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2021-10-13
Più G7 che G20: sfuma il progetto di Draghi
Sono dei risultati in chiaroscuro quelli prodotti dal G20 straordinario sull'Afghanistan, tenutosi ieri pomeriggio in formato virtuale. Presieduto dal presidente del Consiglio Mario Draghi, il consesso si è concentrato sulla situazione dell'attuale regime di Kabul, focalizzandosi soprattutto su questioni spinose come quelle dei flussi migratori, i diritti umani, la tutela delle minoranze e la minaccia terroristica (a partire dall'Isis K).
Il nostro premier, nella conferenza stampa finale, ha parlato di una «convergenza di vedute» per affrontare l'emergenza umanitaria, oltre che di un «mandato» per le Nazioni Unite. «Occorre impedire il collasso economico del Paese», ha dichiarato Draghi, che ha auspicato anche di continuare a lottare contro il Covid-19. Il premier ha ribadito l'importanza del tema dei profughi e dei diritti delle donne, che rischiano - ha detto - di «tornare indietro di vent'anni». «Consenso ha trovato la necessità che l'Afghanistan non torni a essere una specie di rifugio per il terrorismo internazionale», ha aggiunto. Ulteriore focus è stato quello, ha dichiarato Draghi, sull'aeroporto di Kabul, che è essenziale per l'assistenza internazionale, e quello sui Paesi limitrofi per l'accoglienza dei migranti. «Ho invitato tutti a lavorare il più possibile insieme», ha concluso.
In occasione del summit, il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato un pacchetto di aiuti dal valore di un miliardo di euro per la popolazione locale e i Paesi confinanti. A sottolineare la necessità di assistenza umanitaria sono stati anche il presidente americano, Joe Biden, e il premier indiano, Narendra Modi. Tutto questo, mentre la Germania si è detta non ancora pronta a riconoscere il nuovo governo di Kabul. La Turchia, dal canto suo, ha espresso preoccupazione per i flussi migratori e ha proposto la creazione di un gruppo di lavoro - che si è offerta di guidare - per «garantire sicurezza e stabilità» nel Paese.
Qualche passo avanti, insomma, è stato fatto. Ma fino a un certo punto. La riunione di ieri è stata infatti in un certo senso «fiaccata» dalla mancata partecipazione di due leader di primo piano, come il presidente russo, Vladimir Putin, e il suo omologo cinese, Xi Jinping: quest'ultimo, in particolare, è stato rappresentato dal ministro degli Esteri cinese, Wang Yi. Un'assenza, quella di questi capi di Stato, significativa sotto due aspetti complementari.
Da una parte, abbiamo il punto di vista italiano. La mancata partecipazione dei due leader (non a caso minimizzata ieri dal nostro premier) ha infatti parzialmente ridimensionato quello che avrebbe potuto essere un rilevante successo diplomatico per Draghi. Un Draghi che, pur a fronte di questo limite, è comunque riuscito a conseguire alcuni risultati significativi. Non solo ha infatti aperto un format - quello del G20 - storicamente concentrato sulle questioni economiche a un dossier di natura geopolitica. Ma è anche riuscito a portare Roma in una posizione relativamente centrale sulla questione della crisi afghana. Il secondo aspetto da considerare è invece specificamente geopolitico. Ricordiamo infatti che Mosca e Pechino sono le due capitali maggiormente coinvolte a livello diplomatico ed economico nella crisi afghana. Ragion per cui è assai improbabile ritenere possibile arrivare a una soluzione concreta senza il loro pieno benestare. Il fatto che Xi e Putin abbiano quindi, per così dire, snobbato l'appuntamento di ieri lascia intendere che almeno una parte delle decisioni fondamentali per fronteggiare la crisi verrà presa altrove.
Non dimentichiamo del resto che, la settimana scorsa, l'inviato del Cremlino in Afghanistan, Zamir Kabulov, ha annunciato che il prossimo 20 ottobre si terrà un meeting a Mosca sulla crisi di Kabul, a cui prenderanno parte i talebani e altre fazioni afghane. Sempre Kabulov, secondo l'Associated Press, ha reso noto che in questo mese si terranno incontri sul tema tra i rappresentanti di Russia, Stati Uniti, Pakistan e Cina. Tutto questo evidenzia come l'asse sino-russo abbia intenzione di muoversi in maggiore autonomia. Non è d'altronde un mistero che da tempo i talebani guardino con estremo interesse al sostegno finanziario di Pechino. Un fattore, questo, che lascia l'Occidente con delle leve limitate per riuscire ad influenzare politicamente l'Afghanistan. Al momento, continua a restare fondamentalmente ambiguo il ruolo del Pakistan, che sta invocando un forte sostegno economico per Kabul. Tutto questo, mentre la tensione resta alta. Se i talebani hanno invocato buone relazioni internazionali (pur evitando di prendere impegni sui diritti delle donne), il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, ha usato parole molto severe nei confronti dell'attuale leadership di Kabul.
Giorgetti e Guerini uniti sulla Nato. «La sfida è la sovranità tecnologica»
Difesa, futuro e relazioni transatlantiche: questi i principali temi che hanno caratterizzato il settantesimo anniversario di Elettronica: un evento, ricco di ospiti nazionali e internazionali, che si è tenuto ieri presso il Laboratorio di scenografia del Teatro dell'Opera di Roma.
Il presidente e ceo di Elettronica, Enzo Benigni, ha introdotto l'azienda, focalizzandosi sul suo successo e i suoi punti di forza, non mancando poi di toccare il tema della Difesa europea. Un'attenzione al futuro (in raccordo con la storia passata) che è stata sottolineata anche dall'ex sottosegretario, Gianni Letta. Molto attento all'incessante sviluppo tecnologico si è mostrato inoltre il presidente dell'Armenia, Armen Sarkissian. Spazio è stato poi dato alla cybersicurezza, di cui hanno discusso, tra gli altri, il direttore dell'Agenzia per la cybersicurezza nazionale, Roberto Baldoni, e il presidente di Acciaierie d'Italia, Franco Bernabè. «Non esistono più confini tra Difesa e Sicurezza, la digitalizzazione ha reso la nostra vita di tutti i giorni più semplice ma anche più fragile», ha dichiarato il co-amministratore delegato di Elettronica, Domitilla Benigni.
Molto interessante si è poi rivelato il dibattito tra Giancarlo Giorgetti e Lorenzo Guerini sull'industria della Difesa europea. Sotto questo aspetto c'è un gap nei confronti degli Stati Uniti e della Cina, ha detto il titolare del Mise. Un gap che «può essere recuperato». Nel campo della Difesa – ha proseguito – la tecnologia è fondamentale e richiede risorse adeguate: tutto questo, con una proiezione temporale pluriennale. Occorrerebbe inoltre un coordinamento degli sforzi nell'industria europea, ha proseguito Giorgetti. Tutto questo, mentre – secondo il ministro della Difesa – è possibile contare già su una «solida base industriale» in Europa. Bisognerebbe quindi sostenere e consolidare la cooperazione internazionale, anche perché gli eventi afghani hanno fatto da acceleratore notevole sotto questo punto di vista. In tal senso, l'industria della Difesa italiana ha ottime carte da giocare, essendo – secondo Guerini – «molto competitiva». Su tale fronte, i due ministri hanno quindi evidenziato di operare in modo coordinato e in piena sintonia.
L'elemento cyber è entrato sempre più nel settore della Difesa, ha sottolineato inoltre Guerini, citando, tra l'altro, la questione della «bussola strategica» e non nascondendo comunque le difficoltà politiche in vista di una Difesa comune: un dossier, rispetto a cui non bisogna accettare –ha detto– accordi al ribasso. La stessa autonomia strategica, secondo Guerini, non deve porsi in contrasto con la Nato e, anzi, il filone atlantico risulta fondamentale. Giorgetti, dal canto suo, ha evidenziato l'importanza della cybersicurezza anche nell'ambito del Pnrr. Il titolare del Mise ha poi sostenuto che l'Italia debba collaborare con francesi, inglesi e tedeschi, sempre tenendo presente l'eccellenza tecnologica italiana. Il trattato del Quirinale –ha detto– pone una collaborazione in direzione della Francia, ma ciò non esclude collaborazioni con altri Paesi.
Tutto questo deve comunque avere una bussola: la salvaguardia dell'interesse nazionale. Anche Giorgetti ha inoltre sostenuto la necessità di un ancoraggio atlantico del nostro Paese: la stessa autonomia strategica, ha aggiunto, esige che l'Unione europea muti molte delle regole che si è finora data.
Di Nato ha parlato anche il generale Claudio Graziano: un'alleanza che ha definito «un valore da tutelare, ma da integrare con una maggiore presenza dell'Ue». Le iniziative della Difesa europea dovrebbero inserirsi in questo spazio: iniziative che richiedono l'autonomia strategica. Il generale David Petraeus ha, dal canto suo, sottolineato il grande impegno economico degli Stati Uniti nell'Alleanza atlantica. In tal senso, pur non escludendo iniziative europee, ha lasciato tuttavia trasparire quale titubanza al riguardo.
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Xi e Putin, presidenti di Cina e Russia, disertano il vertice straordinario voluto dal premier. Terrorismo, migranti e diritti umani i temi al centro del summit. La Germania non riconosce i talebani. L'Ue promette 1 miliardo in aiuti. Rimane ambiguo il ruolo del Pakistan.I ministri Giorgetti e Guerini hanno parlato al convegno di Elettronica per celebrare i suoi 70 anni di attività.Lo speciale contiene due articoli.Sono dei risultati in chiaroscuro quelli prodotti dal G20 straordinario sull'Afghanistan, tenutosi ieri pomeriggio in formato virtuale. Presieduto dal presidente del Consiglio Mario Draghi, il consesso si è concentrato sulla situazione dell'attuale regime di Kabul, focalizzandosi soprattutto su questioni spinose come quelle dei flussi migratori, i diritti umani, la tutela delle minoranze e la minaccia terroristica (a partire dall'Isis K). Il nostro premier, nella conferenza stampa finale, ha parlato di una «convergenza di vedute» per affrontare l'emergenza umanitaria, oltre che di un «mandato» per le Nazioni Unite. «Occorre impedire il collasso economico del Paese», ha dichiarato Draghi, che ha auspicato anche di continuare a lottare contro il Covid-19. Il premier ha ribadito l'importanza del tema dei profughi e dei diritti delle donne, che rischiano - ha detto - di «tornare indietro di vent'anni». «Consenso ha trovato la necessità che l'Afghanistan non torni a essere una specie di rifugio per il terrorismo internazionale», ha aggiunto. Ulteriore focus è stato quello, ha dichiarato Draghi, sull'aeroporto di Kabul, che è essenziale per l'assistenza internazionale, e quello sui Paesi limitrofi per l'accoglienza dei migranti. «Ho invitato tutti a lavorare il più possibile insieme», ha concluso. In occasione del summit, il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato un pacchetto di aiuti dal valore di un miliardo di euro per la popolazione locale e i Paesi confinanti. A sottolineare la necessità di assistenza umanitaria sono stati anche il presidente americano, Joe Biden, e il premier indiano, Narendra Modi. Tutto questo, mentre la Germania si è detta non ancora pronta a riconoscere il nuovo governo di Kabul. La Turchia, dal canto suo, ha espresso preoccupazione per i flussi migratori e ha proposto la creazione di un gruppo di lavoro - che si è offerta di guidare - per «garantire sicurezza e stabilità» nel Paese. Qualche passo avanti, insomma, è stato fatto. Ma fino a un certo punto. La riunione di ieri è stata infatti in un certo senso «fiaccata» dalla mancata partecipazione di due leader di primo piano, come il presidente russo, Vladimir Putin, e il suo omologo cinese, Xi Jinping: quest'ultimo, in particolare, è stato rappresentato dal ministro degli Esteri cinese, Wang Yi. Un'assenza, quella di questi capi di Stato, significativa sotto due aspetti complementari. Da una parte, abbiamo il punto di vista italiano. La mancata partecipazione dei due leader (non a caso minimizzata ieri dal nostro premier) ha infatti parzialmente ridimensionato quello che avrebbe potuto essere un rilevante successo diplomatico per Draghi. Un Draghi che, pur a fronte di questo limite, è comunque riuscito a conseguire alcuni risultati significativi. Non solo ha infatti aperto un format - quello del G20 - storicamente concentrato sulle questioni economiche a un dossier di natura geopolitica. Ma è anche riuscito a portare Roma in una posizione relativamente centrale sulla questione della crisi afghana. Il secondo aspetto da considerare è invece specificamente geopolitico. Ricordiamo infatti che Mosca e Pechino sono le due capitali maggiormente coinvolte a livello diplomatico ed economico nella crisi afghana. Ragion per cui è assai improbabile ritenere possibile arrivare a una soluzione concreta senza il loro pieno benestare. Il fatto che Xi e Putin abbiano quindi, per così dire, snobbato l'appuntamento di ieri lascia intendere che almeno una parte delle decisioni fondamentali per fronteggiare la crisi verrà presa altrove. Non dimentichiamo del resto che, la settimana scorsa, l'inviato del Cremlino in Afghanistan, Zamir Kabulov, ha annunciato che il prossimo 20 ottobre si terrà un meeting a Mosca sulla crisi di Kabul, a cui prenderanno parte i talebani e altre fazioni afghane. Sempre Kabulov, secondo l'Associated Press, ha reso noto che in questo mese si terranno incontri sul tema tra i rappresentanti di Russia, Stati Uniti, Pakistan e Cina. Tutto questo evidenzia come l'asse sino-russo abbia intenzione di muoversi in maggiore autonomia. Non è d'altronde un mistero che da tempo i talebani guardino con estremo interesse al sostegno finanziario di Pechino. Un fattore, questo, che lascia l'Occidente con delle leve limitate per riuscire ad influenzare politicamente l'Afghanistan. Al momento, continua a restare fondamentalmente ambiguo il ruolo del Pakistan, che sta invocando un forte sostegno economico per Kabul. Tutto questo, mentre la tensione resta alta. Se i talebani hanno invocato buone relazioni internazionali (pur evitando di prendere impegni sui diritti delle donne), il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, ha usato parole molto severe nei confronti dell'attuale leadership di Kabul.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/g20-draghi-2655288396.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="giorgetti-e-guerini-uniti-sulla-nato-la-sfida-e-la-sovranita-tecnologica" data-post-id="2655288396" data-published-at="1634120505" data-use-pagination="False"> Giorgetti e Guerini uniti sulla Nato. «La sfida è la sovranità tecnologica» Difesa, futuro e relazioni transatlantiche: questi i principali temi che hanno caratterizzato il settantesimo anniversario di Elettronica: un evento, ricco di ospiti nazionali e internazionali, che si è tenuto ieri presso il Laboratorio di scenografia del Teatro dell'Opera di Roma. Il presidente e ceo di Elettronica, Enzo Benigni, ha introdotto l'azienda, focalizzandosi sul suo successo e i suoi punti di forza, non mancando poi di toccare il tema della Difesa europea. Un'attenzione al futuro (in raccordo con la storia passata) che è stata sottolineata anche dall'ex sottosegretario, Gianni Letta. Molto attento all'incessante sviluppo tecnologico si è mostrato inoltre il presidente dell'Armenia, Armen Sarkissian. Spazio è stato poi dato alla cybersicurezza, di cui hanno discusso, tra gli altri, il direttore dell'Agenzia per la cybersicurezza nazionale, Roberto Baldoni, e il presidente di Acciaierie d'Italia, Franco Bernabè. «Non esistono più confini tra Difesa e Sicurezza, la digitalizzazione ha reso la nostra vita di tutti i giorni più semplice ma anche più fragile», ha dichiarato il co-amministratore delegato di Elettronica, Domitilla Benigni. Molto interessante si è poi rivelato il dibattito tra Giancarlo Giorgetti e Lorenzo Guerini sull'industria della Difesa europea. Sotto questo aspetto c'è un gap nei confronti degli Stati Uniti e della Cina, ha detto il titolare del Mise. Un gap che «può essere recuperato». Nel campo della Difesa – ha proseguito – la tecnologia è fondamentale e richiede risorse adeguate: tutto questo, con una proiezione temporale pluriennale. Occorrerebbe inoltre un coordinamento degli sforzi nell'industria europea, ha proseguito Giorgetti. Tutto questo, mentre – secondo il ministro della Difesa – è possibile contare già su una «solida base industriale» in Europa. Bisognerebbe quindi sostenere e consolidare la cooperazione internazionale, anche perché gli eventi afghani hanno fatto da acceleratore notevole sotto questo punto di vista. In tal senso, l'industria della Difesa italiana ha ottime carte da giocare, essendo – secondo Guerini – «molto competitiva». Su tale fronte, i due ministri hanno quindi evidenziato di operare in modo coordinato e in piena sintonia. L'elemento cyber è entrato sempre più nel settore della Difesa, ha sottolineato inoltre Guerini, citando, tra l'altro, la questione della «bussola strategica» e non nascondendo comunque le difficoltà politiche in vista di una Difesa comune: un dossier, rispetto a cui non bisogna accettare –ha detto– accordi al ribasso. La stessa autonomia strategica, secondo Guerini, non deve porsi in contrasto con la Nato e, anzi, il filone atlantico risulta fondamentale. Giorgetti, dal canto suo, ha evidenziato l'importanza della cybersicurezza anche nell'ambito del Pnrr. Il titolare del Mise ha poi sostenuto che l'Italia debba collaborare con francesi, inglesi e tedeschi, sempre tenendo presente l'eccellenza tecnologica italiana. Il trattato del Quirinale –ha detto– pone una collaborazione in direzione della Francia, ma ciò non esclude collaborazioni con altri Paesi. Tutto questo deve comunque avere una bussola: la salvaguardia dell'interesse nazionale. Anche Giorgetti ha inoltre sostenuto la necessità di un ancoraggio atlantico del nostro Paese: la stessa autonomia strategica, ha aggiunto, esige che l'Unione europea muti molte delle regole che si è finora data. Di Nato ha parlato anche il generale Claudio Graziano: un'alleanza che ha definito «un valore da tutelare, ma da integrare con una maggiore presenza dell'Ue». Le iniziative della Difesa europea dovrebbero inserirsi in questo spazio: iniziative che richiedono l'autonomia strategica. Il generale David Petraeus ha, dal canto suo, sottolineato il grande impegno economico degli Stati Uniti nell'Alleanza atlantica. In tal senso, pur non escludendo iniziative europee, ha lasciato tuttavia trasparire quale titubanza al riguardo.
Sara Kelany
Funzionano i centri?
«Stanno cambiando cose. In meglio. Oggi sono Cpr ordinari. Il nostro obiettivo era ed è quello di renderli centri per l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera. Sentenze ideologizzate di alcuni giudici italiani hanno incagliato la dinamica. Col pretesto dei Paesi sicuri. Sottolineo che nessuna delle ordinanze emesse ha trattato la posizione dei singoli migranti rispetto al loro diritto di ottenere protezione. Stabilivano che non è lo Stato che può individuare i Paesi sicuri. Ma può esserlo un giudice. Ritenevano che Egitto e Bangladesh non fossero Paesi sicuri».
Lo sono?
«Premesso che sono anche egiziana, ora in Europa la situazione si è finalmente ribaltata. Optando per accelerare sul Patto per la migrazione e l’asilo. Nel Consiglio dei ministri dell’Interno si è approvato un regolamento. Si è fatta una lista dei Paesi sicuri e, guarda caso, sono ricompresi Egitto e Bangladesh. L’Ue dà ragione alle politiche migratorie del governo Meloni, quindi quando entrerà in vigore questo regolamento i centri potranno ritornare pienamente in attività».
Tempistiche?
«Verosimilmente tra gennaio e febbraio il Parlamento Ue dovrà esprimersi. I regolamenti sono direttamente applicabili dagli Stati membri, non abbiamo bisogno di fare direttive di recepimento».
La parola remigrazione rimane un tema. E il 2023 rimane «annus horribilis» in termini di sbarchi.
«Uso più volentieri il termine “rimpatrio”. Il problema dei rimpatri è diffuso in tutta Europa. Abbiamo aumentato e stiamo aumentando del 100% l’anno i rimpatri forzosi. E abbiamo un grandissimo numero di rimpatri volontari assistiti con l’ausilio di Unhcr. Stanno alleggerendo di molto la posizione italiana. Con riferimento al 2023, i dati erano connessi a motivi esogeni. Il conflitto russo-ucraino, disordini e colpi di Stato nel Sahel, tensioni in Libia e Tunisia. Nel 2024, a seguito anche delle politiche di questo governo, che si basano sui controlli delle frontiere, sulla lotta ai trafficanti e sulla esternalizzazione della gestione dei flussi migratori irregolari in partnership coi Paesi terzi, segnatamente Albania, abbiamo registrato un meno 57% di sbarchi sul territorio nazionale. Sulla base di questi dati l’Europa ha guardato con occhi completamente diversi all’Italia e infatti si sta spostando sulle nostre politiche. Governi anche di estrazione diametralmente opposta a quella italiana ci prendono ad esempio. Vedi la Danimarca. Non parliamo di Ue ma di Europa. La Gran Bretagna è laburista. Starmer è venuto in Italia a chiedere alla Meloni: “Come hai fatto?”».
Come spiegarsi il rapporto speciale che c’è fra Italia e Albania?
«Si fonda su due basi. L’autorevolezza del nostro presidente del Consiglio e la personale empatia tra i due presidenti. Il presidente Rama è un socialista ma indipendentemente dall’estrazione politica, quando un premier è autorevole agli occhi del mondo, non può cambiare un rapporto con lo Stato solo e unicamente perché si viaggia su linee politiche differenti».
Zelensky è andato a Londra e ha incontrato Macron, Starmer e Merz. Dopodiché è venuto a Roma. Quei tre non sono stati in grado di dargli delle garanzie e lui è venuto a chiederle a Giorgia Meloni?
«Per l’Ucraina l’Italia è un partner fondamentale nella risoluzione del conflitto. Siamo sempre stati al suo fianco. Siamo sempre stati convinti che difendere l’Ucraina fosse una questione anche di principio, per la difesa di principi democratici europei. Kyev è vittima di un’orrida guerra di aggressione da parte della Russia. L’Italia, oltre ad avere questo tipo di approccio nei confronti dell’Ucraina, è anche una delle nazioni con il miglior rapporto gli Stati Uniti. Non ci dobbiamo dimenticare che gli Usa sono fondamentali affinché si arrivi a una risoluzione. Ed è ineliminabile l'apporto di Donald Trump in questa faccenda, così come lo è stato e lo sarà nelle questioni mediorientali. Giorgia Meloni è il leader, tra questi che mi hai menzionato, più forte e più stabile in Europa. Macron, Starmer e Merz sono più deboli. La loro debolezza interna si riflette anche in politica estera».
Il documento pubblicato sul sito della Casa Bianca è motivo di imbarazzo o di orgoglio per voi?
«Non è né motivo di imbarazzo né motivo di orgoglio. È una fotografia. Naturalmente la grammatica politica degli Stati Uniti non è la nostra. Noi non possiamo guardare la politica statunitense con i nostri occhi. Non siamo abituati ai loro toni. Ciò non significa che noi non dobbiamo continuare a conservare un rapporto privilegiato. Saldamente ancorato all’Occidente. Perché io mi chiedo e chiedo alle sinistre italiane: l’alternativa qual è? La Cina? Noi non vogliamo avere come alternativa la Cina. Finché ci saremo noi al governo».
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Elly Schlein e Stefano Bonaccini (Ansa)
L’assemblea dem non incorona Schlein come candidata premier Gori si fa portavoce dei riformisti: «Il Green deal va ripensato».
Suggerimento, gratis, per i talk televisivi: si sottopongano Elly Schlein e i dirigenti del Pd, tipo l’economista Francesco Boccia, al test della michetta. Ieri la segretaria che sperava di cambiare lo statuto – tentativo fallito – per farsi incoronare candidata unica alla presidenza del Consiglio e che sta tentando di rinviare il congresso (cade a marzo 2027 e se per caso lo perdesse non riuscirebbe neppure ad avvicinarsi a Palazzo Chigi), se n’è uscita con una battuta alimentare: «Meloni festeggia l’Unesco, ma il frigo degli italiani è sempre più vuoto, la sua calcolatrice è rotta: vada nei supermercati e guardi quanto sono aumentati i prezzi». Chissà se Elly Schlein sa quanto costa il pane al chilo e un etto di mandorle. Lei è vegetariana e chiederle del prosciutto sarebbe indelicato.
L’assemblea del Pd, convocata ieri a Roma in concomitanza con Atreju per non lasciare troppo spazio a Giorgia Meloni, ha ricordato, se ancora ce ne fosse bisogno, che per i dem vale tutto. Ma soprattutto ha lasciato in sospeso le polemiche interne: congelate perché si doveva tentare di offuscare la comunicazione Fdi. La Schlein ha evitato qualsiasi voto e qualsiasi argomento divisivo. Ha fatto un po’ di propaganda e nulla più. Così vale che Stefano Bonaccini, dopo averne dette di ogni contro la segretaria annunci che la sua corrente Energia popolare rientra in maggioranza e porti solidarietà ai giornalisti del gruppo Gedi così come l’hanno data alle vittime ebree di Bondi Beach. A Repubblica e alla Stampa al massimo cambiano padrone, in Australia gli amici di Hamas, non così distanti dai pro Pal e da Francesca Albanese a cui i sindaci Pd consegnano le chiavi delle città, hanno ammazzato. Ma è brutto dirlo nel giorno in cui Elly Schlein s’ingegna a sfidare Giorgia Meloni su tutto. «Anche tanti di coloro che hanno votato per questa destra capiscono che non ha fatto nulla per la crescita; Arianna Meloni ci ha detto che loro priorità sono il premierato e la legge elettorale perché hanno paura di perdere». La Schlein si sente già al governo e annuncia: «Metteremo 3 miliardi in più sulla sanità, faremo il salario minimo a 9 euro, abbatteremo il prezzo dell’energia scollegandolo da quello del gas». Il fatto è che per battere «queste destre che delegittimano l’Onu, il diritto internazionale e facendo i vassalli non difendono l’interesse nazionale» ci vogliono i voti. Elly Schlein azzarda: «I voti assoluti della nostra coalizione e di quella del governo sono sostanzialmente pari ma siamo il primo partito con i voti reali, non nei sondaggi, nei voti veri». A essersi rotta deve essere la sua calcolatrice, non quella della Meloni.
Comunque la prospettiva – anche se Giuseppe Conte proprio da Atreju le ha fatto sapere che i 5 stelle non sono alleati col Pd – è «confrontiamoci anche aspramente, ma costruiamo l’alternativa: è tempo che l’Italia ricominci a sognare e a sperare». Così da gennaio lei parte per un tour programmatico. Doveva andare in giro a parlare del Pd, ma meglio dare addosso alla Meoni che fare i conti con i suoi. Che ieri hanno disertato la direzione nazionale che ha solo votato la relazione della segretaria (225 voti a favore e 36 astenuti) per evitare di palesare le fratture che invece ci sono. L’ala dura dei riformisti ha scelto di rinviare il confronto salvo Giorgio Gori, eurodeputato ex sindaco di Bergamo che all’assemblea ha scandito: «Il Pd ha perso la fiducia, sia della maggioranza degli operai, ma anche degli imprenditori. La sinistra è considerata lontana dal mondo dell’impresa. Serve il riformismo concreto e coraggioso di cui parla Prodi. Il Green deal fatica a tenere insieme obiettivi ambientali e tutele sociali, dobbiamo avere il coraggio di dirlo e promuovere un nuovo e diverso Green deal», ha concluso Gori, «proporre un patto fra istituzioni, imprese e lavoro. La destra porta il Paese al declino, il Pd può presentarsi e vincere le elezioni come partito della crescita e della redistribuzione». La Schlein per ora si occupa dei supermercati, la grande distribuzione.
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Meloni ha poi lanciato un altro attacco all’opposizione a proposito di Abu Mazen, presidente della Palestina: «La sua bella presenza qui ad Atreju fa giustizia delle accuse vergognose di complicità in genocidio che una sinistra imbarazzante ci ha rivolto per mesi». E ancora contro la sinistra: «La buona notizia è che ogni volta che loro parlano male di qualcosa va benissimo. Cioè parlano male di Atreju ed è l’edizione migliore di sempre, parlano male del governo, il governo sale nei sondaggi, hanno tentato di boicottare una casa editrice, è diventata famosissima. Cioè si portano da soli una sfiga che manco quando capita la carta della Pagoda al Mercante in fiera, visto che siamo in clima natalizio. E allora grazie a tutti quelli che hanno fatto le macumbe». L’altra stilettata ironica a proposito del premio dell’Unesco che riconosce la cucina italiana come bene immateriale dell’umanità: «A sinistra non è andato bene manco questo. Loro non sono riusciti a gioire per un riconoscimento che non è al governo ma alle nostre mamme e nonne, alle nostre filiere, alla nostra tradizione, alla nostra identità. Hanno rosicato così tanto che è una settimana che mangiano tutti dal kebabbaro. Veramente roba da matti». Ricordando l’unità della coalizione, Meloni ha sottolineato che questa destra «non è un incidente della storia» rivendicando le iniziative adottate in tre anni di esecutivo. Il premier ha poi toccato i temi di attualità e a proposito dell’equità fiscale rivendicata dall’opposizione ha scandito: «Non accettiamo lezioni da chi fa il comunista con il ceto medio e il turbo capitalista a favore dei potenti. Oggi il Pd si indigna perché gli Elkann vogliono vendere il gruppo Gedi e non ci sarebbero garanzie per i lavoratori però quando chiudevano gli stabilimenti di Stellantis ed erano gli operai a perdere il posto di lavoro, tutti muti. Anche Landini sul tema fischiettava». Non sono mancati i riferimenti ai temi caldi del centrodestra: immigrazione, riforma della giustizia, guerra in Ucraina ed Ue con il disimpegno di Trump e il Green Deal.
Sul palco anche i due vicepremier. «La mia non vuole essere solo una presenza formale, ma una presenza per riconfermare un impegno che tutti noi abbiamo preso nel 1994» ha detto il leader di Fi Antonio Tajani. «Ma gli accordi di alleanze fatte soprattutto di lealtà e impegno, devono essere rinnovati ogni giorno. La ragione di esistere di questa coalizione è fare l’interesse di ciascuno dei 60 milioni di cittadini italiani. E lo possiamo fare garantendo, grazie all’unità di questa coalizione, stabilità politica a questo Paese». Per il leader leghista Matteo Salvini “c’è innanzitutto l’orgoglio di esserci dopo tanti anni. Ci provano in tutti i modi a far litigare me e Giorgia. Ma amici giornalisti, mettetevi l’anima in pace: non ci riuscirete mai». Poi il ministro dei Trasporti ha assicurato che farà «di tutto» per avviare i lavori per il Ponte sullo Stretto, ha rilanciato sull’innalzamento del tetto del contante e sull’impegno anti maranza e infine ricordato come il governo stia facendo un buon lavoro nella tassazione delle banche.
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