ha fatto la fortuna di questo brand». Partiamo proprio dall’inizio, da dove viene il nome? «In onore del socio di Levi Strauss, il sarto Jacob Davis, inventore dei rivetti. Entrato in società con Strauss, registrò il moderno jeans in denim con il numero di brevetto 139.121. Mio suocero, non potendo depositare un nome già famoso, a Jacob unì il cognome Cohën, da considerarsi uno dei più rappresentativi della cultura ebraica, con una doppia valenza culturale e storica. Subito grandi progetti, pubblicità su Vogue, posizionamento altissimo. Ma tutto naufraga, dopo due tre anni, insieme al mondo Americanino. La fortuna fu che Tato aveva depositato il marchio sotto il nome del figlio Nicola. Quindi dal fallimento di Americanino, Jacob Cohën rimase fuori». Quando entra Nicola… «Dopo anni di silenzio è il 2002 quando Nicola toglie dalla naftalina il nome brevettato dal padre e riprende tutto in mano per iniziare a produrre un jeans che non esisteva sul mercato, un denim cinque tasche da mettere sotto il blazer. Nicola presentava i jeans con la piega stirata in tessuti preziosi come quello giapponese cimosato che nessuno osava utilizzare perché costava una follia. Oltre 20 anni fa, un capo che arrivava dal workwear, costava davvero tanti soldi. Anche gli accessori erano preziosi: rivetti e bottoni d’argento e addirittura i Jacob Cohën venivano venduti con una spugnetta attaccata per pulire i bottoni e i rivetti e con il rocchetto di filo. Allora era l’unico, un vero pantalone status symbol. Capi particolari e personalizzati». L’idea vincente? «Introdurre sul mercato un pantalone slim fit con il quale gli uomini si sentivano subito giovani e poi vendere questo jeans nelle boutique di lusso dove si trovavano le griffe famose e non nelle jeanserie. Servirono sette od otto mesi per definire il fit giusto che, leggermente modificato, esiste ancora oggi. Alla base una sartorialità con più di 28 passaggi e più di 20 tipi di confezioni diverse. Più di 100 ore di lavorazione, tra tagli laser e occhielli cuciti a mano». Dove avviene la produzione? «Tutto made in Italy, l’85% made in Veneto e il resto in un’altra denim valley nelle Marche». Lei inizia a occuparsene in che periodo?«Da subito. Vengo dalla comunicazione e dal marketing e ho iniziato a spingere proprio sulla comunicazione, lui così charmant ed energetico, in certe direzioni andava spronato. Per la collezione donna guardava nel mio guardaroba. Il total look, uomo/donna è iniziato nel 2008. Prima solo qualche pezzo come certi pantaloni in seta preziosissima giapponese ricamata a mano dal costo proibitivo. Lui non era uno stilista, era un genio. Non pensava al mood o alla cartella colori ma a ciò che gli piaceva. Le sue collezioni, non a caso, erano composte da mille capi. Lui ci credeva davvero in ogni singolo pezzo». Rispetto dell’ambiente, una delle aziende più inquinanti è proprio quella che tratta i jeans. Come affrontate il tema? «Essere sostenibili è operare nel giro di cento chilometri, fare un prodotto che duri nel tempo, gestire il personale in un certo modo. E poi abbiamo agito sul prodotto con un jeans totalmente biodegradabile». Il coraggio non le manca. «Nel 2020 sono tornata ad avere il controllo dell’azienda e da qualche mese l’ho riacquistata al 100%. Ora per me la cosa più importante è portare avanti l’idea da cui è partito Nicola, ossia realizzare capi comfort e di altissima qualità. Lui era il poeta del denim».
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