True
2023-12-01
Francisco Goya: Milano rende omaggio al grande genio spagnolo
True
L'allestimento della mostra Francisco Goya. La ribellione della ragione a Palazzo Reale di Milano. Ph. Carlotta Coppo
Una vita lunga quella di Francisco José de Goya y Lucientes (o più semplicemente Goya), nato a Fuendetodos, in Aragona, Spagna, nel 1746 e spentosi in Francia, a Bordeaux, nel 1828. Ottantadue anni che si snodano fra due secoli cruciali per la storia del mondo, che passa dall’età moderna a quella contemporanea: a fare da spartiacque, la Rivoluzione Francese. Dopo il 14 luglio del 1789, nulla sarà mai più come prima. Luigi XVI e consorte lasciano sulla ghigliottina le teste coronate e all’orizzonte si profila un nuovo Sole, che di nome fa Napoleone. Un generale corso piccolo di statura, ma la cui forza crea un Impero. Un Impero vastissimo ma non eterno, e al suo sgretolarsi, la Restaurazione (1815) cercherà (più o meno inutilmente) di riportare tutto «come prima».
A tutti questi cambiamenti assiste anche Francisco Goya, pittore preferito dalla nobiltà spagnola e, dal 1786, pittore di corte - pintor del rey - di re Carlo IV . Pittore di corte si, ma non cicisbeo adulatore… E basta pensare ad alcune delle sue opere più celebri (per esempio al ritratto corale La Famiglia di Carlo IV) per capire che alla nobiltà, sovrani compresi, Goya non risparmiava nulla. Nemmeno i difetti. Non li abbelliva né li imbruttiva. Li ritraeva così com’erano: fisicamente mediocri (quando non proprio brutti), spocchiosi, vanitosi. Una pittura realistica la sua, ma difficile da inquadrare in una sola corrente: «nella pittura non ci sono regole» era solito dire. E nell’operare non si smentiva. Ammiratore di Tiepolo, Velázquez e Rembrandt, la sua arte, come la sua vita, passò per la razionalità illuminista e l’inquietudine romantica. Fu luce e fu ombra. Entusiasmo e delusione. A creare uno iato, una spaccatura irreversibile fra «un prima e un dopo », due fatti estremi: la sordità, che lo colpì ne 1792 e gli cambiò per sempre la modalità di affrontare (e rappresentare) la vita e, nel 1808, la sanguinosa invasione della Spagna da parte delle truppe francesi guidate da Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone. E’ in questi anni, per denunciare le atrocità abominevoli commesse dagli invasori d’oltralpe, che Goya dipinge Il Colosso, il ciclo dei Disastri della guerra e, nel 1814, durante la Restaurazione borbonica, la famosa e drammatica tela La fucilazione del 3 maggio 1808.
Vita, storia, arte. In Goya, più che in ogni altro pittore del suo tempo, sono elementi strettamente legati, imprescindibili gli uni dagli altri. Goya, «dall’osservatorio privilegiato» della corte di Madrid, vive la storia e dipinge la vita. La sua sordità a fare «da filtro»: è il primo artista le cui opere sono frutto di esperienze, di sentimenti personali, di passioni e sofferenze, nonché della sua visione del mondo che lo circonda. È uno dei primi artisti a identificarsi con la vita ed è per questo che è impossibile comprendere la sua pittura senza conoscere la sua vita, né la sua vita se non attraverso la sua pittura.
E raccontare il mondo di Goya, la sua esperienza nella e della storia, il suo pensiero, la sua evoluzione artistica e i temi da lui trattati, è l’obiettivo di Goya. La ribellione della ragione, la straordinaria antologica in corso a Palazzo Reale di Milano, una mostra che ha la particolarità unica di mostrare al visitatore non solo la visione di alcuni fra i capolavori pittorici del genio spagnolo, ma anche – e questa è la vera novità – di una serie di straordinarie e preziose incisioni ( che lo resero maestro assoluto di quest’arte), affiancate dalle loro originali matrici di rame.
La Mostra e le opere
Così come l’arte di Goya parte dalla «luminosa » formazione accademica per arrivare a rappresentare gli «oscuri» orrori della Guerra d’indipendenza spagnola, anche il percorso espositivo - ideato dallo Studio Novembre - si sviluppa simbolicamente dalla luce al buio. Trasmigra, sempre come l’arte di Goya, dal claro alla pinturas nigras, quella dai toni cupi e neri della vecchiaia, quella che sgorga da un uomo ferito e tradito, segnato dalla malattia e disilluso dalla rivoluzione francese e da una società malevola e becera, da cui si sente estraneo.
Visitare questa mostra, significa essenzialmente due cose: significa «vivere la storia » - la Storia nel senso più stretto del termine (quella fatta di date e di avvenimenti) e quella di un uomo e di un artista che nella Storia si muove e che la Storia la rappresenta - e significa scoprire (o riscoprire) un’arte rivoluzionaria e in continuo divenire, figlia di un artista che, pur profondamente integrato nel suo tempo, apre in modo irreversibile alla modernità: non dimentichiamoci che Goya è anche l’autore della famosissima Maja desnuda (opera conservata a El Prado di Madrid e non in mostra a Palazzo Reale), il primo dipinto in cui viene rappresentata una donna con i peli pubici e la linea nigra ben delineata …« Attraverso le sue opere – ha commenttoa Víctor Nieto Alcaide, curatore dell’esposizione milanese - Goya appare come l’origine, l’inizio e il punto di partenza di tutte le forme di pittura moderne».
Tra le opere in mostra, assolutamente da ammirare la serie di ritratti, il famoso Autoritratto al cavalletto (1785), Il Colosso (1808) e, splendide, le tele «corali » Il manicomio e la Processione di flagellanti , entrambe realizzate fra il 1808 e il 1812 ed entrambe cariche di un pathos e di una pietas profondamente moderna. Quegli stessi sentimenti che si ritrovano anche in molte delle incisioni esposte, tutte incentrate sulla critica alla guerra e sull’irrazionale volo libero dell’immaginario.
Continua a leggereRiduci
A Palazzo Reale, sino al 3 marzo 2024, l’attesissima mostra dedicata al grande maestro spagnolo che visse a cavallo fra due epoche. Fra dipinti e incisioni - affiancate dalle loro matrici in rame recentemente restaurate - sono esposte oltre settanta opere, alla scoperta di un genio pittorico che seppe fondere nella sua arte ragione illuminista ed emotività romantica. Una vita lunga quella di Francisco José de Goya y Lucientes (o più semplicemente Goya), nato a Fuendetodos, in Aragona, Spagna, nel 1746 e spentosi in Francia, a Bordeaux, nel 1828. Ottantadue anni che si snodano fra due secoli cruciali per la storia del mondo, che passa dall’età moderna a quella contemporanea: a fare da spartiacque, la Rivoluzione Francese. Dopo il 14 luglio del 1789, nulla sarà mai più come prima. Luigi XVI e consorte lasciano sulla ghigliottina le teste coronate e all’orizzonte si profila un nuovo Sole, che di nome fa Napoleone. Un generale corso piccolo di statura, ma la cui forza crea un Impero. Un Impero vastissimo ma non eterno, e al suo sgretolarsi, la Restaurazione (1815) cercherà (più o meno inutilmente) di riportare tutto «come prima». A tutti questi cambiamenti assiste anche Francisco Goya, pittore preferito dalla nobiltà spagnola e, dal 1786, pittore di corte - pintor del rey - di re Carlo IV . Pittore di corte si, ma non cicisbeo adulatore… E basta pensare ad alcune delle sue opere più celebri (per esempio al ritratto corale La Famiglia di Carlo IV) per capire che alla nobiltà, sovrani compresi, Goya non risparmiava nulla. Nemmeno i difetti. Non li abbelliva né li imbruttiva. Li ritraeva così com’erano: fisicamente mediocri (quando non proprio brutti), spocchiosi, vanitosi. Una pittura realistica la sua, ma difficile da inquadrare in una sola corrente: «nella pittura non ci sono regole» era solito dire. E nell’operare non si smentiva. Ammiratore di Tiepolo, Velázquez e Rembrandt, la sua arte, come la sua vita, passò per la razionalità illuminista e l’inquietudine romantica. Fu luce e fu ombra. Entusiasmo e delusione. A creare uno iato, una spaccatura irreversibile fra «un prima e un dopo », due fatti estremi: la sordità, che lo colpì ne 1792 e gli cambiò per sempre la modalità di affrontare (e rappresentare) la vita e, nel 1808, la sanguinosa invasione della Spagna da parte delle truppe francesi guidate da Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone. E’ in questi anni, per denunciare le atrocità abominevoli commesse dagli invasori d’oltralpe, che Goya dipinge Il Colosso, il ciclo dei Disastri della guerra e, nel 1814, durante la Restaurazione borbonica, la famosa e drammatica tela La fucilazione del 3 maggio 1808. Vita, storia, arte. In Goya, più che in ogni altro pittore del suo tempo, sono elementi strettamente legati, imprescindibili gli uni dagli altri. Goya, «dall’osservatorio privilegiato» della corte di Madrid, vive la storia e dipinge la vita. La sua sordità a fare «da filtro»: è il primo artista le cui opere sono frutto di esperienze, di sentimenti personali, di passioni e sofferenze, nonché della sua visione del mondo che lo circonda. È uno dei primi artisti a identificarsi con la vita ed è per questo che è impossibile comprendere la sua pittura senza conoscere la sua vita, né la sua vita se non attraverso la sua pittura. E raccontare il mondo di Goya, la sua esperienza nella e della storia, il suo pensiero, la sua evoluzione artistica e i temi da lui trattati, è l’obiettivo di Goya. La ribellione della ragione, la straordinaria antologica in corso a Palazzo Reale di Milano, una mostra che ha la particolarità unica di mostrare al visitatore non solo la visione di alcuni fra i capolavori pittorici del genio spagnolo, ma anche – e questa è la vera novità – di una serie di straordinarie e preziose incisioni ( che lo resero maestro assoluto di quest’arte), affiancate dalle loro originali matrici di rame.La Mostra e le opereCosì come l’arte di Goya parte dalla «luminosa » formazione accademica per arrivare a rappresentare gli «oscuri» orrori della Guerra d’indipendenza spagnola, anche il percorso espositivo - ideato dallo Studio Novembre - si sviluppa simbolicamente dalla luce al buio. Trasmigra, sempre come l’arte di Goya, dal claro alla pinturas nigras, quella dai toni cupi e neri della vecchiaia, quella che sgorga da un uomo ferito e tradito, segnato dalla malattia e disilluso dalla rivoluzione francese e da una società malevola e becera, da cui si sente estraneo. Visitare questa mostra, significa essenzialmente due cose: significa «vivere la storia » - la Storia nel senso più stretto del termine (quella fatta di date e di avvenimenti) e quella di un uomo e di un artista che nella Storia si muove e che la Storia la rappresenta - e significa scoprire (o riscoprire) un’arte rivoluzionaria e in continuo divenire, figlia di un artista che, pur profondamente integrato nel suo tempo, apre in modo irreversibile alla modernità: non dimentichiamoci che Goya è anche l’autore della famosissima Maja desnuda (opera conservata a El Prado di Madrid e non in mostra a Palazzo Reale), il primo dipinto in cui viene rappresentata una donna con i peli pubici e la linea nigra ben delineata …« Attraverso le sue opere – ha commenttoa Víctor Nieto Alcaide, curatore dell’esposizione milanese - Goya appare come l’origine, l’inizio e il punto di partenza di tutte le forme di pittura moderne».Tra le opere in mostra, assolutamente da ammirare la serie di ritratti, il famoso Autoritratto al cavalletto (1785), Il Colosso (1808) e, splendide, le tele «corali » Il manicomio e la Processione di flagellanti , entrambe realizzate fra il 1808 e il 1812 ed entrambe cariche di un pathos e di una pietas profondamente moderna. Quegli stessi sentimenti che si ritrovano anche in molte delle incisioni esposte, tutte incentrate sulla critica alla guerra e sull’irrazionale volo libero dell’immaginario.
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
Continua a leggereRiduci
content.jwplatform.com
Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
Continua a leggereRiduci
Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
Continua a leggereRiduci
Kennedy Jr (Ansa)
D’ora in avanti, le donne che risultano negative al test per l’epatite B potranno decidere, consultando il proprio medico, se vaccinare o no alla nascita il proprio bambino. I membri che hanno votato a favore delle nuove raccomandazioni hanno sostenuto che il rischio di contrarre il virus è basso, e che i vaccini dovrebbero essere personalizzati.
Il gruppo di lavoro dell’Acip, rinnovato dallo scorso giugno dal segretario alla Salute Robert F. Kennedy Jr. ha suggerito di attendere almeno i 2 mesi di età per la prima dose. La vaccinazione continuerà a essere somministrata ai neonati di madri che risultano positive, o il cui stato di salute è sconosciuto. Il direttore facente funzioni dei Cdc, Jim O’Neill, ora dovrà decidere se adottare o meno queste raccomandazioni.
La commissione ha inoltre votato a favore della consultazione dei genitori con gli operatori sanitari, per sottoporre i figli a test sulla ricerca degli anticorpi contro l’epatite B prima di decidere se sia necessario somministrare altre dosi del vaccino. Attualmente, dopo la prima i bambini ricevono la seconda a 1-2 mesi di età e la terza tra i 6 e i 18 mesi.
Kennedy ha già limitato l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e raccomandato che i neonati vengano vaccinati separatamente contro la varicella. Susan Kressly, presidente dell’American academy of pediatrics, ha affermato che il cambiamento apportato dall’Acip renderà i bambini americani meno sicuri. «Esorto i genitori a parlare con il pediatra e a vaccinarsi contro l’epatite B alla nascita, indipendentemente dallo stato di salute della madre», è stato il suo appello.
Il presidente Donald Trump, invece, ha commentato soddisfatto l’esito della votazione. Con un post su Truth, venerdì sera aveva definito «un’ottima decisione porre fine alla raccomandazione sul vaccino contro l’epatite B per i neonati, la stragrande maggioranza dei quali non corre alcun rischio di contrarre una malattia che si trasmette principalmente per via sessuale o tramite aghi infetti. Il calendario vaccinale infantile americano richiedeva da tempo 72 “iniezioni” per bambini perfettamente sani, molto più di qualsiasi altro Paese al mondo e molto più del necessario. In effetti, è ridicolo! Molti genitori e scienziati hanno messo in dubbio, così come me, l’efficacia di questo “programma”».
Trump ha poi annunciato di avere appena firmato «un memorandum presidenziale che ordina al dipartimento della Salute e dei Servizi Umani di “accelerare” una valutazione completa dei calendari vaccinali di altri Paesi del mondo e di allineare meglio quello statunitense, in modo che sia finalmente radicato nel Gold Standard della scienza e del buon senso», ha concluso il presidente.
Prima del voto, questa settimana dodici ex dirigenti della Fda avevano contestato sul The New England journal of medicine la proposta di revisione delle approvazioni dei vaccini da parte dell’agenzia, sostenendo che i cambiamenti minacciano gli standard basati sulle prove, indeboliscono le pratiche di immunobridging (strategia scientifica e normativa che confronta i marcatori della risposta immunitaria indotti da un vaccino in diverse situazioni per stimare l’efficacia del vaccino) e rischiano di erodere la fiducia del pubblico.
A proposito della nota interna di Vinay Prasad, direttore della divisione vaccini della Food and drug administration (Fda), che dieci giorni ha sostenuto che «non meno di 10» dei 96 decessi infantili segnalati tra il 2021 e il 2024 al Vaers, il sistema federale di segnalazione degli eventi avversi da vaccino, erano «correlati» alle somministrazioni di dosi contro il Covid, i dodici si affannano a criticarla. «Prove sostanziali dimostrano che la vaccinazione può ridurre il rischio di malattie gravi e di ospedalizzazione in molti bambini e adolescenti», dichiarano. Dati che non risultano confermati da nessuno studio o revisione paritaria.
Sul continuo attacco alle scelte operate nel campo delle vaccinazioni dalla nuova amministrazione americana interviene il professor Francesco Cetta, ordinario di Chirurgia e docente di Intelligenza artificiale umanizzata presso lo Iassp (Istituto di alti studi strategici e politici). «Trump non è contro la scienza, come urla ad alta voce la sinistra nostrana», commenta. «Al contrario, pragmaticamente, per i problemi che non conosce, ha insediato nuove commissioni indipendenti di esperti, in grado di acclarare in tempi brevi, per quanto possibile, la verità su due argomenti particolarmente sensibili come le vaccinazioni e gli effetti dei cambiamenti climatici. E su che cosa si può fare in concreto per controllarli. Con quali costi e benefici per la comunità».
Il professore aggiunge: «Bisogna evitare le terapie a tappeto, indistintamente uguali per tutti, ma adattare ad ogni malato il suo trattamento come un “abito su misura”. In particolare, per alcune categorie come i bambini e le donne in gravidanza, bisogna valutare con attenzione vantaggi e svantaggi della somministrazione di ogni farmaco, incluso i vaccini, che determinano una perturbazione delle difese immunitarie individuali».
Considerazioni che dovrebbero essere fatte anche dal nostro ministero della Salute e dalle varie associazioni mediche che non ammettono revisioni dei metodi vaccinali.
Continua a leggereRiduci