2022-04-27
Generali, Piazza Affari ha già vinto. Dopo mesi di rialzi il titolo va giù
Chi ha investito in Generali ha venduto il titolo incassando gli aumenti degli ultimi mesi
Dal primo aprile a ieri ha perso quasi il 15%. Non è un buon momento per il titolo Generali, che malgrado la battaglia in corso per il rinnovo del consiglio non sembra godere dei favori del mercato.
«Il momento non è favorevole agli assicurativi, tutto il settore è in sofferenza», spiega un analista che cita le performance di Zurich e Axa dell’ultima settimana, in calo entrambe di circa il 5% come Generali. Nelle sale operative si cita anche come il lungo confronto, partito a settembre dello scorso anno, «ha dato il tempo ha chi voleva prendere posizione di farlo da tempo».
Mentre l’ottima performance dell’ultimo anno, spinta anche dalle tensioni tra i soci, abbia convinto qualche investitore a prendere beneficio e uscire dalla partita. Nell’ultimo anno Generali ha guadagnato il 7,3%, ma da settembre scorso - quando si palesò il patto Caltagirone-Del Vecchio - al primo aprile il progresso è stato di poco inferiore al 18%. Abbastanza da spingere gli investitori opportunisti a incassare. Anche perché, si fa notare, lo scenario di un confronto legale tra i due schieramenti che potrebbe aprirsi dopo l’assemblea non è una opzione in qualche modo desiderabile da investitori di lungo periodo.
Alle 12 di domani scade intanto il termine per votare una delle due liste, anche se i risultati non saranno noti fino al giorno dell’assemblea, venerdì. I primi riscontri sulla partecipazione sono in linea con attese, con una percentuale di capitale presente superiore alle ultime assemblee. Secondo le attese, più alta sarà la quota di capitale presente e maggiore il distacco che la lista del board uscente dovrebbe avere su quella degli sfidanti. E proprio l'entità del distacco sarà determinante, con il candidato presidente della lista Caltagirone, Claudio Costamagna, che ha annunciato ricorsi in caso di sconfitta di misura, visto il 4,43% del prestito titoli di Mediobanca e l'1,4% di De Agostini ceduto a termine in scadenza.
La maggior parte degli investitori istituzionali, come fondi e gestori che rappresentano circa il 30% del capitale della compagnia, dovrebbe sostenere la lista del consiglio uscente, seguendo le indicazioni dei principali proxy advisor. A favore della conferma di Donnet si sono espressi, fra gli altri, il fondo norvegese Norges Bank Investment Management, il fondo pensione California Public Employees Retirement System, Sba Florida, Union Investment, la tedesca Deka Investment e, in Italia, le triestine Fondazioni Casali.
I due schieramenti sembrano sostanzialmente appaiati. La lista del board uscente ha il supporto di Mediobanca (17,2%), di De Agostini (1,4%) e di oltre il 2% degli istituzionali che si sono finora dichiarati, per una quota al momento quantificabile intorno al 21%. Ma la gran parte del mercato dovrebbe votare alla fine per la conferma di Donnet.
La lista di Caltagirone conta sui voti certi di un altro 21% del capitale, fra le quote del gruppo del costruttore romano, della Delfin di Leonardo Del Vecchio e della Fondazione Crt. Ma potrebbe anche ottenere l'appoggio di numerosi imprenditori e famiglie del Nord Ovest. Con la quota del 3,96% dei Benetton, che hanno già deciso come schierarsi ma non si sono ancora espressi, che potrebbe fare da ago della bilancia.
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Volodymyr Zelensky, leader ucraino (Ansa)
L’Fbi ha appena rivelato che esisterebbe una vasta campagna di disinformazione pagata da Mosca. È possibile, ma non bisogna considerare agente del Cremlino chiunque sollevi dubbi su Kiev. E di sicuro sul tema meglio evitare i consigli non richiesti di Tony Blair.
Grazie al genio dell'Fbi abbiamo appreso una grande notizia: le nazioni in guerra utilizzano la propaganda. Chissà se ci saremmo mai arrivati da soli, senza il suggerimento degli investigatori statunitensi. Mercoledì il governo americano ha incriminato due cittadini russi e sequestrato più di 30 domini Internet legati a una poderosa campagna di disinformazione. Come racconta Politico.eu, «la mole di informazioni depositate in tribunale dall’Fbi ha svelato anche una bomba: un’operazione russa volta a manipolare politici, imprenditori, giornalisti e altri influencer tedeschi, francesi, italiani e britannici. Secondo una serie di documenti russi, promemoria e verbali di riunioni sulla guerra psicologica svoltesi in Russia, l’obiettivo della campagna del Cremlino in Europa era seminare divisione, screditare l’America e minare il sostegno all’Ucraina».
In buona sostanza il Federal Bureau ha denunciato l’operato della Social Design Agency, organizzazione russa che avrebbe pianificato la diffusione di false notizie su larga scala per influenzare le opinioni pubbliche europee, a partire da quella tedesca. Curiosamente, questa notizia con accenno alla Germania arriva proprio a pochi giorni dal voto in Turingia e Sassonia, dove hanno trionfato partiti sovranisti di destra e sinistra come Afd e Bsw, ovviamente accusati di putinismo.
Qui non si tratta, però, di fare i complottisti. Che la disinformazione esista è un fatto, che la guerra psicologica e d’informazione si combatta è noto. La portano avanti i russi e la portano avanti gli ucraini e l’Occidente: niente di nuovo sotto il sole. Giusto dunque denunciare e se possibile impedire le operazioni sporche condotte sulla Rete. Sarebbe meglio farlo, tuttavia, con un filo di lucidità in più. Le notizie sulla propaganda digitale - che vanno pubblicate, ci mancherebbe - vengono quasi sempre utilizzate dalle nostre parti per sminuire e screditare i discorsi critici riguardo la guerra in Ucraina e il modo in cui viene portata avanti. Si veicola l’idea che ogni forma di opposizione sia pesantemente influenzata dalla disinformazione del Cremlino o ne sia addirittura una protuberanza. Ergo chiunque dissenta diviene immediatamente un putiniano se non un megafono prezzolato.
Il fatto è che non c’è alcun bisogno della guerra psicologica di Putin o dei fantomatici hacker russi per rendersi conto che un bel po’ di passaggi nel discorso dominante sull’Ucraina non tornano. O per farsi sorgere pesanti dubbi sulle tesi che le nostre élite continuano a veicolare. Ad esempio quelle che ieri Tony Blair ha ripetuto al Corriere della Sera, nel corso di una lunga intervista concessa ad Aldo Cazzullo.
Secondo Blair, «l’Ucraina non si sta battendo solo per sé stessa ma anche per scoraggiare altre aggressioni. Se si ci tirassimo indietro oggi, finiremmo per pagare un prezzo incomparabilmente più alto domani». L’ex premier inglese ha davvero un bel fegato: fa la morale agli altri sulle aggressioni quando fu tra i maggiori sponsor dell’attacco americano all’Iraq nel 2003. Una carneficina immotivata che provocò migliaia di morti e che ha contribuito a gettare il Medio Oriente nel caos in cui si trova ancora adesso. Non c’è bisogno di chissà quali mistificazioni russe per rendersi conto dell’ipocrisia di Blair, e non c’è bisogno di presunti lavaggi del cervello per rigettare in blocco le sue proposte. Il caro Tony sostiene tra l’altro che sia «giusto supportare qualsiasi soluzione, qualsiasi tattica che faccia si che Putin non possa proseguire la sua politica aggressiva e sia invece indotto a venire a patti». Quindi, a suo dire, sarebbe giusto concedere all’Ucraina di impiegare le armi europee per colpire in territorio russo. Un consiglio da seguire, come no. Soprattutto se consideriamo che proviene da uno che ha sostenuto una tremenda guerra di aggressione nei decenni passati e che ha giustificato orrendi massacri di innocenti.
No, davvero non c’è bisogno di essere putiniani per smascherare le menzogne dei guerrafondai da tinello, anche perché più passa il tempo e più i loro ragionamenti traballano, demoliti dai fatti. Blair, per dire, si lancia sul Corriere in uno sperticato elogio della democrazia, e sostiene che alla fine i nostri sistemi politici «prevarranno sull’uomo forte». Le persone che vivono nelle autocrazie, spiega, «vorrebbero poter scegliere il loro governo. Vorrebbero venire nei Paesi democratici». Può anche darsi.
Ma se, come sostiene l’amico Tony, la guerra in Ucraina è un conflitto fra autocrazia e democrazia, allora qualche ripassino sulle procedure democratiche andrebbe fatto anche a Volodymyr Zelensky. Come noto, il presidente ucraino ha appena organizzato un poderoso rimpasto di governo. Dopo aver fatto fuori nei mesi passati organi di informazione e partiti politici d’opposizione, da qualche tempo si dedica ai repulisti pure fra coloro che non gli sono ostili. Tra i dimissionari c’è anche Dmytro Kuleba, il ministro degli Esteri, celebratissimo in Occidente e intervistato a ripetizione.
È molto interessante, a tale proposito, ciò che ha scritto ieri Politico, magazine online non certo destrorso o filorusso. Ha raccolto varie testimonianze fra i politici ucraini e il quadro che ne esce non è esattamente radioso. Secondo Ivanna Klympush-Tsintsadze, una parlamentare del partito di opposizione European Solidarity, «tutte le attuali azioni delle autorità parlano della centralizzazione sistematica del potere da parte del presidente e del suo ufficio. Questa raffica di dimissioni di funzionari governativi mostra una grave crisi di governance nel Paese».
Ancora più suggestiva la testimonia, raccolta sempre da Politico, di «un ex alto funzionario ucraino, a cui, come ad altri in questa storia, è stata concesso l’anonimato per parlare apertamente del rimpasto». Questa fonte ha spiegato che Kuleba «è stato estromesso a causa di uno scontro con il potente capo dell’ufficio di Zelensky, Andriy Yermak. Tutti sapevano che avevano un conflitto. Una volta ho anche assistito a un episodio. A causa del suo incarico, Kuleba aveva contatti diretti ben consolidati con Blinken, con il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock e molti altri. Anche se fosse stato fedele al 300 percento, l’ufficio del presidente non poteva lasciare un tale canale di comunicazione nelle mani di una persona. Persona che non erano del tutto sicuri fosse “dei loro”, se capite cosa intendo». Il messaggio è chiaro: Zelensky sta concentrando il potere nel suo circolo ristretto. Cosa che in guerra è forse anche giustificabile, ma che non qualifica certo l’Ucraina come un tempio della democrazia. Forse è putiniano anche Politico perché lo fa notare?
Ci sarà pure la propaganda russa, come no. Ma i popoli europei sono abbastanza intelligenti per pensare da soli e per farsi un’idea al netto delle pressioni e della disinformazione. Compresa quella fabbricata in Occidente.
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Gennaro Sangiuliano (Ansa)
Gennaro Sangiuliano s’è dimesso: impossibile resistere dopo lo sputtanamento e la goffa confessione in lacrime resa in tv. Ma per Giorgia Meloni è un campanello d’allarme: la caccia alle debolezze private dei suoi è solo all’inizio.
Gennaro Sangiuliano si è arreso. Dopo aver visto fatta a pezzi la sua vita privata, e con la prospettiva di dover assistere a uno stillicidio di rivelazioni sul suo conto e su quello delle persone che lo circondano, il ministro della Cultura ha gettato la spugna. Il suo posto verrà preso da Alessandro Giuli, un altro giornalista, da un paio d’anni alla guida del Maxxi, il museo delle arti del XXI secolo. Da comunque le si guardi, cioè da destra o da sinistra, queste dimissioni sono una brutta storia.
Perché non sono dettate da un illecito o da qualche cosa che attiene alla funzione di titolare del dicastero di via del Collegio Romano, ma da una vicenda personale che avrebbe dovuto riguardare il solo Sangiuliano e le persone coinvolte, cioè sua moglie e la donna con la quale lui stesso ha rivelato di avere avuto una relazione. Purtroppo, da privata che era, la questione è diventata politica e l’ormai ex ministro ci ha messo del suo, pasticciando e non chiarendo subito la faccenda, ma soprattutto presentandosi in tv per rendere confessione dei suoi peccati senza rendersi conto che con le lacrime agli occhi si sarebbe reso ridicolo di fronte all’opinione pubblica. Ma la storia è brutta anche perché una donna fino a ieri sconosciuta ha potuto sbertucciare - e non è detto che avendoci preso gusto non continui a farlo - le istituzioni, facendosi beffa di tutto e di tutti, con una regia che in molti giudicano sospetta. Il tempo ci dirà che cosa vuole Maria Rosaria Boccia e se le dimissioni di Sangiuliano appagheranno la sua sete di vendetta, risarcendola «come donna che si è sentita offesa». Scopriremo insomma se dietro i suoi post, le sue dichiarazioni a orologeria, la sua beffarda ironia, ci sia solo il risentimento per non essere stata nominata consigliere per i grandi eventi culturali oppure altro.
Per ora però due cose sono certe. La prima è un insegnamento, che a me richiama alla mente l’ultima stagione di Silvio Berlusconi premier. Ricordate? Il 25 aprile a Onna, con il fazzoletto tricolore al collo, l’allora presidente del Consiglio raggiunse il massimo del consenso. Però, subito dopo scivolò sui rapporti con Noemi Letizia, la ragazza di Portici a cui accorse per il compleanno. Quello fu l’inizio della sua fine. O se volete l’inizio di un calvario giudiziario che ne demolì l’immagine, anche se poi a distanza di anni fu assolto. Non avendo trovato niente altro con cui incastrarlo, alla fine lo misero in croce per le donne, il suo vero punto debole. Ricordo che Repubblica sguinzagliò per i vicoli della cittadina campana tutti i suoi migliori cronisti: meglio di un’operazione di polizia. Dopo Noemi vennero Letizia D’Addario e poi Ruby Rubacuori e le Olgettine. Le vicende private del premier in breve diventarono politiche. Oggi Berlusconi non c’è più, tuttavia c’è chi sogna di ripetere l’operazione. Prima il caso Giambruno, poi Arianna, infine Sangiuliano. Anche se sono vicende molto diverse tra loro, la storia sembra ripetersi: se non li puoi affondare per quanto fanno in politica puoi sempre provare ad affondare il colpo rimproverando loro ciò che fanno fra le lenzuola, aggiungendo magari un tocco di gossip e affari con Daniela Santanchè.
Se Giorgia Meloni vuole resistere a quello che ormai pare un assedio, deve tenere tutto ciò in massimo conto e soprattutto deve tenere le briglie strette dei suoi ministri e dei suoi collaboratori. Solo così potrà farcela di fronte a un’operazione di rigetto dell’establishment, che considera lei e la squadra che la circonda dei corpi estranei al Sistema.
Il caso Sangiuliano da questo punto di vista stimola una riflessione. Ha detto bene Marcello Veneziani su queste pagine: il ministro della Cultura ha commesso una serie di ingenuità, esponendosi agli attacchi delle opposizioni e della stampa di sinistra. Ma se il suo comportamento privato può essere attaccato dai moralisti col colbacco, altrettanto non si può fare con la sua azione politica. Appena divenuto ministro, Sangiuliano ha smontato il sistema con cui per anni si sono finanziati film di sinistra che nessuno vedeva. Soldi pubblici e tanti, concessi anche a una delle eredi Agnelli, che certo fanno sembrare il presunto biglietto gratuito al concerto dei Coldplay una marachella da schiaffetto sulla guancia. Sangiuliano ha tolto i fondi a una sinistra abituata a considerarsi padrona della Cultura e questa è una decisione che ha pagato e pagherà, perché la sua carriera e non solo politica è conclusa. Al contrario, spero che non faccia la stessa fine la riforma che egli ha voluto per sottrarre il ministero dei Beni culturali ai compagni. Sarebbe un errore imperdonabile. Significherebbe regalare al Sistema, oltre alla testa del ministro, anche la sua opera.
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